LE VITE DE' PIÙ ECCELLENTI PITTORI SCULTORI ARCHITETTORI,

Scritte

DA M. GIORGIO VASARI PITTORE ET ARCHITETTO ARETINO,

Di Nuovo dal Medesimo Riviste Et Ampliate
CON I RITRATTI LORO Et con l'aggiunta delle Vite de' vivi, & de' morti Dall'anno 1550 infino al 1567.

Con le Tavole in ciascun volume, Delle cose più Notabili, De' Ritratti, Delle vite degli Artefici, et dei Luoghi dove sono l'opere loro.

ALLO ILLUSTRISSIMO ET ECCELLENTISSIMO SIGNOR

COSIMO MEDICI DUCA DI FIORENZA E SIENA

SIGNOR SUO OSSERVANDISSIMO

Ecco dopo diciassette anni ch'io presentai quasi abbozzate a Vostra Eccellenza Illustrissima le vite de' più celebri pittori, scultori et architetti, che elle Vi tornano innanzi, non pure del tutto finite, ma tanto da quello che ell'erano immutate, et in guisa più adorne e ricche d'infinite opere, delle quali insino allora io non aveva potuto avere altra cognizione, che per mio aiuto non si può in loro, quanto a me, alcuna cosa desiderare. Ecco, dico, che di nuovo Vi si presentano, Illustrissimo e veramente Eccellentissimo signor Duca, con l'aggiunta d'altri nobili e molti famosi artefici, che da quel tempo insino a oggi sono dalle miserie di questa passati a miglior vita, e d'altri che ancorché fra noi vivano, hanno in queste professioni sì fattamente operato, che degnissimi sono d'eterna memoria.

E di vero è a molti stato di non piccola ventura, che io sia per la benignità di Colui a cui vivono tutte le cose, tanto vivuto, che io abbia questo libro quasi tutto fatto di nuovo: perciò che, come ne ho molte cose levate, che senza mia sa-puta et in mia assenza vi erano, non so come, state poste, et altre rimutate, così ve ne ho molte utili e necessarie, che mancavono, aggiunte. E se le effigie e' ritratti che ho posti di tanti valenti uomini in questa opera, dei quali una gran parte si sono avuti con l'aiuto e per mezzo di Vostra Eccellenzia, non sono alcuna volta ben simili al vero, e non tutti hanno quella proprietà e simiglianza che suol dare loro la vivezza de' colori, non è però che il disegno et i lineamenti non sieno stati tolti dal vero, e non siano e proprii e naturali: senzaché essendomene una gran parte stati mandati dagli amici che ho in diversi luoghi, non sono tutti stati disegnati da buona mano.

Non mi è anco stato in ciò di piccolo incommodo la lontananza di chi ha queste teste intagliate, però che se fussino stati gli intagliatori appresso di me, si sarebbe per avventura intorno a ciò potuto molto più diligenza, che non si è fatto, usare. Ma, comunche sia, abbiano i virtuosi e gli artefici nostri, a comodo e benefizio de' quali mi sono messo a tanta fatica, di quanto ci averanno di buono, d'utile e di giovevole, obbligo di tutto a Vostra Eccellenza Illustrissima; poiché, in stando io al servigio di Lei, ho avuto con lo ozio che Le è piaciuto di darmi, e col maneggio di molte, anzi infinite, Sue cose, comodità di mettere insieme e dare al mondo tutto quello che al perfetto compimento di questa opera parea si richiedesse; e non sarebbe quasi impietà nonché ingratitudine che io ad altri dedicassi queste vite, o che gli artefici da altri che da Voi riconoscessino qualunque cosa in esse averanno di giovamento o piacere! Quando non pure col vostro aiuto e favore uscirono da prima et ora di nuovo in luce, ma siete Voi, ad imitazione degli avoli Vostri, solo padre, signore et unico protettore di esse nostre arti.

Onde è bene degna e ragionevole cosa, che da quelle sieno fatte in Vostro servigio et a Vostra eterna e perpetua memoria tante pitture e statue nobilissime, e tanti maravigliosi edifizii di tutte le maniere. Ma se tutti Vi siamo, che siamo infinitamente per queste e altre cagioni, obbligatissimi, quanto più Vi debbo io, che ho da Voi sempre avuto (così al desìo e buon volere avesse risposto l'ingegno e la mano) tante onorate occasioni di mostrare il mio poco sapere: che, qualunque egli sia, a grandissimo pezzo non agguaglia nel suo grado la grandezza dell'animo Vostro, e la veramente reale magnificenza. Ma che fo io! è pur meglio che così me ne stia, che io mi metta a tentare quello, che a qualunche e più alto e nobile ingegno, nonché al mio piccolissimo, sarebbe del tutto impossibile. Accetti dunque Vostra Eccellenza Illustrissima questo mio, anzi pur Suo, libro delle vite degli artefici del disegno, et a somiglianza del grande Iddio più all'animo mio et alle buone intenzioni che all'opera riguardando, da me prenda ben volentieri, non quello che io vorrei e doverrei, ma quello che io posso.

Di Fiorenza, alli 9 di gennaio 1568. Di Vostra Eccellenzia Illustrissima obligatissimo servitore

GIORGIO VASARI

ALLO ILLUSTRISSIMO ED ECCELLENTISSIMO SIGNORE

IL SIGNOR COSIMO DE' MEDICI DUCA DI FIORENZA

SIGNORE MIO OSSERVANDISSIMO

Poi che la Eccellenzia Vostra, seguendo in ciò l'orme degli Illustrissimi Suoi progenitori e da la naturale magnanimità Sua incitata e spinta, non cessa di favorire e d'esaltare ogni sorte di virtù, dovunque ella si truovi, et ha spezialmente protezzione dell'arti del disegno, inclinazione agli artefici d'esse, cognizione e diletto delle belle e rare opere loro, penso che non Le sarà se non grata questa fatica presa da me di scriver le vite, i lavori, le maniere e le condizioni di tutti quelli che essendo già spente, l'hanno primieramente risuscitate, di poi di tempo in tempo accresciute, ornate e condotte finalmente a quel grado di bellezza e di maestà dove elle si trovano a' giorni d'oggi. E perciò che questi tali sono stati quasi tutti Toscani e la più parte Suoi Fiorentini e molti d'essi dagli Illustrissimi Antichi Suoi con ogni sorte di premii e di onori incitati et aiutati a mettere in opera, si può dire che nel Suo stato, anzi nella Sua felicissima casa siano rinate, e per benefizio de' Suoi medesimi abbia il mondo queste bellissime arti ricuperate, e che per esse nobilitato e rimbellito si sia. Onde, per l'obligo che questo secolo, queste arti e questa sorte d'artefici debbono comunemente agli Suoi et a Lei, come erede della virtù Loro e del Loro patrocinio verso queste professioni; e per quello che Le debbo io particularmente per avere imparato da Loro, per esserLe suddito, per esserLe devoto, perché mi sono allevato sotto Ippolito Cardinale de' Medici e sotto Alessandro suo antecessore; e perché sono infinitamente tenuto alle felici ossa del Magnifico Ottaviano de' Medici, dal quale io fui sostentato, amato e difeso, mentre che e' visse, per tutte queste cose, dico, e perché dalla grandezza del valore e della fortuna Sua verrà molto di favore a quest'opera e dall'intelligenza, ch'Ella tiene del suo soggetto meglio che da nessun altro, sarà considerata l'utilità di essa e la fatica e la diligenza fatta da me per condurla; mi è parso che a l'Eccellenza Vostra solamente si convenga di dedicarla; e sotto l'onoratissimo no-me Suo ho voluto che ella pervenga a le mani degli uomini.

Degnisi adunque l'Eccellenza Vostra d'accettarla, di favorirla, e, se da l'altezza de' Suoi pensieri Le sarà concesso, talvolta di leggerla, riguardando alla qualità delle cose che vi si trattano e alla pura mia intenzione; la quale è stata non di procacciarmi lode come scrittore, ma come artefice di lodar l'industria ed avvivar la memoria di quelli che avendo dato vita ed ornamento a queste professioni, non meritano che i nomi e l'opere loro siano in tutto, così com'erano, in preda della morte e della oblivione. Oltra che in un tempo medesimo, con l'esempio di tanti valenti uomini e con tante notizie di tante cose, che da me sono state raccolte in questo libro, ho pensato di giovar non poco a' professori di questi esercizi, e di dilettare tutti gli altri che ne hanno gusto e vaghezza. Il che mi sono ingegnato di fare con quella accuratezza e con quella fede che si ricerca alla verità della storia e delle cose che si scrivono. Ma se la scrittura per essere incolta e così naturale com'io favello, non è degna de lo orecchio di Vostra Eccellenzia, né de' meriti di tanti chiarissimi ingegni, scusimi, quanto a loro, che la penna d'un disegnatore, come furono essi ancora, non ha più forza di linearli e d'ombreggiarli; e, quanto a Lei, mi basti che Ella si degni di gradire la mia semplice fatica, considerando che la necessità di procacciarmi i bisogni della vita non mi ha concesso che io mi eserciti con altro mai che col pennello. Né anche con questo son giunto a quel termine, al quale io mi imagino di potere aggiugnere, ora che la fortuna mi promette pur tanto di favore, che con più commodità e con più lode mia e con più satisfazione altrui potrò forse così col pennello come anco con la penna spiegare al mondo i concetti miei qualunque si siano. Perciò che oltra lo aiuto e la protezzione che io debbo sperar dall'Eccellenza Vostra, come da mio Signore e come da fautore de' poveri virtuosi, è piaciuto alla divina Bontà d'eleggere per Suo vicario in terra il Santissimo e Beatissimo Giulio Terzo, Pontefice Massimo, amatore e riconoscitore d'ogni sorte virtù e di queste eccellentissime e difficilissime arti spezialmente; da la cui somma liberalità attendo ristoro di molti anni consumati e di molte fatiche sparte sino ad ora senza alcun frutto. E non pur io, che mi son dedicato per servo perpetuo a la Santità Sua, ma tutti gl'ingegnosi artefici di questa età ne debbono aspettare onore e premio tale ed occasione d'esercitarsi talmente, che io già mi rallegro di vedere queste arti arrivate nel Suo tempo al supremo grado della lor perfezzione, e Roma ornata di tanti e sì nobili artefici, che annoverandoli con quelli di Fiorenza, che tutto giorno fa mettere in opera l'Eccellenza Vostra, spero che chi verrà dopo noi arà da scrivere la quarta età del mio volume, dotato d'altri Maestri, d'altri magisterii che non sono i descritti da me; nella compagnia de' quali io mi vo preparando con ogni studio di non esser degli ultimi.

Intanto mi contento che Ella abbia buona speranza di me e migliore opinione di quella che senza alcuna mia colpa n'ha forse concepita, desiderando che Ella non mi lasci opprimere nel Suo concetto dell'altrui maligne relazioni, fino a tanto che la vita e l'opere mie mostrerranno il contrario di quello che e' dicono.

Ora con quello animo che io tengo d'onorarLa e di servirLa sempre, dedicandoLe questa rozza fatica, come ogni altra mia cosa e me medesimo L'ho dedicato, La supplico che non Si sdegni di averne la protezzione o di mirar almeno a la devozione di chi glieLa porge; et alla Sua buona grazia raccomandandomi, umilissimamente Le bacio le mani.

Di Vostra Eccellenzia umilissimo servitore

GIORGIO VASARI, pittore aretino.

AGLI ARTEFICI DEL DISEGNO

GIORGIO VASARI

Eccellenti e carissimi Artefici miei. Egli è stata sempre tanta la delettazione, con l'utile e con l'onore insieme, che io ho cavato ne l'esercitarmi così come ho saputo in questa nobilissima arte, che non solamente ho avuto un desiderio ardente d'esaltarla e celebrarla, et in tutti i modi a me possibili onorarla, ma ancora sono stato affezzionatissimo a tutti quelli che di lei hanno preso il medesimo piacere e l'han saputa, con maggior felicità che forse non ho potuto io, esercitare; e di questo mio buono animo, e pieno di sincerissima affezzione mi pare anche fino a qui averne colto frutti corrispondenti, essendo stato da tutti voi amato et onorato sempre, et essendosi con incredibile non so s'io dico domestichezza o fratellanza conversato fra noi, avendo scambievolmente io a voi le cose mie, e voi a me mostrate le vostre, giovando l'uno a l'altro, ove l'occasioni si sono porte, e di consiglio e d'aiuto.

Onde, e per questa amorevolezza, e molto più per la eccellente virtù vostra, e non meno ancora per questa mia inclinazione, per natura e per elezzione potentissima, m'è parso sempre essere obbligatissimo a giovarvi e servirvi, in tutti quei modi et in tutte quelle cose che io ho giudicato potervi arrecare o diletto o commodo. A questo fine mandai fuora l'anno 1550 le vite de' nostri migliori e più famosi, mosso da una occasione in altro luogo accennata, et ancora (per dire il vero) da un generoso sdegno che tanta virtù fusse stata per tanto tempo et ancora restasse sepolta. Questa mia fatica non pare che sia stata punto ingrata, anzi in tanto accetta, che, oltre a quello che da molte parti me n'è venuto detto e scritto, d'un grandissimo numero che allora se ne stampò non se ne trova ai librai pure un volume. Onde, udendo io ogni giorno le richieste di molti amici, e conoscendo non meno i taciti desiderii di molti altri, mi sono di nuovo (ancor che nel mezzo d'importantissime imprese) rimesso alla medesima fatica; con disegno non solo d'aggiugnere questi che, essendo da quel tempo in qua passati a miglior vita, mi dànno occasione di scrivere largamente la vita loro; ma di sopplire ancora quel che in quella prima opera fussi mancato di perfezzione, avendo avuto spazio poi d'intendere molte cose meglio, e rivederne molte altre, non solo con il favore di questi illustrissimi miei signori, i quali servo, che sono il vero refugio e protezzione di tutte le virtù: ma con la comodità ancora che m'hanno data di ricercar di nuovo tutta l'Ita-lia, e vedere et intendere molte cose, che prima non m'erano venute a notizia. Onde non tanto ho potuto correggere, quanto accrescere ancora tante cose, che molte vite si possono dire essere quasi rifatte di nuovo: come alcuna veramente delli antichi pure, che non ci era, si è di nuovo aggiunta. Né m'è parso fatica, con spesa e disagio grande, per maggiormente rinfrescare la memoria di quelli, che io tanto onoro, di ritrovare i ritratti, e mettergli innanzi alle vite loro. E per più contento di molti amici fuor dell'arte, ma all'arte affezzionatissimi, ho ridotto in un compendio la maggior parte dell'opere di quelli che ancor sono vivi e degni d'esser sempre per le loro virtù nominati; perché quel rispetto che altra volta mi ritenne a chi ben pensa non ci ha luogo, non mi si proponendo se non cose eccellenti e degne di lode. E potrà forse essere questo uno sprone, che ciascun seguiti d'operare eccellentemente, e d'avanzarsi sempre di bene in meglio; di sorte che chi scriverà il rimanente di questa istoria potrà farlo con più grandezza e maestà, avendo occasione di contare quelle più rare e più perfette opere, che di mano in mano dal desiderio di eternità incominciate e dallo studio di sì divini ingegni finite, vedrà per inanzi il mondo uscire delle vostre mani. Et i giovani che vengono dietro studiando, incitati dalla gloria (quando l'utile non avesse tanta forza), s'accenderanno per aventura dall'esempio a divenire eccellenti.

E perché questa opera venga del tutto perfetta, né s'abbia a cercare fuora cosa alcuna, ci ho aggiunto gran parte delle opere de' più celebrati artefici antichi, così greci come d'altre nazioni, la memoria de' quali da Plinio e da altri scrittori è stata fino a' tempi nostri conservata, che senza la penna loro sarebbono come molte altre sepolte in sempiterna oblivione. E ci potrà forse anche questa considerazione generalmente accrescer l'animo a virtuosamente operare, e vedendo la nobiltà e grandezza dell'arte nostra, e quanto sia stata sempre da tutte le nazioni, e particolarmente dai più nobili ingegni e signori più potenti e pregiata e premiata, spingerci ed infiammarci tutti a lasciare il mondo adorno d'opere spessissime per numero e per eccellenzia rarissime; onde abbellito da noi ci tenga in quel grado, che egli ha tenuto quei sempre maravigliosi e celebratissimi spiriti. Accettate dunque con animo grato queste mie fatiche, e qualunque le sieno, da me amorevolmente, per gloria dell'arte ed onor degli artefici, condotte al suo fine, e pigliatele per uno indizio e pegno certo dell'animo mio, di niuna altra cosa più desideroso, che della grandezza e della gloria vostra, della quale, essendo ancor io ricevuto da voi nella compagnia vostra (di che e voi ringrazio e per mio conto me ne compiaccio non poco) mi parrà sempre in un certo modo partecipare.

PROEMIO DI TUTTA L'OPERA

Soleano gli spiriti egregii in tutte le azzioni loro per uno acceso desiderio di gloria non perdonare ad alcuna fatica, quantunche gravissima, per condurre le opere loro a quella perfezzione, che le rendesse stupende e maravigliose a tutto il mondo; né la bassa fortuna di molti poteva ritardare i loro sforzi dal pervenire a sommi gradi, sì per vivere onorati, e sì per lasciare ne' tempi a venire eterna fama d'ogni rara loro eccellenza. Et ancora che di così laudabile studio e desiderio fussero in vita altamente premiati dalla liberalità de' principi, e dalla virtuosa ambizione delle repubbliche, e dopo morte ancora perpetuati nel cospetto del mondo con le testimonianze delle statue, delle sepulture, delle medaglie et altre memorie simili, la voracità del tempo, nondimeno, si vede manifestamente che non solo ha scemate le opere proprie e le altrui onorate testimonianze di una gran parte, ma cancellato e spento i nomi di tutti quelli che ci sono stati serbati da qualunque altra cosa, che dalle sole vivacissime e pietosissime penne delli scrittori.

La qual cosa più volte meco stesso considerando, e conoscendo non solo con l'esempio degli antichi ma de' moderni ancora che i nomi di moltissimi vecchi e moderni architetti, scultori e pittori, insieme con infinite bellissime opere loro in diverse parti d'Italia si vanno dimenticando e consumando a poco a poco, e di una maniera, per il vero, che ei non se ne può giudicare altro che una certa morte molto vicina, per difenderli il più che io posso da questa seconda morte, e mantenergli più lungamente che sia possibile nelle memorie de' vivi, avendo speso moltissimo tempo in cercar quelle, usato diligenzia grandissima in ritrovare la patria, l'origine, e le azzioni degli artefici, e con fatica grande ritrattole dalle relazioni di molti uomini vecchi, e da diversi ricordi e scritti lasciati dagli eredi di quelli in preda della polvere e cibo de' tarli, e ricevutone finalmente et utile e piacere; ho giudicato conveniente, anzi debito mio, farne quella memoria che il mio debole ingegno et il poco giudizio potrà fare.

A onore, dunque, di coloro che già sono morti, e benefizio di tutti gli studiosi principalmente di queste tre arti eccellentissime Architettura, Scultura e Pittura, scriverò le vite delli artefici di ciascuna, secondo i tempi che ei sono stati, di mano in mano da Cimabue insino a oggi; non toccando altro degli antichi, se non quanto facesse al proposito nostro, per non se ne poter dire più che se ne abbino detto quei tanti scrittori che sono pervenuti alla età nostra.

Tratterò bene di molte cose che si appartengono al magistero di qual si è l'una delle arti dette, ma prima che io venga a' segreti di quelle, o alla istoria delli artefici, mi par giusto toccare in parte una disputa nata e nutrita tra molti senza proposito, del principato e nobiltà, non dell'architettura, che questa hanno lasciata da parte, ma della scultura e della pittura, essendo per l'una e l'altra parte addotte, se non tutte, almeno molte ragioni degne di esser udite e per gl'artefici loro considerate.

Dico, dunque, che gli scultori, come dotati forse dalla natura e dall'esercizio dell'arte di miglior complessione, di più sangue e di più forze, e per questo più arditi e animosi de' pittori, cercando d'attribuir il più onorato grado all'arte loro, arguiscono e provano la nobiltà della scultura primieramente dall'antichità sua, per aver il grande Iddio fatto l'uomo, che fu la prima scultura; dicono che la scultura abbraccia molte più arti come congeneri e ne ha molte più sottoposte che la pittura: come il basso rilievo, il far di terra, di cera, o di stucco, di legno, d'avorio, il gettare de' metalli, ogni ceselamento, il lavorare d'incavo o di rilievo nelle pietre fini e negl'acciai, et altre molte, le quali e di numero e di maestria avanzano quelle della pittura. Et allegando ancora che quelle cose che si difendono più e meglio dal tempo, e più si conservano all'uso degl'uomini, a benefizio e servizio de' quali elle son fatte, sono senza dubbio più utili e più degne d'esser tenute care et onorate che non sono l'altre, affermano la scultura esser tanto più nobile della pittura, quanto ella è più atta a conservare e sé ed il nome di chi è celebrato da lei ne' marmi e ne' bronzi, contro a tutte l'ingiurie del tempo e dell'aria, che non è essa pittura; la quale di sua natura pure, non che per gl'accidenti di fuora, perisce nelle più riposte e più sicure stanze ch'abbino saputo dar loro gl'architettori. Vogliano eziandio che il minor numero loro, non solo degl'ar-tefici eccellenti ma degl'ordinari, rispetto all'infinito numero de' pittori, arguisca la loro maggiore nobiltà; dicendo che la scultura vuole una certa migliore disposizione e d'animo e di corpo, che rado si truova congiunto insieme; dove la pittura si contenta d'ogni debole complessione, pur ch'abbia la man sicura se non gagliarda; e che questo intendimento loro si pruova similmente da' maggiori pregi citati particolarmente da Plinio, dagl'amori causati dalla maravigliosa bellezza di alcune statue e dal giudizio di colui che fece la statua della Scultura d'oro, e quella della Pittura d'argento, e pose quella alla destra e questa alla sinistra. Né lasciano ancora d'allegare le difficultà, prima, dell'aver la materia subietta, come i marmi e i metalli, e la valuta loro rispetto alla facilità dell'avere le tavole, le tele et i colori, a piccolissimi pregi et in ogni luogo; di poi l'estreme e gravi fatiche del maneggiar i marmi et i bronzi per la gravezza loro, e del lavorargli per quella degl'istrumenti, rispetto alla leggerezza de' pennegli, degli stili e delle penne, disegnatoi e carboni; oltra che di loro si affatica l'animo con tutte le parti del corpo; et è cosa gravissima rispetto alla quieta e leggera opera dell'animo e della mano sola del dipintore.

Fanno appresso grandissimo fondamento sopra l'essere le cose tanto più nobili e più perfette, quanto elle si accostano più al vero. E dicono che la scultura imita la forma vera, e mostra le sue cose, girandole intorno, a tutte le vedute; dove la pittura, per esser spianata con semplicissimi lineamenti di pennello, e non avere che un lume solo, non mostra che una apparenza sola. Né hanno rispetto a dire molti di loro, che la scultura è tanto superiore alla pittura, quanto il vero alla bugia. Ma per la ultima e più forte ragione, adducono che allo scultore è necessario non solamente la perfezione del giudizio ordinaria come al pittore, ma assoluta e subìta, di maniera che ella conosca sin dentro a' marmi l'inte-ro a punto di quella figura ch'essi intendono di cavarne, e possa senza altro modello prima far molte parti perfette che e' le accompagni ed unisca insieme: come ha fatto divinamente Michelagnolo; avvenga che, mancando di questa felicità di giudizio, fanno agevolmente e spesso di quelli inconvenienti che non hanno rimedio, e che, fatti, son sempre testimonii degl'errori dello scarpello, o del poco giudizio dello scultore, la qual cosa non avviene a' pittori. Perciò che ad ogni errore di pennello o mancamento di giudizio che venisse lor fatto, hanno tempo, conoscendogli da per loro o avvertiti da altri, a ricoprirli e medicarli con il medesimo pennello che l'aveva fatto; il quale nelle man loro ha questo vantaggio dagli scarpelli dello scultore, ch'egli non solo sana, come faceva il ferro della lancia d'Achille, ma lascia senza margine le sue ferite.

Alle quali cose rispondendo i pittori, non senza sdegno dicono primieramente, che volendo gli scultori considerare la cosa in sagrestia, la prima nobiltà è la loro; e che gli scultori s'ingannano di gran lunga a chiamare opera loro la statua del primo Padre, essendo stata fatta di terra. L'arte della qual operazione mediante il suo levare e porre non è manco de' pittori che d'altri, e fu chiamata plastice da' Greci e fictoria da' Latini, e da Prassitele fu giudicata madre della scultura, del getto e del cesello, cosa che fa la scultura veramente nipote alla pittura; conciò sia che la plastice e la pittura naschino insieme e subito dal disegno. Et esaminata fuori di sagrestia, dicono che tante sono e sì varie l'opinioni de' tempi, che male si può credere più all'una che all'altra; e che considerato finalmente questa nobiltà, dove e' vogliono, nell'uno de' luoghi perdono e nell'altro non vincono, siccome nel Proemio delle Vite più chiaramente potrà vedersi.

Appresso, per riscontro dell'arti congeneri e sottoposte alla scultura, dicono averne molte più di loro: perché la pittura abbraccia l'invenzione dell'istoria, la difficilissima arte degli scorti, tutti i corpi dell'architettura per poter far i casamenti e la prospettiva, il colorire a tempera, l'arte del lavorare in fresco, differente e vario da tutti gl'altri; similmente il lavorar a olio, in legno, in pietra, in tele, et il miniare, arte differente da tutte; le finestre di vetro, il musaico de' vetri, il commetter le tarsie di colori facendone istorie con i legni tinti, ch'è pittura; lo sgraffire le case con il ferro, il niello, e le stampe di rame, membri della pittura; gli smalti degl'orefici, il commetter l'oro alla damaschina; il dipigner le figure invetriate, e fare ne' vasi di terra istorie ed altre figure, che tengono all'acqua, il tesser i broccati con le figure e' fiori, e la bellissima invenzione degl'arazzi tessuti, che fa commodità e grandezza; potendo portar la pittura in ogni luogo, e salvatico e domestico: senzaché in ogni genere, che bisogna esercitarsi, il disegno, ch'è disegno nostro, l'adopra ognuno. Sì che molti più membri ha la pittura e più utili che non ha la scultura.

Non niegano l'eternità, poiché così la chiamano, delle sculture, ma dicono questo non esser privilegio che faccia l'arte più nobile ch'ella si sia di sua natura, per esser semplicemente della materia; e che se la lunghezza della vita desse all'anime nobiltà, il pino tra le piante, et il cervio tra gl'animali, arebbon l'anima oltramodo più nobile che non ha l'uo-mo; nonostante che ei potessino addurre una simile eternità e nobiltà di materia ne' musaici loro, per vedersene delli antichissimi quanto le più antiche sculture che siano in Roma, ed essendosi usato di farli di gioie e pietre fini. E quanto al piccolo o minor numero loro, affermano che ciò non è perché l'arte ricerchi miglior disposizione di corpo et il giudizio maggiore, ma che ei dipende in tutto dalla povertà delle sustanze loro, e dal poco favore o avarizia, che vogliamo chiamarlo, degli uomini ricchi; i quali non fanno loro commodità de' marmi, né danno occasione di lavorare; come si può credere e vedesi che si fece ne' tempi antichi, quando la scultura venne al sommo grado. Et è manifesto che chi non può consumare o gittar via una piccola quantità di marmi e pietre forti, le quali costano pur assai, non può fare quella pratica nell'arte che si conviene: chi non vi fa la pratica non l'impara, e chi non l'impara non può far bene. Per la qual cosa doverrebbono escusare piuttosto con queste cagioni la imperfezzione e il poco numero degli eccellenti, che cercare di trarre da esse, sotto un altro colore, la nobiltà.

Quanto a' maggior pregi delle sculture, rispondono che, quando i loro fussino bene minori, non hanno a compatirli, contentandosi di un putto che macini loro i colori e porga i pennelli o le predelle di poca spesa: dove gli scultori oltre alla valuta grande della materia vogliono di molti aiuti, e mettono più tempo in una sola figura che non fanno essi in molte e molte; per il che appariscano i pregi loro essere più della qualità e durazione di essa materia, degl'aiuti ch'ella vuole a condursi e del tempo che vi si mette a lavorarla, che dell'eccellenza dell'arte stessa. E quando questa non serva, né si truovi prezzo maggiore, come sarebbe facil cosa a chi volesse diligentemente considerarla, truovino un prezzo maggiore del maraviglioso bello e vivo dono, che alla virtuosissima et eccellentissima opera d'Apelle fece Alessandro il Magno, donandogli non tesori grandissimi o stato, ma la sua amata e bellissima Campsaspe; et avvertischino di più, che Alessandro era giovane, innamorato di lei, e naturalmente agli affetti di Venere sottoposto, e re insieme e Greco; e poi ne faccino quel giudizio che piace loro. Agli amori di Pigmalione, e di quegli altri scelerati, non degni più d'essere uomini, citati per pruova della nobiltà dell'arte, non sanno che si rispondere, se da una grandissima cecità di mente, e da una sopra ogni natural modo sfrenata libidine, si può fare argumento di nobiltà. E di quel non so chi allegato dagli scultori d'aver fatto la Scultura d'oro e la Pittura d'argento, come di sopra, consentono che se egli avesse dato tanto segno di giudizioso quanto di ricco, non sarebbe da disputarla. E concludono finalmente che l'antico vello dell'oro, per celebrato che e' sia, non vestì però altro che un montone senza intelletto: per il che né il testimonio delle ricchezze, né quello del-le voglie disoneste, ma delle lettere, dell'esercizio, della bontà e del giudizio, son quelli a chi si debbe attendere.

Né rispondono altro alla difficultà dell'avere i marmi e i metalli, se non che questo nasce dalla povertà propria e dal poco favore de' potenti, come si è detto, e non da grado di maggiore nobiltà. All'estreme fatiche del corpo et a' pericoli propri e dell'opere loro, ridendo e senza alcun disagio rispondono che se le fatiche et i pericoli maggiori arguiscono maggiore nobiltà, l'arte del cavare i marmi delle viscere de' monti per adoperare i conii, i pali e le mazze, sarà più nobile della scultura; quella del fabbro avanzerà l'orefice, e quella del murare, l'architettura. E dicono appresso che le vere difficultà stanno più nell'animo che nel corpo; onde quelle cose che di loro natura hanno bisogno di studio e di sapere maggiore, son più nobili ed eccellenti di quelle che più si servono della forza del corpo; e che valendosi i pittori della virtù dell'animo più di loro, questo primo onore si appartiene alla pittura. Agli scultori bastano le seste o le squadre a ritrovare e riportare tutte le proporzioni e misure che eglino hanno di bisogno; a' pittori è necessario, oltre al sapere ben adoperare i sopradetti strumenti, una accurata cognizione di prospettiva, per avere a porre mille altre cose, che paesi o casamenti; oltra che bisogna aver maggior giudicio per la quantità delle figure in una storia, dove può nascer più errori, che in una sola statua. Allo scultore basta aver notizia delle vere forme e fattezze de' corpi solidi e palpabili e sottoposti in tutto al tatto, e di quei soli ancora che hanno chi gli regge. Al pittore è necessario non solo conoscere le forme di tutti i corpi retti e non retti, ma di tutti i trasparenti et impalpabili; et oltra questo bisogna ch'e' sappino i colori che si convengono a' detti corpi, la multitudine e la varietà de' quali, quanto ella sia universalmente e proceda quasi in infinito, lo dimostrano meglio che altro i fiori et i frutti oltre a' minerali; cognizione sommamente difficile ad acquistarsi ed a mantenersi per la infinita varietà loro.

Dicono ancora, che dove la scultura, per l'inobbedienza et imperfezzione della materia, non rappresenta gli affetti dell'animo, se non con il moto, il quale non si stende però molto in lei, e con la fazione stessa de' membri, né anche tutti i pittori gli dimostrano con tutti i moti, che sono infiniti, con la fazione di tutte le membra, per sottilissime che elle siano, ma che più? con il fiato stesso e con gli spiriti della vista. E che a maggiore perfezzione del dimostrare non solamente le passioni e gl'effetti dell'animo, ma ancora gl'accidenti a venire, come fanno i naturali, oltre alla lunga pratica dell'arte bisogna loro aver una intera cognizione d'essa fisionomia; della quale basta solo allo scultore la parte che considera la quantità e forma de' membri, senza curarsi della qualità de' colori, la cognizione de' quali, chi giudica dagli occhi conosce quanto ella sia utile e necessaria alla vera imitazione della natura alla quale chi più si accosta è più perfetto. Appresso soggiungono che, dove la scultura levando a poco a poco in un medesimo tempo dà fondo et acquista rilievo a quelle cose che hanno corpo di loro natura, e servesi del tatto e del vedere, i pittori in due tempi danno rilievo e fondo al piano con l'aiuto di un senso solo; la qual cosa, quando ella è stata fatta da persona intelligente dell'arte, con piacevolissimo inganno ha fatto rimanere molti grandi uomini, per non dire degli animali: il che non si è mai veduto della scultura, per non imitare la natura in quella maniera che si possa dire tanto perfetta quanto è la loro.

E finalmente, per rispondere a quella intera ed assoluta perfezzione di giudizio che si richiede alla scultura, per non aver modo di aggiugnere dove ella leva, affermando prima che tali errori sono, come ei dicano, incorregibili, né si può rimediare loro senza le toppe, le quali così come ne' panni sono cose da poveri di roba, nelle sculture e nelle pitture similmente son cose da poveri d'ingegno e di giudizio. Di poi che la pazienza con un tempo conveniente, mediante i modelli, le centine, le squadre, le seste et altri mille ingegni e strumenti da riportare, non solamente gli difendano dagli errori, ma fanno condur loro il tutto alla sua perfezzione, concludono che questa difficultà che ei mettano per la maggiore, è nulla o poco rispetto a quelle che hanno i pittori nel lavorare in fresco; e che la detta perfezzione di giudizio non è punto più necessaria alli scultori che a' pittori, bastando a quelli condurre i modelli buoni di cera, di terra, o d'altro, come a questi i loro disegni in simili materie pure o ne' cartoni, e che finalmente quella parte che riduce a poco a poco loro i modelli ne' marmi, è più tosto pazienza che altro. Ma chiamisi giudizio, come vogliono gli scultori, se egli è più necessario a chi lavora in fresco, che a chi scarpella ne' marmi. Perciò che in quello non solamente non ha luogo né la pacienza né il tempo, per essere capitalissimi inimici della unione della calcina e de' colori, ma perché l'occhio non vede i colori veri, insino a che la calcina non è ben secca, né la mano vi può aver giudizio d'altro che del molle o secco; di maniera che chi lo dicesse lavorare al buio o con occhiali di colori diversi dal vero, non credo che errasse di molto, anzi non dubito punto che tal nome non se li convenga più che al lavoro d'incavo, al quale per occhiali, ma giusti e buoni, serve la cera. E dicono che a questo lavoro è necessario avere un giudizio risoluto, che antivegga la fine nel molle, e quale egli abbia a tornar poi secco; oltra che non si può abbandonare il lavoro mentre che la calcina tiene del fresco, e bisogna risolutamente fare in un giorno quello che fa la scultura in un mese. E chi non ha questo giudizio e questa eccellenzia, si vede nella fine del lavoro suo, o col tempo, le toppe, le macchie, i rimessi, et i colori soprapposti o ritocchi a secco, che è cosa vilissima; per che vi si scuoprono poi le muffe, e fanno conoscere la insufficienza et il poco sapere dello artefice suo, sì come fanno bruttezza i pezzi rimessi nella scultura; senzaché, quando accade lavare le figure a fresco, come spesso dopo qualche tempo avviene, per rinovarle, quello che è lavorato a fresco rimane, e quello che a secco è stato ritocco, è dalla spugna bagnata portato via.

Soggiungono ancora, che dove gli scultori fanno insieme due o tre figure al più d'un marmo solo, essi ne fanno molte in una tavola sola, con quelle tante e sì varie vedute che coloro dicono che ha una statua sola, ricompensando con la varietà delle positure, scorci et attitudini loro il potersi vedere intorno intorno quelle degli scultori; come già fece Giorgione da Castelfranco in una sua pittura: la quale, voltando le spalle et avendo due specchi, uno da ciascun lato, et una fonte d'acqua a' piedi, mostra nel dipinto il dietro, nella fonte il dinanzi e negli specchi gli lati: cosa che non ha mai potuto far la scultura. Affermano, oltra di ciò, che la pittura non lascia elemento alcuno che non sia ornato e ripieno di tutte le eccellenzie che la natura ha dato loro, dando la sua luce o le sue tenebre alla aria con tutte le sue varietà et impressioni, et empiendola insieme di tutte le sorti degli uccegli; alle acque la trasparenza, i pesci, i muschi, le schiume, il variare delle onde, le navi, e l'altre sue passioni; alla terra i monti, i piani, le piante, i frutti, i fiori, gli animali, gli edifizii, con tanta moltitudine di cose e varietà delle forme loro e de' veri colori, che la natura stessa molte volte n'ha maraviglia: e dando finalmente al fuoco tanto di caldo e di luce, che e' si vede manifestamente ardere le cose, e quasi tremolando nelle sue fiamme render in parte luminose le più oscure tenebre della notte.

Per le quali cose par loro potere giustamente conchiudere e dire, che, contraposte le difficultà degli scultori alle loro, le fatiche del corpo alle fatiche dell'animo, la imitazione circa la forma sola alla imitazione della apparenzia circa la quantità e la qualità che viene a lo occhio, il poco numero delle cose dove la scultura può dimostrare e dimostra la virtù sua allo infinito di quelle che la pittura ci rappresenta, oltre il conservarle perfettamente allo intelletto e farne parte in que' luoghi che la natura non ha fatto ella; e contrapesato, finalmente, le cose dell'una alle cose dell'altra, la nobiltà del-la scultura, quanto all'ingegno, alla invenzione et al giudizio degli artefici suoi, non corrisponde a gran pezzo a quella che ha e merita la pittura. E questo è quello che per l'una e per l'altra parte mi è venuto agli orecchi degno di considerazione.

Ma perché a me pare che gli scultori abbino parlato con troppo ardire, et i pittori con troppo sdegno, per avere io assai tempo considerato le cose della scultura, et essermi esercitato sempre nella pittura, quantunque piccolo sia forse il frutto che se ne vede, nondimeno e per quel tanto che egli è, e per la impresa di questi scritti, giudicando mio debito dimostrare il giudizio che nello animo mio ne ho fatto sempre, e vaglia l'autorità mia quanto ella può, dirò sopra tal disputa sicuramente e brevemente il parer mio, persuadendomi di non sottentrare a carico alcuno di prosunzione o d'igno-ranza, non trattando io de l'arti altrui come hanno già fatto molti per apparire nel vulgo intelligenti di tutte le cose mediante le lettere, e come tra gli altri avvenne a Formione peripatetico, in Efeso, che ad ostentazione della eloquenza sua, predicando e disputando de le virtù e parti dello eccellente capitano, non meno della prosunzione che della ignoranza sua fece ridere Annibale.

Dico, adunque, che la scultura e la pittura per il vero sono sorelle, nate di un padre che è il disegno, in un sol parto et ad un tempo; e non precedono l'una alla altra, se non quanto la virtù e la forza di coloro che le portano addosso fa passare l'uno artefice innanzi a l'altro; e non per differenzia o grado di nobiltà che veramente si trovi in fra di loro. E sebbene per la diversità dell'essenzia loro hanno molte agevolezze, non sono elleno però né tante né di maniera ch'elle non venghino giustamente contrapesate insieme, e non si conosca la passione o la caparbietà, più tosto che il giudizio di chi vuole che l'una avanzi l'altra. Laonde a ragione si può dire che un'anima medesima regga due corpi; et io per questo conchiudo, che male fanno coloro che s'ingegnano di disunirle e di separarle l'una da l'altra. De la qual cosa volendoci forse sgannare il cielo e mostrarci la fratellanza e la unione di queste due nobilissime arti, ha in diversi tempi fattoci nascere molti scultori che hanno dipinto, e molti pittori che hanno fatto delle sculture; come si vedrà nella vita d'Anto-nio del Pollaiuolo, di Lionardo da Vinci e di molti altri di già passati. Ma nella nostra età ci ha prodotto la bontà divina Michelagnolo Buonarroti; nel quale amendue queste arti sì perfette rilucono e sì simili et unite insieme appariscono, che i pittori delle sue pitture stupiscono, e gli scultori le sculture fatte da lui ammirano e reveriscono sommamente. A costui, perché egli non avesse forse a cercare da altro maestro dove agiatamente collocare le figure fatte da lui, ha la natura donato sì fattamente la scienza dell'architettura, che senza avere bisogno d'altrui, può e vale da sé solo et a queste e quelle imagini da lui formate dare onorato luogo et ad esse conveniente: di maniera che egli meritamente debbe esser detto scultore unico, pittore sommo ed eccellentissimo architettore, anzi dell'architettura vero maestro. E ben possiamo certo affermare che e' non errano punto coloro che lo chiamano divino; poiché divinamente ha egli in sé solo raccolte le tre più lodevoli arti e le più ingegnose che si truovino tra' mortali, e con esse, ad essempio d'uno Iddio, infinitamente ci può giovare. E tanto basti per la disputa fatta dalle parti, e per la nostra opinione.

E tornando oramai al primo proposito, dico che, volendo, per quanto si estendono le forze mie, trarre dalla voracissima bocca del tempo i nomi degli scultori, pittori ed architetti, che da Cimabue in qua sono stati in Italia di qualche eccellenza notabile, e desiderando che questa mia fatica sia non meno utile, che io me la sia proposta piacevole, mi pare necessario, avanti che e' si venga all'istoria, fare sotto brevità una introduzzione a quelle tre arti, nelle quali valsero coloro di chi io debbo scrivere le vite; a cagione che ogni gentile spirito intenda primieramente le cose più notabili delle loro professioni; et appresso, con piacere et utile maggiore, possa conoscere apertamente in che e' fussero tra sé differenti, e di quanto ornamento e comodità alle patrie loro, et a chiunque volle valersi della industria e sapere di quelli.

Comincerommi dunque dall'architettura, come da la più universale e più necessaria ed utile agli uomini, et al servizio et ornamento della quale sono l'altre due; e brevemente dimostrerò la diversità delle pietre, le maniere o modi del-l'edificare con le loro proporzioni, et a che si conoschino le buone fabbriche e bene intese. Appresso ragionando della scultura, dirò come le statue si lavorino, la forma e la proporzione che si aspetta loro, e quali siano le buone sculture, con tutti gli ammaestramenti più segreti e più necessari. Ultimamente, discorrendo della pittura, dirò del disegno, de' modi del colorire, del perfettamente condurre le cose, della qualità di esse pitture, e di qualunque cosa che da questa dependa; de' musaici d'ogni sorte, del niello, degli smalti, de' lavori alla damaschina, e finalmente poi delle stampe del-le pitture. E così mi persuado, che queste fatiche mie diletteranno coloro che non sono di questi esercizi, e diletteranno e gioveranno a chi ne ha fatto professione. Perché, oltra che nella Introduzzione rivedranno i modi dello operare, e nelle vite di essi artefici impareranno dove siano l'opere loro, e a conoscere agevolmente la perfezzione o imperfezzione di quelle, e discernere tra maniera e maniera, e' potranno accorgersi ancora quanto meriti lode et onore chi con le virtù di sì nobili arti accompagna onesti costumi e bontà di vita; et accesi di quelle laudi che hanno conseguite i sì fatti, si alzeranno essi ancora a la vera gloria. Né si caverà poco frutto de la storia, vera guida e maestra delle nostre azzioni, leggendo la varia diversità di infiniti casi occorsi agli artefici, qualche volta per colpa loro e molte altre della fortuna.

Resterebbemi a fare scusa de lo avere, alle volte, usato qualche voce non ben toscana; de la qual cosa non vo' parla-re, avendo avuto sempre più cura di usare le voci et i vocaboli particulari e proprii delle nostre arti, che i leggiadri o scelti della delicatezza degli scrittori. Siami lecito adunque usare nella propria lingua le proprie voci de' nostri artefici, e contentisi ognuno della buona volontà mia: la quale si è mossa a fare questo effetto, non per insegnare ad altri, ché non so per me, ma per desiderio di conservare almanco questa memoria degli artefici più celebrati; poiché in tante decine di anni non ho saputo vedere ancora chi n'abbia fatto molto ricordo. Conciò sia che io ho più tosto voluto con queste rozze fatiche mie, ombreggiando gli egregii fatti loro, render loro in qualche parte l'obligo che io tengo alle opere loro, che mi sono state maestre ad imparare quel tanto che io so, che malignamente vivendo in ozio esser censore delle opere altrui, accusandole e riprendendole come alcuni spesso costumano. Ma egli è oggimai tempo di venire a lo effetto.

IL FINE DEL PROEMIO INTRODUZZIONE DI

MESSER GIORGIO VASARI PITTORE ARETINO

ALLE TRE ARTI DEL DISEGNO CIOÈ

ARCHITETTURA PITTURA E SCOLTURA

E PRIMA DELL'ARCHITETTURA

DELL'ARCHITETTURA

Cap. I. Delle diverse pietre che servono agl'architetti per gl'ornamenti, e per le statue della scoltura.

Quanto sia grande l'utile che ne apporta l'architettura non accade a me raccontarlo, per trovarsi molti scrittori i quali diligentissimamente et a lungo n'hanno trattato. E per questo lasciando da una parte le calcine, le arene, i legnami, i ferramenti e 'l modo del fondare, e tutto quello che si adopera alla fabrica, e l'acque, le regioni e i siti largamente già descritti da Vitruvio e dal nostro Leon Batista Alberti, ragionerò solamente per servizio de' nostri artefici e di qualunque ama di sapere, come debbano essere universalmente le fabriche e quanto di proporzione unite e di corpi, per conseguire quella graziata bellezza che si desidera; brevemente raccorrò insieme tutto quello che mi parrà necessario a questo proposito.

Et acciò che più manifestamente apparisca la grandissima difficultà del lavorar delle pietre che son durissime e forti, ragioneremo distintamente ma con brevità, di ciascuna sorte di quelle che maneggiano i nostri artefici.

E primieramente del porfido. Questo è una pietra rossa con minutissimi schizzi bianchi, condotta nell'Italia già dal-l'Egitto, dove comunemente si crede che nel cavarla ella sia più tenera che quando ella è stata fuori della cava alla pioggia al ghiaccio e al sole, perché tutte queste cose la fanno più dura e più difficile a lavorarla. Di questa se ne veggono infinite opere lavorate, parte con gli scarpelli, parte segate, e parte con ruote e con smerigli consumate a poco a poco; come se ne vede in diversi luoghi diversamente più cose, cioè quadri, tondi, et altri pezzi spianati per far pavimenti, e così statue per gli edifici, et ancora grandissimo numero di colonne e picciole e grandi, e fontane con teste di varie maschere intagliate con grandissima diligenza. Veggonsi ancora oggi sepolture con figure di basso e mezzo rilievo, condotte con gran fatica: come al tempio di Bacco fuor di Roma, a S. Agnesa, la sepoltura che e' dicono di S. Gostanza figliuola di Gostantino imperadore, dove son dentro molti fanciulli con pampani et uve, che fanno fede della difficultà ch'ebbe chi la lavorò nella durezza di quella pietra. Il medesimo si vede in un pilo a S. Giovanni Laterano vicino alla Porta Santa ch'è storiato, et èvvi dentro gran numero di figure. Vedesi ancora sulla piazza della Ritonda una bellissima cassa fatta per sepoltura, la quale è lavorata con grande industria e fatica, et è per la sua forma di grandissima grazia e di somma bellezza, e molto varia dall'altre. Et in casa di Egidio e di Fabio Sasso ne soleva essere una figura a sedere di braccia tre e mezzo, condotta a' dì nostri con il resto de l'altre statue in casa Farnese. Nel cortile ancora di casa La Valle sopra una finestra una lupa molto eccellente, e nel lor giardino i due prigioni legati, del medesimo porfido, i quali son quattro braccia d'altezza l'uno, lavorati dagli antichi con grandissimo giudicio, i quali sono oggi lodati straordinariamente da tutte le persone eccellenti, conoscendosi la difficultà che hanno avuto a condurli per la durezza della pietra.

A' dì nostri non s'è mai condotto pietre di questa sorte a perfezzione alcuna, per avere gli artefici nostri perduto il modo del temperare i ferri, e così gli altri stormenti da condurle. Vero è che se ne va segando con lo smeriglio rocchi di colonne e molti pezzi per accomodarli in ispartimenti per piani, e così in altri varii ornamenti per fabriche, andandolo consumando a poco a poco con una sega di rame senza denti, tirata dalle braccia di due uomini; la quale con lo smeriglio ridotto in polvere e con l'acqua che continuamente la tenga molle, finalmente pur lo ricide. E sebbene si sono in diversi tempi provati molti begli ingegni per trovare il modo di lavorarlo che usarono gli antichi, tutto è stato invano; e Leon Battista Alberti, il quale fu il primo che cominciasse a far pruova di lavorarlo, non però in cose di molto momento, non truovò, fra molti che ne mise in pruova, alcuna tempera che facesse meglio che il sangue di becco, perché sebbene levava poco di quella pietra durissima nel lavorarla e sfavillava sempre fuoco, gli servì nondimeno di maniera che fece fare nella soglia della porta principale di S. Maria Novella di Fiorenza le diciotto lettere antiche, che assai grandi e ben misurate si veggono dalla parte dinanzi in un pezzo di porfido, le quali lettere dicono Bernardo Oricellario. E perché il taglio dello scarpello non gli faceva spigoli, né dava all'opera quel pulimento e quel fine che le era necessario, fece fare un mulinello a braccia con un manico a guisa di stidione, che agevolmente si maneggiava, apontandosi uno il detto manico al petto, e nella inginocchiatura mettendo le mani per girarlo; e nella punta dove era o scarpello o trapano, avendo messo alcune rotelline di rame, maggiori e minori secondo il bisogno, quelle imbrattate di smeriglio, con levare a poco a poco e spianare facevano la pelle e gli spigoli, mentre con la mano si girava destramente il detto mulinello. Ma con tutte queste diligenze non fece però Leon Batista altri lavori; perché era tanto il tempo che si perdeva che, mancando loro l'animo, non si mise altramente mano a statue, vasi o altre cose sottili.

Altri poi che si sono messi a spianare pietre e rapezzar colonne col medesimo segreto, hanno fatto in questo modo: fannosi per questo effetto alcune martella gravi e grosse con le punte d'acciaio temperato fortissimamente col sangue di becco, e lavorato a guisa di punte di diamanti, con le quali picchiando minutamente in sul porfido, e scantonandolo a poco a poco il meglio che si può si riduce pur finalmente o a tondo o a piano, come più aggrada all'artefice, con fatica e tempo non picciolo; ma non già a forma di statue, che di questo non abbiamo la maniera; e se gli dà il pulimento con lo smeriglio e col cuoio strofinandolo, che viene di lustro molto pulitamente lavorato e finito. Ed ancor che ogni giorno si vadino più assottigliando gl'ingegni umani, e nuove cose investigando, nondimeno anco i moderni che in diversi tempi hanno per intagliar il porfido provato nuovi modi, diverse tempre et acciai ben purgati, hanno, come si disse di sopra, infino a pochi anni sono faticato invano.

E pur l'anno 1553, avendo il signor Ascanio Colonna donato a papa Giulio III una tazza antica di porfido bellissima larga sette braccia, il Pontefice per ornarne la sua vigna ordinò, mancandole alcuni pezzi, che la fusse restaurata; per che, mettendosi mano all'opera e provandosi molte cose per consiglio di Michelagnolo Buonarroti e d'altri eccellentissimi maestri, dopo molta lunghezza di tempo fu disperata l'impresa, massimamente non si potendo in modo nessuno salvare alcuni canti vivi, come il bisogno richiedeva. E Michelagnolo, pur avvezzo alla durezza de' sassi, insieme con gli altri se ne tolse giù, né si fece altro.

Finalmente, poiché niuna altra cosa in questi nostri tempi mancava alla perfezione delle nostr'arti che il modo di lavorare perfettamente il porfido, acciò che né anco questo si abbia a disiderare, si è in questo modo ritrovato. Avendo l'anno 1555 il signor duca Cosimo condotto dal suo palazzo e giardino de' Pitti una bellissima acqua nel cortile del suo principale palazzo di Firenze, per farvi una fonte di straordinaria bellezza, trovati fra i suoi rottami alcuni pezzi di porfido assai grandi, ordinò che di quelli si facesse una tazza col suo piede per la detta fonte; e per agevolar al maestro il modo di lavorar il porfido, fece di non so che erbe stillar un'acqua di tanta virtù, che, spegnendovi dentro i ferri bollenti, fa loro una tempera durissima. Con questo segreto adunque, secondo 'l disegno fatto da me, condusse Francesco del Tadda, intagliator da Fiesole, la tazza della detta fonte, che è larga due braccia e mezzo di diametro, et insieme il suo piede, in quel modo che oggi ella si vede nel detto palazzo. Il Tadda, parendogli che il segreto datogli dal Duca fusse rarissimo, si mise a far prova d'intagliar alcuna cosa, e gli riuscì così bene, che in poco tempo ha fatto in tre ovati di mezzo rilievo grandi quanto il naturale il ritratto d'esso signor duca Cosimo, quello della duchessa Leonora, et una testa di Gesù Cristo con tanta perfezzione, che i capelli e le barbe che sono dificilissimi nell'intaglio, sono condotti di maniera che gl'antichi non stanno punto meglio. Di queste opere ragionando il signor Duca con Michelagnolo, quando sua Eccellenza fu in Roma, non volea creder il Buonarroto che così fusse; per che, avendo io d'ordine del Duca mandata la testa del Cristo a Roma, fu veduta con molta maraviglia da Michelagnolo, il quale la lodò assai e si rallegrò molto di veder ne' tempi nostri la scultura arricchita di questo rarissimo dono cotanto invano insino a oggi disiderato.

Ha finito ultimamente il Tadda la testa di Cosimo vecchio de' Medici in uno ovato come i detti di sopra, et ha fatto e fa continuamente molte altre somiglianti opere.

Restami a dire del porfido che per essersi oggi smarrite le cave di quello, è perciò necessario servirsi di spoglie e di frammenti antichi e di rocchi di colonne e altri pezzi; e che però bisogna a chi lo lavora avvertire se ha avuto il fuoco: perciò che quando l'ha avuto, sebbene non perde in tutto il color né si disfà, manca nondimeno pure assai di quella vivezza che è sua propria, e non piglia mai così bene il pulimento, come quando non l'ha avuto; e, che è peggio, quello che ha avuto il fuoco si schianta facilmente quando si lavora. È da sapere ancora, quanto alla natura del porfido, che messo nella fornace non si cuoce, e non lascia interamente cuocer le pietre che gli sono intorno: anzi, quanto a sé, incrudelisce; come ne dimostrano le due colonne che i Pisani l'anno 1117 donarono a' Fiorentini dopo l'acquisto di Maiolica, le quali sono oggi alla porta principale del tempio di S. Giovanni, non molto bene pulite e senza colore per avere avuto il fuoco, come nelle sue storie racconta Giovan Villani.

Succede al porfido il serpentino, il quale è pietra di color verde scuretta alquanto, con alcune crocette dentro giallette e lunghe per tutta la pietra della quale nel medesimo modo si vagliano gli artefici per far colonne e piani per pavimenti per le fabriche; ma di questa sorte non s'è mai veduto figure lavorate, ma sì bene infinito numero di base per le colonne e piedi di tavole et altri lavori più materiali, perché questa sorte di pietra si schianta ancorché sia dura più che 'l porfido, e riesce a lavorarla più dolce e men faticosa che il porfido, e cavasi in Egitto e nella Grecia, e la sua saldezza ne' pezzi non è molto grande. Conciò sia che di serpentino non si è mai veduto opera alcuna di maggior pezzo di braccia tre per ogni verso; e sono state tavole e pezzi di pavimenti. Si è trovato ancora qualche colonna, ma non molto grossa né larga, e similmente alcune maschere e mensole lavorate, ma figure non mai. Questa pietra si lavora nel medesimo modo che si lavora il porfido.

Più tenera poi di questa è il cipollaccio, pietra che si cava in diversi luoghi, il quale è di color verde acerbo e gialletto, et ha dentro alcune macchie nere quadre picciole e grandi, e così bianche, alquanto grossette; e si veggono di questa sorte in più luoghi colonne grosse e sottili, e porte et altri ornamenti, ma non figure. Di questa pietra è una fonte in Roma in Belvedere, cioè una nicchia in un canto del giardino, dove sono le statue del Nilo e del Tevere; la quale nicchia fece far papa Clemente Settimo col disegno di Michelagnolo per ornamento d'un fiume antico, acciò in questo campo fatto a guisa di scogli apparisce, come veramente fa, molto bello. Di questa pietra si fanno ancora, segandola, tavole, tondi, ovati et altre cose simili, che in pavimenti e altre forme piane fanno con l'altre pietre bellissima accompagnatura e molto vago componimento. Questa piglia il pulimento come il porfido et il serpentino, et ancora si sega come l'altre sorti di pietra dette di sopra, e se ne trovano in Roma infiniti pezzi sotterrati nelle ruine che giornalmente vengono a luce; e delle cose antiche se ne sono fatte opere moderne, porte, et altre sorti d'ornamenti, che fanno, dove elle si mettono, ornamento e grandissima bellezza.

Ècci un'altra pietra chiamata mischio dalla mescolanza di diverse pietre congelate insieme e fatte tutt'una dal tempo e dalla crudezza dell'acque. E di questa sorte se ne trova copiosamente in diversi luoghi, come ne' monti di Verona, in quelli di Carrara, et in quei di Prato in Toscana, e ne' monti dell'Imprunetta nel contado di Firenze. Ma i più begli e' migliori si sono trovati, non ha molto, a S. Giusto a Monterantoli lontano da Fiorenza cinque miglia; e di questi me n'ha fatto il signor duca Cosimo ornare tutte le stanze nuove del palazzo in porte e camini, che sono riusciti molto belli; e per lo giardino de' Pitti se ne sono dal medesimo luogo cavate colonne di braccia sette, bellissime: et io resto maravigliato che in questa pietra si sia trovata tanta saldezza. Questa pietra, perché tiene d'alberese, piglia bellissimo pulimento, e trae in colore di paonazzo rossigno, macchiato di vene bianche e giallicce. Ma le più fini sono nella Grecia e nel-l'Egitto, dove sono molto più duri che i nostri italiani; e di questa ragion pietra se ne trova di tanti colori, quanto la natura lor madre s'è di continuo dilettata e diletta di condurre a perfezione. Di questi sì fatti mischi se ne veggono in Roma ne' tempi nostri opere antiche e moderne, come colonne, vasi, fontane, ornamenti di porte, e diverse incrostature per gli edifici e molti pezzi ne' pavimenti. Se ne vede diverse sorti di più colori: chi tira al giallo et al rosso, alcuni al bianco et al nero, altri al bigio et al bianco pezzato di rosso e venato di più colori; così certi rossi, verdi, neri e bianchi che sono orientali. E di questa sorte pietra n'ha un pilo antichissimo, largo braccia quattro e mezzo, il signor Duca al suo giardino de' Pitti, che è cosa rarissima, per esser, come s'è detto, orientale, di mischio bellissimo e molto duro a lavorarsi. E cotali pietre sono tutte di specie più dura e più bella di colore e più fine, come ne fanno fede oggi due colonne di braccia dodici di altezza nella entrata di San Pietro di Roma, le quali reggono le prime navate: et una n'è da una banda, l'altra dall'altra. Di questa sorte, quella ch'è ne' monti di Verona è molto più tenera che l'orientale infinitamente, e ne cavano in questo luogo d'una sorte ch'è rossiccia, e tira in color ceciato, e queste sorti si lavorano tutte bene a' giorni nostri con le tempere e co' ferri sì come le pietre nostrali, e se ne fa e finestre e colonne, e fontane e pavimenti, e stipiti per le porte e cornici, come ne rende testimonianza la Lombardia, anzi tutta la Italia.

Trovasi un'altra sorte di pietra durissima, molto più ruvida e picchiata di neri e bianchi e talvolta di rossi, dal tiglio e dalla grana di quella comunemente detta granito; della quale si truova nello Egitto saldezze grandissime, e da cavarne altezze incredibili, come oggi si veggono in Roma negli obelischi, aguglie, piramidi, colonne, et in que' grandissimi va-si de' bagni che abbiamo a San Pietro in Vincola e a San Salvadore del Lauro e a San Marco, et in colonne quasi infinite che per la durezza e saldezza loro non hanno temuto fuoco né ferro; et il tempo istesso, che tutte le cose caccia a terra, non solamente non le ha distrutte, ma neppur cangiato loro il colore. E per questa cagione gli Egizzii se ne servivano per i loro morti, scrivendo in queste aguglie coi caratteri loro strani la vita de' grandi, per mantener la memoria della nobiltà e virtù di quegli.

Venivane d'Egitto medesimamente d'una altra ragione bigio, il quale trae più in verdiccio i neri et i picchiati bianchi; molto duro certamente, ma non sì che i nostri scarpellini per la fabrica di San Pietro non abbiano, delle spoglie che hanno trovato messe in opera, fatto sì che con le tempere de' ferri, che ci sono al presente, hanno ridotto le colonne e l'altre cose a quella sottigliezza ch'hanno voluto, e datoli bellissimo pulimento come al porfido. Di questo granito bigio è dotata la Italia in molte parti, ma le maggiori saldezze che si trovino sono nell'isola dell'Elba, dove i Romani tennero di continuo uomini a cavare infinito numero di questa pietra. E di questa sorte ne sono parte le colonne del portico della Ritonda, le quali son molto belle e di grandezza straordinaria, e vedesi che nella cava quando si taglia, è più tenero assai che quando è stato cavato, e che vi si lavora con più facilità. Vero è che bisogna per la maggior parte lavorarlo con martelline che abbiano la punta, come quelle del porfido, e nelle gradine una dentatura tagliente dall'altro lato. D'un pezzo della qual sorte pietra che era staccato dal masso, n'ha cavato il duca Cosimo una tazza tonda di larghezza di braccia dodici per ogni verso, et una tavola della medesima lunghezza per lo palazzo e giardino de' Pitti.

Cavasi del medesimo Egitto e di alcuni luoghi di Grecia ancora certa sorte di pietra nera detta paragone, la quale ha questo nome, perché volendo saggiar l'oro s'arruota su quella pietra, e si conosce il colore; e per questo, paragonandovi su, vien detto paragone. Di questa è un'altra specie di grana e di un altro colore, perché non ha il nero morato affatto e non è gentile: che ne fecero gli antichi alcune di quelle sfingi et altri animali, come in Roma in diversi luoghi si vede, e di maggior saldezza una figura in Parione d'uno Ermafrodito accompagnata da un'altra statua di porfido, bellissima. La qual pietra è dura a intagliarsi, ma è bella straordinariamente e piglia un lustro mirabile. Di questa medesima sorte se ne trova ancora in Toscana ne' monti di Prato, vicino a Fiorenza a X miglia, e così ne' monti di Carrara, della quale alle sepolture moderne se ne veggono molte casse e dipositi per i morti: come nel Carmine di Fiorenza alla capella maggiore, dove è la sepoltura di Piero Soderini (se bene non vi è dentro) di questa pietra, et un padiglione similmente di paragon di Prato, tanto ben lavorato e così lustrante, che pare un raso di seta e non un sasso intagliato e lavorato. Così ancora nella incrostatura di fuori del tempio di S. Maria del Fiore di Fiorenza per tutto lo edificio è un'altra sorte di marmo nero e marmo rosso, che tutto si lavora in un medesimo modo.

Cavasi alcuna sorte di marmi in Grecia e in tutte le parti d'Oriente che son bianchi e gialleggiano e traspaiono molto, i quali erano adoperati dagli antichi per bagni e per stufe e per tutti que' luoghi dove il vento potesse offendere gli abitatori; e oggi se ne veggono ancora alcune finestre nella tribuna di San Miniato a Monte, luogo de' monaci di Monte Oliveto, in su le porte di Fiorenza, che rendono chiarezza e non vento. E con questa invenzione riparavano al freddo e facevano lume alle abitazioni loro. In queste cave medesime cavavano altri marmi senza vene ma del medesimo colore, del quale eglino facevano le più nobili statue. Questi marmi di tiglio e di grana erano finissimi, e se ne servivano ancora tutti quelli che intagliavano capitegli, ornamenti, et altre cose di marmo per l'architettura. E vi eran saldezze grandissime di pezzi, come appare ne' Giganti di Montecavallo di Roma, e nel Nilo di Belvedere, e in tutte le più degne e celebrate statue. E si conoscono esser greche, oltra il marmo, alla maniera delle teste et alla acconciatura del capo et ai nasi delle figure, i quali sono dall'appiccatura delle ciglia alquanto quadri fino alle nare del naso: e questo si lavora coi ferri ordinari e coi trapani, e si gli dà il lustro con la pomice e col gesso di Tripoli, col cuoio e struffoli di paglia.

Sono nelle montagne di Carrara, nella Carfagnana vicino ai monti di Luni, molte sorti di marmi, come marmi neri, et alcuni che traggono in bigio, et altri che sono mischiati di rosso, et alcuni altri che son con vene bigie, che sono crosta sopra a' marmi bianchi; perché non son purgati, anzi offesi dal tempo, dall'acqua e dalla terra, pigliano quel colore. Cavansi ancora altre specie di marmi, che son chiamati cipollini e saligni e campanini e mischiati, e per lo più una sorte di marmi bianchissimi e lattati, che sono gentili et in tutta perfezzione per far le figure. E vi s'è trovato da cavare saldezze grandissime, e se n'è cavato ancora a' giorni nostri pezzi di nove braccia per far giganti, e d'un medesimo sasso ancora se ne sono cavati a' tempi nostri due, l'uno fu il Davitte che fece Michelagnolo Buonarroto, il quale è alla porta del palazzo del Duca di Fiorenza, e l'altro, l'Ercole e Cacco, che di mano del Bandinello sono, all'altro lato della medesima porta. Un altro pezzo ne fu cavato, pochi anni sono, di braccia nove, perché il detto Baccio Bandinello ne facesse un Nettuno per la fonte che il Duca fa fare in piazza. Ma essendo morto il Bandinello, è stato dato poi all'Ammannato, scultore eccellente, perché ne faccia similmente un Nettuno. Ma di tutti questi marmi quelli della cava detta del Polvaccio, ch'è nel medesimo luogo, sono con manco macchie e smerigli, e senza que' nodi e noccioli che il più delle volte sogliono esser nella grandezza de' marmi, e recar non piccola difficultà a chi gli lavora, e bruttezza nell'opere, finite che sono le statue.

Si sono ancora, dalle cave di Serravezza in quel di Pietrasanta, avute colonne della medesima altezza, come si può vedere una, di molte che avevano a essere, nella facciata di San Lorenzo di Firenze, quale è oggi abbozzata fuor della porta di detta chiesa, dove l'altre sono parte alla cava rimase e parte alla marina.

Ma tornando alle cave di Pietrasanta, dico che in quelle s'essercitarono tutti gli antichi, et altri marmi che questi non adoperarono, per fare que' maestri che furon sì eccellenti le loro statue; essercitandosi di continuo, mentre si cavavono le lor pietre per far le loro statue, in fare ne' sassi medesimi delle cave, bozze di figure; come ancora oggi se ne veggono le vestigia di molte in quel luogo. Di questa sorte, adunque, cavano oggi i moderni le loro statue, e non solo per il servizio della Italia, ma se ne manda in Francia, in Inghilterra, in Ispagna, e in Portogallo. Come appare oggi per la sepoltura fatta in Napoli da Giovan da Nola, scultore eccellente, a don Pietro di Toledo viceré di quel regno; che tutti i marmi gli furon donati e condotti in Napoli dal signor duca Cosimo de' Medici. Questa sorte di marmi ha in sé saldezze maggiori e più pastose e morbide a lavorarla, e se le dà bellissimo pulimento più ch'ad altra sorte di marmo. Vero è che si viene talvolta a scontrarsi in alcune vene domandate dagli scultori smerigli, i quali sogliono rompere i ferri. Questi marmi si abbozzano con una sorte di ferri chiamati subbie, che hanno la punta a guisa di pali a facce, e più grossi e sottili, e di poi seguitano con scarpelli detti calcagnuoli, i quali nel mezzo del taglio hanno una tacca, e così con più sottili di mano in mano che abbiano più tacche, e gl'intaccano, quando sono arruotati, con un altro scarpello. E questa sorte di ferri chiamano gradine, perché con esse vanno gradinando e riducendo a fine le lor figure; dove poi con lime di ferro diritte e torte vanno levando le gradine che son restate nel marmo; e così poi con la pomice arrotando a poco a poco gli fanno la pelle che vogliono. E tutti gli strafori che fanno, per non intronare il marmo, gli fanno con trapani di minore e di maggior grandezza, e di peso di dodici libre l'uno, e qualche volta venti; che di questi ne hanno di più sorte, per far maggiori e minori buche; e gli servon questi per finire ogni sorte di lavoro e condurlo a perfezzione. De' marmi bianchi venati di bigio gli scultori e gli architetti ne fanno ornamenti per porte e colonne per diverse case. Servonsene per pavimenti e per incrostatura nelle lor fabriche, e gli adoperano a diverse sorti di cose; similmente fanno di tutti i marmi mischiati.

I marmi cipollini sono un'altra specie, di grana e colore differente, e di questa sorte n'è ancora altrove che a Carrara; e questi il più pendono in verdiccio, e son pieni di vene, che servono per diverse cose, e non per figure. Quegli che gli scultori chiamano saligni, che tengono di congelazione di pietra, per esservi que' lustri ch'appariscono nel sale e traspaiono alquanto, è fatica assai a farne le figure, perché hanno la grana della pietra ruvida e grossa, e perché ne' tempi umidi gocciano acqua di continuo, overo sudano. Quegli che si dimandano campanini son quella sorte di marmi che suonano quando si lavorano, et hanno un certo suono più acuto degli altri; questi son duri e si schiantano più facilmente che l'altre sorti su dette, e si cavano a Pietrasanta. A Seravezza ancora in più luoghi et a Campiglia si cavano alcuni marmi, che sono per la maggior parte buonissimi per lavoro di quadro, e ragionevoli ancora alcuna volta per statue; et in quel di Pisa al monte a San Giuliano si cava similmente una sorte di marmo bianco che tiene d'alberese, e di questi è incrostato di fuori il Duomo et il Camposanto di Pisa oltre a molti altri ornamenti che si veggono in quella città, fatti del medesimo.

E perché già si conducevano i detti marmi del monte a San Giuliano in Pisa con qualche incommodo e spesa, oggi avendo il duca Cosimo, così per sanare il paese come per agevolare il condurre i detti marmi et altre pietre che si cava-no da que' monti, messo in canale diritto il fiume d'Osoli et altre molte acque, che sorgeano in que' piani con danno del paese, si potranno agevolmente per lo detto canale condurre i marmi o lavorati o in altro modo con picciolissima spesa, e con grandissimo utile di quella città che è poco meno che tornata nella pristina grandezza, mercé del detto signor duca Cosimo che non ha cura che maggiormente lo prema che d'aggrandire e rifar quella città, che era assai mal condotta, innanzi che ne fusse sua Eccellenza Signore.

Cavasi un'altra sorte di pietra chiamata trevertino, il quale serve molto per edificare e fare ancora intagli di diverse ragioni, che per Italia in molti luoghi se ne va cavando, come in quel di Lucca et a Pisa et in quel di Siena da diverse bande. Ma le maggiori saldezze e le migliori pietre, cioè quelle che son più gentili, si cavano in sul fiume del Teverone a Tigoli, ch'è tutta specie di congelazione d'acque e di terra, che per la crudezza e freddezza sua non solo congela e petrifica la terra, ma i ceppi, i rami e le fronde degli alberi. E per l'acqua che riman dentro non si potendo finire di asciugare, quando elle son sotto l'acqua, vi rimangono i pori della pietra cavati, che pare spugnosa e buccheraticcia egualmente di dentro e di fuori. Gli antichi di questa sorte pietra fecero le più mirabili fabriche et edifici che facessero, come sono i Colisei e l'Erario da San Cosmo e Damiano, e molti altri edifici; e ne mettevano ne' fondamenti delle lor fabriche infinito numero, e lavorandoli non furon molto curiosi di farli finire, ma se ne servivano rusticamente: e questo forse facevano, perché hanno in sé una certa grandezza e superbia. Ma ne' giorni nostri s'è trovato chi gli ha lavorati sottilissimamente, come si vide già in quel tempio tondo che cominciarono e non finirono, salvo che tutto il basamento, in sulla piazza di San Luigi i Francesi in Roma. Il quale fu condotto da un francese chiamato maestro Gian, che studiò l'arte dello intaglio in Roma, e divenne tanto raro, che fece il principio di questa opera, la quale poteva stare al paragone di quante cose eccellenti antiche e moderne che si sian viste, d'intaglio di tal pietra, per aver straforato sfere di astrologi, et alcune salamandre nel fuoco, imprese reali, et in altre libri aperti con le carte, lavorati con diligenza, trofei e maschere; le quali rendono, dove sono, testimonio della eccellenza e bontà da poter lavorarsi questa pietra simile al marmo, ancor che sia rustica. E reca sì in sé una grazia per tutto, vedendo quella spugnosità de' buchi unitamente, che fa bel vedere. Il qual principio di tempio, essendo imperfetto, fu levato dalla nazione francese, e le dette pietre et altri lavori di quello posti nella facciata della chiesa di San Luigi, e parte in alcune capelle, dove stanno molto bene accomodati e riescono bellissimi.

Questa sorte di pietra è bonissima per le muraglie, avendo sotto squadratola o scorniciata; perché si può incrostarla di stucco, con coprirla con esso et intagliarvi ciò ch'altri vuole; come fecero gli antichi nell'entrate publiche del Culiseo et in molti altri luoghi, e come ha fatto a' giorni nostri Antonio da San Gallo nella sala del palazzo del Papa dinanzi alla capella, dove ha incrostato di trevertini con stucco con vari intagli eccellentissimamente. Ma più d'ogni altro maestro ha nobilitata questa pietra Michelangelo Buonaroti nell'ornamento del cortile di casa Farnese, avendovi con maraviglioso giudizio fatto d'essa pietra far finestre, maschere, mensole, e tante altre simili bizzarrie, lavorate tutte come si fa il marmo, che non si può veder alcuno altro simile ornamento più bello. E se queste cose son rare, è stupendissimo il cornicione maggiore del medesimo palazzo nella faciata dinanzi, non si potendo alcuna cosa né più bella né più magnifica disiderare.

Della medesima pietra ha fatto similmente Michilagnolo nel difuori della fabrica di San Piero certi tabernacoli grandi, e dentro la cornice che gira intorno alla tribuna, con tanta pulitezza, che non si scorgendo in alcun luogo le commettiture, può conoscer ognuno agevolmente quanto possiamo servirci di questa sorte pietra. Ma quello che trapassa ogni maraviglia è, che avendo fatto di questa pietra la volta d'una delle tre tribune del medesimo San Pietro, sono commessi i pezzi di maniera, che non solo viene collegata benissimo la fabrica con varie sorti di commettiture, ma pare, a vederla da terra, tutta lavorata d'un pezzo.

Ècci un'altra sorte di pietre che tendono al nero, e non servono agli architettori se non a lastricare tetti. Queste sono lastre sottili prodotte a suolo a suolo dal tempo e dalla natura per servizio degli uomini, che ne fanno ancora pile, murandole talmente insieme, che elle commettino l'una ne l'altra, e le empiono d'olio secondo la capacità de' corpi di quelle e sicurissimamente ve lo conservano. Nascono queste nella riviera di Genova in un luogo detto Lavagna, e se ne ca-vano pezzi lunghi X braccia; e i pittori se ne servono a lavorarvi su le pitture a olio; perché elle vi si conservano su molto più lungamente che nelle altre cose, come al suo luogo si ragionerà ne' capitoli della pittura.

Aviene questo medesimo de la pietra detta piperno, da molti detta preperigno; pietra nericcia e spugnosa come il trevertino, la quale si cava per la campagna di Roma, e se ne fanno stipiti di finestre e porte in diversi luoghi, come a Napoli et in Roma; e serve ella ancora a' pittori a lavorarvi su a olio, come al suo luogo racconteremo. È questa pietra alidissima et ha anzi dell'arsiccio che no.

Cavasi ancora in Istria una pietra bianca livida, la quale molto agevolmente si schianta; e di questa sopra di ogni altra si serve non solamente la città di Vinegia, ma tutta la Romagna ancora, facendone tutti i loro lavori e di quadro e d'intaglio; e con sorte di stromenti e ferri più lunghi che gli altri la vanno lavorando, massimamente con certe martelline andando secondo la falda della pietra, per essere ella molto frangibile. E di questa sorte pietra ne ha messo in opera una gran copia messer Iacopo Sansovino, il quale ha fatto in Vinegia lo edificio dorico della Panatteria, et il toscano alla Zecca in sulla piazza di San Marco. E così tutti i lor lavori vanno facendo per quella città, e porte, finestre, cappelle et altri ornamenti che lor viene comodo di fare, non ostante che da Verona per il fiume dello Adige abbiano comodità di condurvi i mischi et altra sorte di pietre, delle quali poche cose si veggono, per aver più in uso questa, nella quale spesso vi commettono dentro porfidi, serpentini et altre sorti di pietre mischie, che fanno, accompagnate con essa, bellissimo ornamento. Questa pietra tiene d'alberese come la pietra da calcina d'i nostri paesi, e, come si è detto, agevolmente si schianta.

Restaci la pietra serena, e la bigia detta macigno, e la pietra forte che molto s'usa in Italia, dove son monti, e massimamente in Toscana, per lo più in Fiorenza e nel suo dominio. Quella ch'eglino chiamano pietra serena, è quella sorte che trae in azzurrigno overo tinta di bigio; della quale n'è ad Arezzo cave in più luoghi, a Cortona, a Volterra, e per tutti gli Appennini; e ne' monti di Fiesole è bellissima, per esservisi cavato saldezze grandissime di pietre: come veggiamo in tutti gli edifici che sono in Firenze fatti da Filippo di ser Brunellesco, il quale fece cavare tutte le pietre di San Lorenzo e di Santo Spirito et altre infinite che sono in ogni edificio per quella città. Questa sorte di pietra è bellissima a vedere, ma dove sia umidità e vi piove su, o abbia ghiacciati addosso, si logora e si sfalda, ma al coperto ella dura in infinito.

Ma molto più durabile di questa e di più bel colore è una sorte di pietra azzurrigna, che si dimanda oggi la pietra del fossato, la quale quando si cava, il primo filare è ghiaioso e grosso, il secondo mena nodi e fessure, il terzo è mirabile, perché è più fine. Della qual pietra Michelagnolo s'è servito nella libreria e sagrestia di San Lorenzo, per papa Clemente, per esser gentile di grana, et ha fatto condurre le cornici, le colonne et ogni lavoro con tanta diligenza, che d'argento non resterebbe sì bella. E questa piglia un pulimento bellissimo, e non si può desiderare in questo genere cosa migliore.

E perciò fu già in Fiorenza ordinato per legge, che di questa pietra non si potesse adoperare se non in fare edifizi publici, o con licenza di chi governasse. Della medesima n'ha fatto assai mettere in opera il duca Cosimo, così nelle colonne et ornamenti della loggia di Mercato Nuovo, come nell'opera dell'udienza cominciata nella sala grande del Palazzo dal Bandinello, e nell'altra che è a quella dirimpetto; ma gran quantità, più che in alcuno altro luogo sia stato fatto già mai, n'ha fatto mettere Sua Eccellenza nella strada de' Magistrati che fa condurre col disegno et ordine di Giorgio Vasari Aretino. Vuole questa sorte di pietra il medesimo tempo a esser lavorata che il marmo; et è tanto dura, che ella regge al-l'acqua e si difende assai dall'altre ingiurie del tempo.

Fuor di questa n'è un'altra specie ch'è detta pietra serena, per tutto il monte, ch'è più ruvida e più dura e non è tanto colorita, che tiene di specie di nodi della pietra, la quale regge all'acqua, al ghiaccio, e se ne fa figure et altri ornamenti intagliati. E di questa n'è la Dovizia, figura di man di Donatello in su la colonna di Mercato Vecchio in Fiorenza; così molte altre statue fatte da persone eccellenti non solo in quella città ma per il dominio.

Cavasi per diversi luoghi la pietra forte, la qual regge all'acqua, al sole, al ghiaccio, et a ogni tormento e vuol tempo a lavorarla, ma si conduce molto bene, e non v'è molte gran saldezze. Della qual se n'è fatto e per i Gotti e per i moderni i più belli edifici che siano per la Toscana, come si può vedere in Fiorenza nel ripieno de' due archi che fanno le porte principali dell'oratorio d'Orsanmichele, i quali sono veramente cose mirabili e con molta diligenza lavorate. Di que-sta medesima pietra sono similmente per la città, come s'è detto, molte statue et armi, come intorno alla fortezza et in altri luoghi si può vedere. Questa ha il colore alquanto gialliccio con alcune vene di bianco sottilissime che le danno grandissima grazia; e così se n'è usato fare qualche statua ancora, dove abbiano a essere fontane, perché reggano all'ac-qua. E di questa sorte pietra è murato il palagio de' Signori, la Loggia, Orsanmichele, et il didentro di tutto il corpo di S. Maria del Fiore, e così tutti i ponti di quella città, il palazzo de' Pitti e quello degli Strozzi. Questa vuol esser lavorata con le martelline, perch'è più soda; e così l'altre pietre su dette vogliono esser lavorate nel medesimo modo che s'è detto del marmo e dell'altre sorti di pietre. Imperò, non ostante le buone pietre e le tempere de' ferri, è di necessità l'arte, intelligenza e giudicio di coloro che le lavorano; perché è grandissima differenza negli artefici, tenendo una misura medesima da mano a mano, in dar grazia e bellezza all'opere che si lavorano. E questo fa discernere e conoscere la perfezzione del fare da quegli che sanno a quei che manco sanno.

Per consistere, adunque, tutto il buono e la bellezza delle cose estremamente lodate negli estremi della perfezzione che si dà alle cose, che tali son tenute da coloro che intendono, bisogna con ogni industria ingegnarsi sempre di farle perfette e belle, anzi bellissime e perfettissime.

Cap. II. Che cosa sia il lavoro di quadro semplice et il lavoro di quadro intagliato.

Avendo noi ragionato così in genere di tutte le pietre, che o per ornamenti o per iscolture servono agli artefici nostri ne' loro bisogni, diciamo ora che quando elle si lavorano per la fabrica, tutto quello dove si adopera la squadra e le seste e che ha cantoni, si chiama lavoro di quadro. E questo cognome deriva dalle facce e dagli spigoli che son quadri, perché ogni ordine di cornici, o cosa che sia diritta o vero risaltata et abbia cantonate, è opera che ha il nome di quadro; e però volgarmente si dice fra gli artefici, lavoro di quadro. Ma s'ella non resta così pulita, ma si intagli in tai cornici, fregi, fogliami, uovoli, fusaruoli, dentelli, guscie, et altre sorte d'intagli, in que' membri che sono eletti a intagliarsi da chi le fa, ella si chiama opra di quadro intagliata o vero lavoro d'intaglio. Di questa sorte opra di quadro e d'intaglio si fanno tutte le sorti ordini: rustico, dorico, ionico, corinto e composto; e così se ne fece al tempo de' Goti il lavoro tedesco. E non si può lavorare nessuna sorte d'ornamenti, che prima non si lavori di quadro e poi d'intaglio, così pietre mischie e marmi e d'ogni sorte pietra, così come ancora di mattoni, per avervi a incrostar su opra di stucco intagliata; similmente di legno di noce e d'albero e d'ogni sorte legno. Ma perché molti non sanno conoscere le differenze che sono da ordine e ordine, ragioneremo distintamente nel capitolo che segue di ciascuna maniera o modo più brevemente che noi potremo.

Cap. III. De' cinque ordini d'architettura: rustico, dorico, ionico, corinto, composto, e del lavoro tedesco.

Il lavoro chiamato rustico è più nano e di più grossezza che tutti gl'altri ordini, per essere il principio e fondamento di tutti, e si fa nelle modanature delle cornici più semplici, e per conseguenza più bello, così ne' capitelli e base come in ogni suo membro. I suoi zoccoli, o piedistalli che gli vogliam chiamare, dove posano le colonne, sono quadri di proporzione, con l'avere da piè la sua fascia soda, e così un'altra di sopra che lo ricinga in cambio di cornice. L'altezza della sua colonna si fa di sei teste, a imitazione di persone nane ed atte a regger peso; e di questa sorte se ne vede in Toscana molte logge pulite et alla rustica con bozze e nicchie fra le colonne, e senza, e così molti portichi, che gli costumarono gli antichi nelle lor ville; et in campagna se ne vede ancora molte sepolture, come a Tigoli et a Pozzuolo. Servironsi di questo ordine gli antichi per porte, finestre, ponti, acquidotti, erarii, castelli, torri, e rocche da conservar munizioni et artiglieria, e porti di mare, prigioni e fortezze, dove si fa cantonate a punte di diamanti et a più faccie, bellissime. E queste si fanno spartite in vari modi, cioè o bozze piane per non far con esse scala alle muraglie, perché agevolmente si salirebbe quando le bozze avesseno, come diciamo noi, troppo aggetto, o in altre maniere, come si vede in molti luoghi e massimamente in Fiorenza nella facciata dinanzi e principale della cittadella maggiore, che Alessandro primo duca di Fiorenza fece fare; la quale per rispetto dell'impresa de' Medici è fatta a punte di diamante e di palle schiacciate, e l'una e l'altra di poco rilievo. Il qual composto tutto di palle e di diamanti, uno allato all'altro, è molto ricco e vario, e fa bellissimo vedere. E di questa opera n'è molto per le ville de' Fiorentini, portoni, entrate, e case e palazzi dove e' villeggiono, che non solo recano bellezza et ornamento infinito a quel contado, ma utilità e commodo grandissimo ai cittadini. Ma molto più è dotata la città di fabriche stupendissime, fatte di bozze, come quella di casa Medici, la facciata del palazzo de' Pitti, quello degli Strozzi, et altri infiniti. Questa sorte di edificii tanto quanto più sodi e semplici si fanno e con buon disegno, tanto più maestria e bellezza vi si conosce dentro, et è necessario che questa sorte di fabrica sia più eterna e durabile di tutte l'altre, avvenga che sono i pezzi delle pietre maggiori, e molto migliori le commettiture dove si va collegando tutta la fabrica con una pietra che lega l'altra pietra. E perché elle son pulite e sode di membri, non hanno possanza i casi di fortuna o del tempo nuocergli tanto rigidamente, quanto fanno alle altre pietre intagliate e traforate, o, come dicono i nostri, campate in aria dalla diligenza degli intagliatori.

L'ordine dorico fu il più massiccio ch'avesser i Greci e più robusto di fortezza e di corpo, e molto più degl'altri loro ordini collegato insieme; e non solo i Greci, ma i Romani ancora dedicarono questa sorte di edificii a quelle persone che erano armigeri, come imperatori d'eserciti, consoli e pretori; ma agli Dei loro molto maggiormente, come a Giove, Marte, Ercole et altri, avendo sempre avvertenza di distinguere, secondo il lor genere, la differenza della fabrica o pulita o intagliata, o più semplice o più ricca, acciò che si potesse conoscere dagli altri il grado e la differenza fra gl'impera-tori, o di chi faceva fabricare. E perciò si vede all'opere che feciono gl'antichi essere stata usata molta arte ne' componimenti delle loro fabriche, e che le modanature delle cornici doriche hanno molta grazia, e ne' membri unione e bellezza grandissima. E vedesi ancora che la proporzione ne' fusi delle colonne di questa ragione è molto ben intesa, come quelle che non essendo né grosse grosse né sottili sottili hanno forma somigliante, come si dice, alla persona d'Ercole, mostrando una certa sodezza molto atta a regger il peso degli architravi, fregi, cornici, e il rimanente di tutto l'edificio che va sopra.

E perché quest'ordine, come più sicuro e più fermo degl'altri, è sempre piaciuto molto al signor duca Cosimo, egli ha voluto che la fabrica, che mi fa far con grandissimo ornamento di pietra per tredici magistrati civili della sua città e dominio, accanto al suo palazzo insino al fiume d'Arno, sia di forma dorica. Onde per ritornare in uso il vero modo di fabricare, il quale vuole che gl'architravi spianino sopra le colonne, levando via la falsità de girare gli archi delle logge sopra i capitelli, nella facciata dinanzi ho seguitato il vero modo che usarono gli antichi, come in questa fabrica si vede. E perché questo modo di fare è stato dagl'architetti passati fuggito, perciò che gli architravi di pietra, che d'ogni sorte si trovano, antichi e moderni, si veggono tutti, o la maggior parte, essere rotti nel mezzo, non ostante che sopra il sodo delle colonne, dell'architrave, fregio, e cornice siano archi di mattoni piani che non toccano e non aggravano; io, dopo molto avere considerato il tutto, ho finalmente trovato un modo bonissimo di mettere in uso il vero modo di far con sicurezza degl'architravi detti, che non patiscono in alcuna parte, e rimane il tutto saldo e sicuro quanto più non si può desiderare, sì come la sperienza ne dimostra. Il modo dunque è questo che qui di sotto si dirà a beneficio del mondo e degl'artefici.

Messe su le colonne e sopra i capitelli gl'architravi, che si stringono nel mezzo del diritto della colonna l'un l'altro, si fa un dado quadro; essempigrazia se la colonna è un braccio grossa e l'architrave similmente largo et alto, facciasi simile il dado del fregio, ma dinanzi gli resti nella faccia un ottavo per la commettitura del piombo, ed un altro ottavo o più sia intaccato di dentro il dado a quartabuono da ogni banda. Partito poi nell'intercolonnio il fregio in tre parti, le due dalle bande si augnino a quartabuono in contrario, che ricresca di dentro, acciò si stringa nel dado e serri a guisa d'arco; e dinanzi la grossezza dell'ottavo vada a piombo, et il simile faccia l'altra parte di là, all'altro dado. E così si faccia sopra la colonna, che il pezzo del mezzo di detto fregio stringa di dentro e sia intaccato a quartabuono infino a mezzo; l'altra mezza sia squadrata e diritta e messa a cassetta, perché stringa a uso d'arco, mostrando di fuori essere murata diritta. Facciasi poi che le pietre di detto fregio non posino sopra l'architrave, e non s'accostino un dito, perciò che facendo arco, viene a reggersi da sé e non caricar l'architrave. Facciasi poi dalla parte di dentro, per ripieno di detto fregio, un arco piano di mattoni alto quanto il fregio, che stringa fra dado e dado sopra le colonne. Facciasi di poi un pezzo di cornicione largo quanto il dado sopra le colonne, il quale abbia le commettiture dinanzi come il fregio; e di dentro sia detta cornice come il dado a quartabuono, usando diligenza che si faccia, come il fregio, la cornice di tre pezzi, de' quali due dalle bande stringhino di dentro a cassetta il pezzo di mezzo della cornice sopra il dado del fregio. E avertasi che il pezzo di mezzo della cornice vada per canale a cassetta in modo che stringa i due pezzi dalle bande e serri a guisa d'arco. Et in questo modo di fare può veder ciascuno che il fregio si regge da sé, e così la cornice, la quale posa quasi tutta in sull'arco di mattoni. E così, aiutandosi ogni cosa da per sé, non viene a regger l'architrave altro che il peso di se stesso, senza pericolo di rompersi già mai per troppo peso. E perché la sperienza ne dimostra questo modo esser sicurissimo, ho voluto farne particolare menzione a commodo e beneficio universale; e massimamente conoscendosi che il mettere, come gl'antichi fecero, il fregio e la cornice sopra l'architrave, che egli si rompe in spazio di tempo e forse per accidente di terremuoto o d'altro, non lo defendendo a bastanza l'arco che si fa sopra il detto cornicione. Ma girando archi sopra le cornici fatte in questa forma, incatenandolo al solito di ferri, assicura il tutto da ogni pericolo e fa eternamente durar l'edificio.

Diciamo, adunque, per tornar a proposito, che questa sorte di lavoro si può usare solo da sé, et ancora metterlo nel secondo ordine da basso sopra il rustico, et alzando mettervi sopra un altro ordine variato, come ionico, o corinto o composto, nella maniera che mostrarono gli antichi nel Culiseo di Roma, nel quale ordinatamente usarono arte e giudizio. Perché avendo i Romani trionfato non solo de' Greci ma di tutto il mondo, misero l'opera composta in cima, per averla i Toscani composta di più maniere; e la misero sopra tutte, come superiore di forza, grazia e bellezza, e come più apparente dell'altre, avendo a far corona all'edificio; che per essere ornata di be' membri fa nell'opra un finimento onoratissimo e da non desiderarlo altrimenti.

E per tornare al lavoro dorico, dico che la colonna si fa di sette teste d'altezza et il suo zoccolo ha da essere poco manco d'un quadro e mezzo di altezza, e larghezza un quadro, facendoli poi sopra le sue cornici e di sotto la sua fascia col bastone e due piani, secondo che tratta Vitruvio; e la sua base e capitello tanto d'altezza una quanto l'altra, computando del capitello dal collarino in su; la cornice sua col fregio et architrave appiccata, risaltando a ogni dirittura di colonna con que' canali che gli chiamano tigrifi ordinariamente, che vengono partiti fra un risalto e l'altro un quadro, dentrovi o teste di buoi secche o trofei o maschere o targhe o altre fantasie. Serra l'architrave, risaltando con una lista, i risalti, e da piè fa un pianetto sottile, tanto quanto tiene il risalto; a piè del quale fanno sei campanelle per ciascuno, chiamate gocce dagli antichi. E se si ha da vedere la colonna accanalata nel dorico, vogliono essere venti facce in cambio de' canali, e non rimanere fra canale e canale altro che il canto vivo.

Di questa ragione opera n'è in Roma al Foro Boario ch'è ricchissima; e d'un'altra sorte le cornici e gli altri membri al teatro di Marcello, dove oggi è la piazza Montanara; nella quale opera non si vede base, e quelle che si veggono son corinte. Et è openione che gli antichi non le facessero, et in quello scambio vi mettessero un dado tanto grande, quanto teneva la base. E di questo n'è il riscontro a Roma al carcere Tulliano, dove son capitelli ricchi di membri più che gli altri che si sian visti nel dorico. Di questo ordine medesimo n'ha fatto Antonio da San Gallo il cortile di casa Farnese in campo di Fiore a Roma, il quale è molto ornato e bello; benché continuamente si veda di questa maniera tempii antichi e moderni, e così palazzi, i quali per la sodezza e collegazione delle pietre son durati e mantenuti più che non hanno fatto tutti gli altri edifici.

L'ordine ionico per esser più svelto del dorico fu fatto dagli antichi a imitazione delle persone che sono fra il tenero et il robusto; e di questo rende testimonio l'averlo essi adoperato e messo in opera ad Apolline, a Diana, e a Bacco, e qualche volta a Venere. Il zoccolo che regge la sua colonna lo fanno alto un quadro e mezzo e largo un quadro, e le cornici sue di sopra e di sotto secondo questo ordine. La sua colonna è alta otto teste, e la sua base è doppia con due bastioni, come la descrive Vitruvio al terzo libro al terzo capo, et il suo capitello sia ben girato con le sue volute, o cartocci o viticci che ognun se li chiami, come si vede al teatro di Marcello in Roma sopra l'ordine dorico: così la sua cornice adorna di mensole e di dentelli, et il suo fregio con un poco di corpo tondo. E volendo accanalare le colonne, vogliono essere il numero de' canali ventiquattro, ma spartiti talmente, che ci resti fra l'un canale e l'altro la quarta parte del cana-le che serva per piano. Questo ordine ha in sé bellissima grazia e leggiadria, e se ne costuma molto fra gli architetti moderni.

Il lavoro corinto piacque universalmente molto a' Romani; e se ne dilettarono tanto ch'e' fecero di questo ordine le più ornate et onorate fabriche per lasciar memoria di loro; come appare nel tempio di Tigoli in sul Teverone, e le spoglie del Tempio della Pace, e l'arco di Pola, e quel del porto d'Ancona: ma molto più è bello il Pantheon, cioè la Ritonda di Roma, il quale è il più ricco e 'l più ornato di tutti gli ordini detti di sopra. Fassi il zoccolo, che regge la colonna, di questa maniera: largo un quadro e due terzi, e la cornice di sopra e di sotto a proporzione, secondo Vitruvio; fassi l'altezza della colonna nove teste con la sua basa e capitello, il quale sarà d'altezza tutta la grossezza della colonna da piè, e la sua base sarà la metà di detta grossezza, la quale usarono gli antichi intagliare in diversi modi. E l'ornamento del capitello sia fatto co' suoi vilucchi e le sue foglie, secondo che scrive Vitruvio nel quarto libro, dove egli fa ricordo essere stato tolto questo capitello dalla sepoltura d'una fanciulla corinta. Sèguitisi il suo architrave, fregio e cornice con le misure descritte da lui, tutte intagliate con le mensole et uovoli et altre sorti d'intagli sotto il gocciolatoio. E i fregi di quest'opera si possono fare intagliati tutti con fogliami, et ancora farne de' puliti o vero con lettere dentro, come erano quelle al portico della Ritonda, di bronzo commesso nel marmo. Sono i canali nelle colonne di questa sorte a numero ventisei benché n'è di manco ancora; et è la quarta parte del canale fra l'uno e l'altro che resta piano, come benissimo appare in molte opere antiche e moderne misurate da quelle.

L'ordine composto, se ben Vitruvio non ne ha fatto menzione, non facendo egli conto d'altro, che dell'opera dorica, ionica, corintia e toscana, tenendo troppo licenziosi coloro, che pigliando di tutt'e quattro quegli ordini, ne facessero corpi che gli rappresentassero piuttosto mostri che uomini; per averlo costumato molto i Romani et a loro imitazione i moderni, non mancherò di questo ancora, acciò se n'abbia notizia, dichiarare e formare il corpo di questa proporzione di fabrica. Credendo questo, che se i Greci e i Romani formarono que' primi quattro ordini e gli ridussero a misura e regola generale, che ci possino essere stati di quegli che abbino fin qui fatto nell'ordine composto, e componendo da sé delle cose, che apportino molto più grazia che non fanno le antiche. E che questo sia vero, ne fanno fede l'opere che Michelagnolo Buonarroti ha fatto nella sagrestia e libreria di San Lorenzo di Firenze: dove le porte, i tabernacoli, le base, le colonne, i capitelli, le cornici, le mensole, et insomma ogni altra cosa, hanno del nuovo e del composto da lui, e nondimeno sono meravigliose, non che belle. Il medesimo e maggiormente dimostrò lo stesso Michelagnolo nel secondo ordine del cortile di casa Farnese, e nella cornice ancora che regge di fuori il tetto di quel palazzo. E chi vuol veder quanto in questo modo di fare abbia mostrato la virtù di questo uomo, - veramente venuta dal cielo, - arte, disegno, e varia maniera, consideri quello che ha fatto nella fabbrica di San Piero, nel riunire insieme il corpo di quella machina, e nel far tante sorti di vari e stravaganti ornamenti, tante belle modanature di cornici, tanti diversi tabernacoli, et altre molte cose tutte trovate da lui e fatte variatamente dall'uso degli antichi. Perché niuno può negare che questo nuovo ordine composto, avendo da Michelagnolo tanta perfezzione ricevuto, non possa andar al paragone degli altri. E di vero la bontà e virtù di questo veramente eccellente scultore, pittore et architetto ha fatto miracoli dovunque egli ha posto mano, oltre all'altre cose che sono manifeste e chiare come la luce del sole, avendo siti storti dirizzati facilmente, e ridotti a perfezione molti edifici et altre cose di cattivissima forma, ricoprendo con vaghi e capricciosi ornamenti i difetti dell'ar-te e della natura. Le quali cose non considerando con buon giudicio e non le immitando, hanno a' tempi nostri certi architetti plebei, prosontuosi e senza disegno, fatto quasi a caso, senza servar decoro, arte o ordine nessuno, tutte le cose loro mostruose e peggio che le tedesche.

Ma tornando a proposito di questo modo di lavorare è scorso l'uso, che già è nominato questo ordine da alcuni composto, da altri latino, e per alcuni altri italico. La misura dell'altezza di questa colonna vuole essere dieci teste, la base sia per la metà della grossezza della colonna, e misurata simile alla corinta, come ne appare in Roma all'arco di Tito Vespasiano. E chi vorrà far canali in questa colonna, può fargli simili alla ionica, o come la corinta, o come sarà l'ani-mo di chi farà l'architettura di questo corpo ch'è misto con tutti gli ordini. I capitelli si posson fare simili ai corinti, salvo che vuole essere più la cimasa del capitello, e le volute o viticci alquanto più grandi, come si vede all'arco suddetto. L'architrave sia tre quarti della grossezza della colonna, et il fregio abbia il resto pien di mensole e la cornice quanto l'architrave, che l'aggetto la fa diventar maggiore; come si vede nell'ordine ultimo del Culiseo di Roma; et in dette mensole si possono far canali a uso di tigrifi, e altri intagli secondo il parere dell'architetto; et il zoccolo, dove posa su la colonna, ha da essere alto due quadri, e così le sue cornici a sua fantasia o come gli verrà in animo di farle.

Usavano gli antichi o per porte, o sepolture, o altre specie d'ornamenti, in cambio di colonne, termini di varie sorti: chi una figura ch'abbia una cesta in capo per capitello, altri una figura fino a mezzo, et il resto verso la base piramide, overo bronconi d'alberi; e di questa sorte facevano vergini, satiri, putti, et altre sorti di mostri o bizzarrie che veniva lor comodo, e secondo che nasceva loro nella fantasia le mettevano in opera.

Ècci un'altra specie di lavori che si chiamano tedeschi, i quali sono di ornamenti e di proporzione molto differenti dagli antichi e da' moderni; né oggi s'usano per gli eccellenti, ma son fuggiti da loro come mostruosi e barbari, mancando ogni lor cosa di ordine, che più tosto confusione o disordine si può chiamare: avendo fatto nelle lor fabriche, che son tante ch'hanno ammorbato il mondo, le porte ornate di colonne sottili et attorte a uso di vite, le quali non possono aver forza a reggere il peso di che leggerezza si sia. E così per tutte le facce et altri loro ornamenti facevano una maledizione di tabernacolini l'un sopra l'altro, con tante piramidi e punte e foglie, che non ch'elle possano stare, pare impossibile ch'elle si possino reggere; et hanno più il modo da parer fatte di carta che di pietre o di marmi. Et in queste opere facevano tanti risalti, rotture, mensoline e viticci, che sproporzionavano quelle opere che facevano, e spesso con mettere cosa sopra cosa andavano in tanta altezza, che la fine d'una porta toccava loro il tetto. Questa maniera fu trovata dai Gotti, che per aver ruinate le fabriche antiche, e morti gli architetti per le guerre, fecero dopo coloro che rimasero, le fabriche di questa maniera; le quali girarono le volte con quarti acuti, e riempierono tutta Italia di questa maledizione di fabriche, che per non averne a far più, s'è dismesso ogni modo loro. Iddio scampi ogni paese da venir tal pensiero, et ordine di lavori, che per esser eglino talmente difformi alla bellezza delle fabriche nostre, meritano che non se ne favelli più che questo.

E però passiamo a dire delle volte.

Cap. IIII. Del fare le volte di getto, che vengano intagliate; quando si disarmino, e d'impastar lo stucco.

Quando le mura son arrivate al termine che le volte s'abbino a voltare o di mattoni o di tufi o di spugna, bisogna sopra l'armadura de' correnti o piane voltare di tavole in cerchio serrato, che commettino secondo la forma della volta, o a schifo; e l'armadura della volta, in quel modo che si vuole, con buonissimi puntelli fermare, che la materia di sopra del peso non la sforzi; e da poi saldissimamente turare ogni pertugio nel mezzo, ne' cantoni, e per tutto con terra, acciò che la mistura non coli sotto, quando si getta. E così armata, sopra quel piano di tavole si fanno casse di legno che in contrario siano lavorate: dov'è un cavo, rilievo; e così le cornici e i membri che far ci vogliamo, siano in contrario; acciò, quando la materia si getta, venga, dov'è cavo, di rilievo, e dove è rilievo, cavo; e così similmente vogliono essere tutti i membri delle cornici al contrario scorniciati. Se si vuol fare pulita o intagliata, medesimamente è necessario aver forme di legno che formino di terra le cose intagliate in cavo, e si faccin d'essa terra le piastre quadre di tali intagli, e quelle si commettino l'una all'altra su' piani o gola o fregi, che far si vogliano diritto per quella armadura. E finita di coprir tutta degli intagli di terra formati in cavo e commessi, già di sopra detti, si debbe poi pigliare la calce con pozzolana o rena vagliata sottile, stemperata, liquida et alquanto grassa, e di quella fare egualmente una incrostatura per tutte, finché tutte le forme sian piene. Et appresso sopra coi mattoni far la volta, alzando quegli et abbassando, secondo che la volta gira, e di continuo si conduca con essi crescendo, sino ch'ella sia serrata. E finita tal cosa, si debbe poi lasciare far presa e assodare, finché tale opra sia ferma e secca. E da poi, quando i puntelli si levano, e la volta si disarma, facilmente la terra si leva e tutta l'opera resta intagliata e lavorata, come se di stucco fosse condotta; e quelle parti che non son venute, si vanno con lo stucco ristaurando, tanto che si riducano a fine. E così si sono condotte negli edifici antichi tutte l'o-pre, le quali hanno poi di stucco lavorate sopra a quelle. Così hanno ancora oggi fatto i moderni nelle volte di San Pietro, e molti altri maestri per tutta Italia.

Ora, volendo mostrare come lo stucco s'impasti, si fa con un edificio in uno mortaio di pietra pestare la scaglia di marmo; né si toglie per quell'altro che la calce che sia bianca, fatta o di scaglia di marmo o di trevertino; et in cambio di rena si piglia il marmo pesto e si staccia sottilmente ed impastasi con la calce, mettendo due terzi calce et un terzo marmo pesto, e se ne fa del più grosso e sottile, secondo che si vuol lavorare grossamente o sottilmente. E degli stucchi ci basti or questo, perché il restante si dirà poi, dove si tratterà del mettergli in opra tra le cose della scultura. Alla quale prima che noi passiamo, diremo brevemente delle fontane che si fanno per le mura, e degli ornamenti varii di quelle.

Cap. V. Come di tartari e di colature d'acqua si conducono le fontane rustiche, e come nello stucco si murano le telline e le colature delle pietre cotte.

Sì come le fontane che nei loro palazzi, giardini et altri luoghi fecero gl'antichi, furono di diverse maniere, - cioè alcune isolate con tazze e vasi d'altre sorti, altre allato alle mura con nicchie, maschere o figure et ornamenti di cose maritime, altre poi per uso delle stufe più semplici e pulite, et altre, finalmente, simili alle salvatiche fonti che naturalmente surgono nei boschi - così parimente sono di diverse sorti quelle che hanno fatto e 'l fanno tuttavia i moderni; i quali, variandole sempre, hanno alle invenzioni degli antichi aggiunto componimenti di opera toscana, coperti di colature d'acqua pietrificate, che pendono a guisa di radicioni, fatti col tempo d'alcune congelazioni d'esse acque ne' luoghi dove elle son crude e grosse: come non solo a Tigoli, dove il fiume Teverone petrifica i rami degl'alberi et ogni altra cosa che se gli pone inanzi, facendone di queste gromme e tartari; ma ancora al lago di Piè di Lupo che le fa grandissime, et in Toscana al fiume d'Elsa, l'acqua del quale le fa in modo chiare, che paiono di marmi, di vitrioli e d'allumi. Ma bellissime e bizzarre sopra tutte l'altre si sono trovate dietro Monte Morello pure in Toscana, vicino otto miglia a Fiorenza. E di questa sorte ha fatti fare il duca Cosimo nel suo giardino dell'Olmo a Castello gli ornamenti rustici delle fontane fatte dal Tribolo scultore. Queste, levate donde la natura l'ha prodotte, si vanno accomodando nell'opera che altri vuol fare con spranghe di ferro, con rami impiombati, o in altra maniera, e s'innestano nelle pietre in modo che sospesi pendino; e, murando quelli addosso all'opera toscana, si fa che essa in qualche parte si veggia. Accommodando poi fra essi canne di piombo ascose, e spartiti per quelle i buchi, versano zampilli d'acque, quando si volta una chiave ch'è nel principio di detta cannella; e così si fanno condotti d'acque e diversi zampilli, dove poi l'acqua piove per le colature di questi tartari, e colando fa dolcezza nell'udire e bellezza nel vedere.

Se ne fa ancora d'un'altra specie di grotte, più rusticamente composte, contrafacendo le fonti alla salvatica in questa maniera. Pigliansi sassi spugnosi, e, commessi che sono insieme, si fa nascervi erbe sopra, le quali, con ordine che paia disordine e salvatico, si rendon molto naturali e più vere. Altri ne fanno di stucco più pulite e lisce, nelle quali mescolano l'uno e l'altro, e mentre quello è fresco mettono fra esso per fregi e spartimenti gongole, telline, chiocciole maritime, tartarughe, e nicchi grandi e piccoli, chi a ritto e chi a rovescio. E di questi fanno vasi e festoni, in che cotali telline figurano le foglie, et altre chiocciole, e i nicchi fanno le frutte; e scorze di testuggini d'acqua vi si pone, come si vede alla vigna che fece fare papa Clemente Settimo quando era cardinale, a piè di Monte Mario per consiglio di Giovanni da Udine.

Così si fa ancora in diversi colori un musaico rustico e molto bello, pigliando piccoli pezzi di colature di mattoni, disfatti e troppo cotti nella fornace, et altri pezzi di colature di vetri, che vengono fatte quando pel troppo fuoco scoppiano le padelle de' vetri nella fornace; si fa, dico, murando i detti pezzi, fermandogli nello stucco, come s'è detto di sopra, e facendo nascere tra essi coralli et altri ceppi maritimi, i quali recano in sé grazia e bellezza grandissima. Così si fanno animali e figure, che si cuoprono di smalti in varii pezzi posti alla grossa e con le nicchie su dette; le quali sono bizzarra cosa a vederle. E di questa specie n'è a Roma fatte moderne di molte fontane, le quali hanno desto l'animo d'in-finiti a essere per tal diletto vaghi di sì fatto lavoro.

È oggi similmente in uso un'altra sorte d'ornamento per le fontane, rustico affatto, il quale si fa in questo modo: fatte di sotto l'ossature delle figure o d'altro che si voglia fare e coperte di calcina o di stucco, si ricuopre il difuori a guisa di musaico di pietre di marmo bianco o d'altro colore, secondo quello che si ha da fare, overo di certe piccole pietre di ghiaia di diversi colori; e queste, quando sono con diligenza lavorate, hanno lunga vita. E lo stucco con che si murano e lavorano queste cose è il medesimo che inanzi abbiamo ragionato, e per la presa fatta con essa rimangono murate. A queste tali fontane di frombole, cioè sassi di fiumi tondi e stiacciati, si fanno pavimenti murando quelli per coltello e a onde a uso d'acque, che fanno benissimo. Altri fanno alle più gentili pavimenti di terra cotta a mattoncini con varii spartimenti et invetriati a fuoco, come in vasi di terra, dipinti di varii colori e con fregi e fogliami dipinti; ma questa sorte di pavimenti più conviene alle stufe et a' bagni che alle fonti.

Cap. VI. Del modo di fare i pavimenti di commesso.

Tutte le cose che trovar si poterono, gli antichi, ancora che con difficultà, in ogni genere o le ritrovarono o di ritrovarle cercarono: quelle, dico, ch'alla vista degli uomini vaghezza e varietà indurre potessero. Trovarono, dunque, fra l'altre cose belle i pavimenti di pietre ispartiti con varii misti di porfidi, serpentini, e graniti, con tondi e quadri, et altri spartimenti, onde s'imaginarono che fare si potessero fregi, fogliami et altri andari di disegni e figure. Onde, per poter meglio ricevere l'opera tal lavoro, tritavano i marmi, acciò che essendo quelli minori, potessero per lo campo e piano con essi rigirare in tondo e diritto et a torto, secondo che veniva lor meglio; e dal commettere insieme questi pezzi lo dimandarono musaico, e nei pavimenti di molte loro fabriche se ne servirono; come ancora veggiamo all'Antoniano di Roma et in altri luoghi, dove si vede il musaico lavorato con quadretti di marmo piccioli, conducendo fogliami, maschere et altre bizzarrie; e con quadri di marmo bianchi et altri quadretti di marmo nero fecero il campo di quegli. Questi, dunque, si lavoravano in tal modo: facevasi sotto un piano di stucco fresco di calce e di marmo, tanto grosso che bastasse per tenere in sé i pezzi commessi fermamente, sin che, fatto presa, si potessero spianar di sopra: per che facevano nel seccarsi una presa mirabile et uno smalto maraviglioso, che né l'uso del caminare né l'acqua non gl'offendeva. Onde, essendo questa opera in grandissima considerazione venuta, gli ingegni loro si misero a speculare più alto, essendo facile a una invenzione trovata, aggiugner sempre qualcosa di bontà. Per che fecero poi i musaici di marmi più fini, e per bagni e per stufe i pavimenti di quelli, e con più sottile magistero e diligenza quei lavoravano sottilissimamente, facendosi pesci variati et imitando la pittura con varie sorti di colori, atti a ciò, con più specie di marmi, mescolando anco fra quegli alcuni pezzi triti di quadretti di musaico di ossa di pesce, ch'hanno la pelle lustra. E così vivamente gli facevano, che l'acqua postavi di sopra velandogli, pur che chiara fosse, gli faceva parere vivissimi nei pavimenti; come se ne vede in Parione in Roma in casa di messer Egidio e Fabio Sasso. Per che parendo loro questa una pittura da poter reggere all'acque et ai venti et al sole per l'eternità sua, e pensando che tale opra molto meglio di lontano che d'appresso ritornerebbe, perché così non si scorgerebbono i pezzi che il musaico d'appresso fa vedere, ordinarono per ornar le volte e le pareti dei muri, dove tai cose si avevano a veder di lontano. E perché lustrassero e dagli umidi et ac-que si difendessero, pensarono tal cosa doversi fare di vetri, e così gli misero in opra; e facendo ciò bellissimo vedere, ne ornarono i tempii loro et altri luoghi, come veggiamo oggi ancora a Roma il tempio di Bacco et altri. Talché da quegli di marmo derivano questi, che si chiamano oggi musaico di vetri, e da quel di vetri s'è passato al musaico di gusci d'uovo, e da questi al musaico del far le figure e le storie di chiaroscuro, pur di commessi, che paiono dipinte; come tratteremo, al suo luogo, nella pittura.

Cap. VII. Come si ha a conoscere uno edificio proporzionato bene, e che parti generalmente se li convengono.

Ma perché il ragionare delle cose particulari mi farebbe deviar troppo dal mio proposito, lasciata questa minuta considerazione agli scrittori dell'architettura, dirò solamente in universale come si conoscano le buone fabriche e quello che si convenga alla forma loro per essere insieme et utili e belle. Quando s'arriva, dunque, a uno edificio, chi volesse vedere s'egli è stato ordinato da uno architettore eccellente e quanta maestria egli ha avuto, e sapere s'egli ha saputo accomodarsi al sito e alla volontà di chi l'ha fatto fabricare, egli ha a considerare tutte queste parti. In prima, se chi lo ha levato dal fondamento ha pensato se quel luogo era disposto e capace a ricevere quella qualità e quantità di ordinazione, così nello spartimento delle stanze come negli ornamenti che per le mura comporta quel sito, o stretto o largo, o alto o basso; e se è stato spartito con grazia e conveniente misura, dispensando e dando la qualità e quantità di colonne, finestre, porte e riscontri delle facce fuori e dentro nelle altezze o grossezze de' muri, e in tutto quello che c'intervenga a luogo per luogo. È di necessità che si distribuischino che lo edificio le stanze, ch'abbino le lor corrispondenze di porte, finestre, camini, scale segrete, anticamere, destri, scrittoi, senza che vi si vegga errori: come saria una sala grande, un portico picciolo e le stanze minori; le quali per esser membra dell'edificio, è di necessità ch'elle siano, come i corpi umani, egualmente ordinate e distribuite secondo le qualità e varietà delle fabriche: come tempii tondi, [in] otto facce, in sei facce, in croce, e quadri, e gli ordini varii secondo chi et i gradi in che si trova chi le fa fabricare. Perciò che quando son disegnati da mano che abbia giudicio, con bella maniera mostrano l'eccellenza dell'artefice e l'animo dell'auttor del-la fabrica.

Perciò figureremo, per meglio esser intesi, un palazzo qui di sotto, e questo ne darà lume agli altri edifici, per modo di poter conoscere, quando si vede, se è ben formato o no. In prima, chi considererà la facciata dinanzi, lo vedrà levato da terra o in su ordine di scalee o di muricciuoli, tanto che quello sfogo lo faccia uscir di terra con grandezza, e serva che le cucine o cantine sotto terra siano più vive di lumi e più alte di sfogo; il che anco molto difende l'edificio da' terremuoti e altri casi di fortuna. Bisogna poi che rappresenti il corpo dell'uomo nel tutto e nelle parti similmente, e che per avere egli a temere i venti, l'acque e l'altre cose della natura, egli sia fognato con ismaltitoi che tutti rispondino a un centro che porti via tutte insieme le bruttezze et i puzzi che gli possano generare infermità. Per l'aspetto suo primo, la facciata vuole avere decoro e maestà et essere compartita come la faccia dell'uomo: la porta da basso et in mezzo, così come nella testa ha l'uomo la bocca, donde nel corpo passa ogni sorte di alimento; le finestre per gli occhi, una di qua e l'altra di là, servando sempre parità, che non si faccia se non tanto di qua quanto di là negli ornamenti o d'archi, o colonne, o pilastri, o nicchie, o finestre inginocchiate, o vero altra sorte d'ornamento, con le misure et ordini che già s'è ragionato, o dorici, o ionici, o corinti, o toscani. Sia il suo cornicione che regge il tetto fatto con proporzione della facciata, secondo ch'egli è grande, e che l'acqua non bagni la facciata e chi sta nella strada a sedere. Sia di sporto secondo la proporzione dell'altezza e della larghezza di quella facciata.

Entrando dentro, nel primo ricetto sia magnifico, e unitamente corrisponda all'appiccatura della gola ove si passa, e sia svelto e largo, acciò che le strette o de' cavalli o d'altre calche che spesso v'intervengono, non faccino danno a lor medesimi nell'entrata o di feste o d'altre allegrezze. Il cortile, figurato per il corpo, sia quadro et uguale, o vero un quadro e mezzo, come tutte le parti del corpo, e sia ordinato di porte e di parità di stanze dentro con belli ornamenti. Vogliono le scale publiche esser commode e dolci al salire, di larghezza spaziose e d'altezza sfogate, quanto però comporta la proporzione de' luoghi. Vogliono oltre acciò, essere ornate e copiose di lumi, et almeno sopra ogni pianerottolo, dove si volta, avere finestre o altri lumi; et insomma vogliono le scale in ogni sua parte avere del magnifico, attesoché molti veggiono le scale e non il rimanente della casa. E si può dire che elle sieno le braccia e le gambe di questo corpo; onde, sì come le braccia stanno dagli lati dell'uomo, così deono queste stare dalle bande dell'edificio. Né lascerò di dire che l'altezza degli scaglioni vuole essere un quinto almeno, e ciascuno scaglione largo due terzi, cioè come si è detto, nelle scale degli edifici publici, e negli altri a proporzione; perché quando sono ripide non si possono salire né da' putti né da' vecchi, e rompono le gambe. E questo membro è più difficile a porsi nelle fabriche, e per essere il più frequentato che sia e più comune, avviene spesso, che per salvar le stanze le guastiamo. E bisogna che le sale con le stanze di sotto faccino un appartamento commune per la state, e diversamente le camere per più persone; e sopra siano salotti, sale e diversi appartamenti di stanze che rispondino sempre nella maggiore; e così faccino le cucine e l'altre stanze; ché, quando non ci fosse quest'ordine et avesse il componimento spezzato, et una cosa alta e l'altra bassa, e chi grande e chi picciola, rappresenterebbe uomini zoppi, travolti, biechi e storpiati: le quali opre fanno che si riceve biasimo e non lode alcuna. Debbono i componimenti dove s'ornano le facce o fuori o dentro, aver corrispondenza nel seguitar gli ordini loro nelle colonne, e che i fusi di quelle non siano lunghi o sottili, o grossi o corti, servando sempre il decoro degli ordini suoi. Né si debbe a una colonna sottile metter capitel grosso né base simili, ma secondo il corpo le membra, le quali abbino leggiadra e bella maniera e disegno. E queste cose son più conosciute da un occhio buono, il quale, se ha giudicio, si può tenere il vero compasso e l'istessa misura, perché da quello saranno lodate le cose e biasimate.

E tanto basti aver detto generalmente dell'architettura, perché il parlarne in altra maniera non è cosa da questo luogo.

DELLA SCULTURA

Cap. VIII. Che cosa sia la scultura, e come siano fatte le sculture buone, e che parti elle debbino avere per essere tenute perfette.

La scultura è una arte che levando il superfluo dalla materia suggetta, la riduce a quella forma di corpo che nella idea dello artefice è disegnata. Et è da considerare che tutte le figure, di qualunque sorte si siano, o intagliate ne' marmi

o gittate di bronzi o fatte di stucco o di legno, avendo ad essere di tondo rilievo, e che girando intorno si abbino a vede-re per ogni verso, è di necessità che a volerle chiamar perfette ell'abbino di molte parti.

La prima è che, quando una simil figura ci si presenta nel primo aspetto alla vista, ella rappresenti e renda somiglianza a quella cosa per la quale ella è fatta, o fiera o umile o bizzarra o allegra o malenconica, secondo chi si figura; e che ella abbia corrispondenza di parità di membra: cioè non abbia le gambe longhe, il capo grosso, le braccia corte e disformi; ma sia ben misurata, et ugualmente a parte a parte concordata dal capo a' piedi. E similmente, se ha la faccia di vecchio, abbia le braccia, il corpo, le gambe, le mani et i piedi di vecchio, unitamente ossuta per tutto, musculosa, nervuta, e le vene poste a' luoghi loro. E se arà la faccia di giovane, debbe parimente esser ritonda, morbida e dolce nel-l'aria, e per tutto unitamente concordata. Se ella non arà ad essere ignuda, facciasi che i panni ch'ella arà ad aver addosso, non siano tanto triti ch'abbino del secco, né tanto grossi che paino sassi; ma siano con il loro andar di pieghe girati talmente, che scuoprino lo ignudo di sotto, e con arte e grazia talora lo mostrino e talora lo ascondino, senza alcuna crudezza che offenda la figura. Siano i suoi capegli e la barba lavorati con una certa morbidezza, svellati e ricciuti, che mostrino di essere sfilati, avendoli data quella maggior piumosità e grazia che può lo scarpello: ancora che gli scultori in questa parte non possino così bene contraffare la natura, facendo essi le ciocche de' capelli sode e ricciute, più di maniera che di immitazione naturale. Et ancora che le figure siano vestite, è necessario di fare i piedi e le mani che siano condotte di bellezza e di bontà come l'altre parti. E per essere tutta la figura tonda, è forza che in faccia, in profilo e di dietro ella sia di proporzione uguale, avendo ella a ogni girata e veduta a rappresentarsi ben disposta per tutto. È necessario adunque che ella abbia corrispondenza, e che ugualmente ci sia per tutto attitudine, disegno, unione, grazia e diligenza; le quali cose, tutte insieme, dimostrino l'ingegno et il valore dell'artefice.

Debbono le figure così di rilievo come dipinte, esser condotte più con il giudicio che con la mano, avendo a stare in altezza dove sia una gran distanza; perché la diligenza dell'ultimo finimento non si vede da lontano, ma si conosce bene la bella forma delle braccia e delle gambe, et il buon giudicio nelle falde de' panni con poche pieghe: perché nella semplicità del poco si mostra l'acutezza dell'ingegno. E per questo le figure di marmo o di bronzo, che vanno un poco alte, vogliono esser traforate gagliarde acciò che il marmo, che è bianco, et il bronzo, che ha del nero, piglino all'aria della oscurità, e per quella apparisca da lontano il lavoro esser finito, e d'appresso si vegga lasciato in bozze. La quale avvertenza ebbero grandemente gli antichi, come nelle lor figure tonde e di mezzo rilievo che negli archi e nelle colonne veggiamo di Roma, le quali mostrano ancora quel gran giudicio che egli ebbero; et infra i moderni si vede essere stato osservato il medesimo grandemente nelle sue opere da Donatello. Debbeno oltra di questo considerare, che quando le statue vanno in un luogo alto, e che a basso non sia molta distanza da potersi discostare a giudicarle da lontano, ma che s'abbia quasi a star loro sotto, che così fatte figure si debbon fare di una testa o due più d'altezza. E questo si fa, perché quelle figure che son poste in alto si perdono nello scorto della veduta stando di sotto e guardando allo in su; onde, ciò che si dà di accrescimento viene a consumarsi nella grossezza dello scorto, e tornano poi di proporzione, nel guardarle, giuste e non nane, ma con bonissima grazia. E quando non piacesse far questo, si potrà mantenere le membra della figura sottilette e gentili, che questo ancora torna quasi il medesimo.

Costumasi per molti artefici fare la figura di nove teste, la quale vien partita in otto teste tutta, eccetto la gola, il col-lo e l'altezza del piede, che con queste torna nove; perché due sono gli stinchi, due dalle ginocchia a membri genitali, e tre il torso fino alla fontanella della gola, et un'altra dal mento all'ultimo della fronte, et una ne fanno la gola e quella parte ch'è dal dosso del piede alla pianta: che sono nove. Le braccia vengono appiccate alle spalle, e dalla fontanella all'appiccatura da ogni banda è una testa, et esse braccia sino a la appiccatura delle mani sono tre teste, et allargandosi l'uomo con le braccia, apre appunto tanto quanto egli è alto. Ma non si debbe usare altra miglior misura che il giudicio dello occhio, il quale sebbene una cosa sarà benissimo misurata, et egli ne rimanghi offeso, non resterà per questo di biasimarla. Però diciamo che sebbene la misura è una retta moderazione da ringrandire le figure talmente, che le altezze e le larghezze, servato l'ordine, faccino l'opera proporzionata e graziosa, l'occhio, nondimeno, ha poi con il giudicio a levare et ad aggiugnere, secondo che vedrà la disgrazia dell'opera, talmente che e' le dia giustamente proporzione, grazia, disegno e perfezzione, acciò che ella sia in sé tutta lodata da ogni ottimo giudicio. E quella statua o figura che avrà queste parti, sarà perfetta di bontà, di bellezza, di disegno e di grazia. E tali figure chiameremo tonde, purché si possino vedere tutte le parti finite, come si vede nell'uomo girandolo attorno, e similmente poi l'altre che da queste dipendono. Ma e' mi pare oramai tempo da venire alle cose più particulari.

Cap. IX. Del fare i modelli di cera e di terra, e come si vestino, e come a proporzione si ringrandischino poi nel marmo; come si subbino e si gradinino e pulischino e impomicino e si lustrino e si rendino finiti.

Sogliono gli scultori, quando vogliono lavorare una figura di marmo, fare per quella un modello, che così si chiama, cioè uno esemplo, che è una figura di grandezza di mezzo braccio o meno o più, secondo che gli torna comodo, o di terra o di cera o di stucco, perché e' possin mostrar in quella l'attitudine e la proporzione che ha da essere nella figura che e' voglion fare, cercando accomodarsi alla larghezza et all'altezza del sasso che hanno fatto cavare per farvela dentro.

Ma per mostrarvi come la cera si lavora, diremo del lavorar la cera, e non la terra. Questa per renderla più morbida, vi si mette dentro un poco di sevo e di trementina e di pece nera, delle quali cose il sevo la fa più arrendevole, e la trementina tegnente in sé, e la pece le dà il colore nero e le fa una certa sodezza, da poi ch'è lavorata, nello stare fatta, che ella diventa dura. E chi volesse anco farla d'altro colore, può agevolmente, perché mettendovi dentro terra rossa, o vero cinabrio o minio, la farà giuggiolina o di somigliante colore, se verderame, verde, et il simile si dice degli altri colori. Ma è bene da avvertire che i detti colori vogliono esser fatti in polvere e stiacciati, e così fatti essere poi mescolati con la cera, liquefatta che sia. Fassene ancora per le cose piccole e per fare medaglie, ritratti e storiette, et altre cose di basso rilievo, della bianca. E questa si fa mescolando con la cera bianca biacca in polvere, come si è detto di sopra. Non tacerò ancora che i moderni artefici hanno trovato il modo di fare nella cera le mestiche di tutte le sorti colori; onde nel fare ritratti di naturale di mezzo rilievo, fanno le carnagioni, i capegli, i panni e tutte l'altre cose in modo simili al vero, che a cotali figure non manca, in un certo modo, se non lo spirito e le parole.

Ma per tornare al modo di fare la cera, acconcia questa mistura e insieme fonduta, fredda ch'ella è, se ne fa i pastelli i quali, nel maneggiarli, dalla caldezza delle mani si fanno come pasta, e con essa si crea una figura a sedere, ritta, o come si vuole, la quale abbia sotto un'armadura, per reggerla in se stessa, o di legni, o di fili di ferro, secondo la volontà dell'artefice; et ancor si può far con essa e senza, come gli torna bene. Et a poco a poco, col giudicio e le mani lavorando, crescendo la materia, con i stecchi d'osso, di ferro o di legno si spinge in dentro la cera, e con mettere dell'altra sopra si aggiugne e raffina finché con le dita si dà a questo modello l'ultimo pulimento. E finito ciò, volendo fare di quegli che siano di terra, si lavora a similitudine della cera, ma senza armadura di sotto, o di legno o di ferro, perché li farebbe fendere e crepare; e mentre che quella si lavora, perché non fenda, con un panno bagnato si tien coperta fino che resta fatta.

Finiti questi piccioli modelli o figure di cera o di terra, si ordina di fare un altro modello che abbia ad essere grande quanto quella stessa figura che si cerca di fare di marmo; nel che fare, perché la terra che si lavora umida, nel seccarsi, rientra, bisogna mentre che ella si lavora fare a bell'agio e rimetterne su di mano in mano, e nell'ultima fine mescolare con la terra farina cotta, che la mantiene morbida e lieva quella secchezza; e questa diligenza fa che il modello, non rientrando, rimane giusto e simile alla figura che s'ha da lavorare di marmo. E perché il modello di terra grande si abbia a reggere in sé, e la terra non abbia a fendersi, bisogna pigliare della cimatura o borra che si chiami, o pelo, e nella terra mescolare quella; la quale la rende in sé tegnente e non la lascia fendere. Armasi di legni sotto e di stoppa stretta, o fieno, con lo spago, e si fa l'ossa della figura e se le fa fare quella attitudine che bisogna, secondo il modello picciolo, diritto o a sedere che sia, e cominciando a coprirla di terra, si conduce ignuda lavorandola insino al fine. La qual condotta, se se le vuol poi fare panni addosso che siano sottili, si piglia pannolino che sia sottile, e se grosso, grosso, e si bagna; e bagnato, con la terra s'interra, non liquidamente, ma di un loto che sia alquanto sodetto, et attorno alla figura si va acconciandolo che faccia quelle pieghe et ammaccature che l'animo gli porge; di che secco verrà a indurarsi e manterrà di continuo le pieghe. In questo modo si conducono a fine i modelli e di cera e di terra.

Volendo ringrandirlo a proporzione nel marmo, bisogna che nella stessa pietra onde s'ha da cavare la figura, sia fatta fare una squadra, che un dritto vada in piano a' piè della figura, e l'altro vada in alto e tenga sempre il fermo del piano, e così il dritto di sopra; e similmente un'altra squadra o di legno o d'altra cosa sia al modello, per via della quale si piglino le misure da quella del modello, quanto sportano le gambe fora e così le braccia; e si va spignendo la figura in dentro con queste misure, riportandole sul marmo dal modello; di maniera che, misurando il marmo et il modello a proporzione, viene a levare della pietra con li scarpelli; e la figura a poco a poco misurata viene a uscire di quel sasso, nella maniera che si caverebbe d'una pila d'acqua, pari e diritta, una figura di cera: ché prima verrebbe il corpo e la testa e [le] ginocchia, et a poco a poco, scoprendosi et in su tirandola, si vedrebbe poi la ritondità di quella fin passato il mezzo, e in ultimo la ritondità dell'altra parte. Perché quelli che hanno fretta a lavorare e che bucano il sasso da principio e levano la pietra dinanzi e di dietro risolutamente, non hanno poi luogo dove ritirarsi, bisognandoli; e di qui nascono molti errori che sono nelle statue; ché per la voglia ch'ha l'artefice del vedere le figure tonde fuor del sasso a un tratto, spesso se gli scuopre un errore che non può rimediarvi se non vi si mettono pezzi commessi, come abbiamo visto costumare a molti artefici moderni; il quale rattoppamento è da ciabattini e non da uomini eccellenti o maestri rari, et è cosa vilissima e brutta e di grandissimo biasimo.

Sogliono gli scultori nel fare le statue di marmo, nel principio loro abozzare le figure con le subbie - che sono una specie di ferri da loro così nominati, i quali sono appuntati e grossi -, e andare levando e subbiando grossamente il loro sasso; e poi con altri ferri, detti calcagnuoli, ch'hanno una tacca in mezzo e sono corti, andare quella ritondando per fino ch'eglino venghino a un ferro piano più sottile del calcagnuolo, che ha due tacche, et è chiamato gradina: col quale van-no per tutto con gentilezza gradinando la figura colla proporzione de' muscoli e delle pieghe; e la tratteggiano di maniera per la virtù delle tacche o denti predetti, che la pietra mostra grazia mirabile. Questo fatto, si va levando le gradinature con un ferro pulito; e per dare perfezione alla figura, volendole aggiugnere dolcezza, morbidezza e fine, si va con lime torte levando le gradine. Il simile si fa con altre lime sottili e scuffine diritte, limando che resti piano, e da poi con punte di pomice si va impomiciando tutta la figura, dandole quella carnosità che si vede nell'opere maravigliose della scultura. Adoperasi ancora il gesso di Tripoli, acciò che l'abbia lustro e pulimento; similmente con paglia di grano facendo struffoli, si stropiccia, talché finite e lustrate si rendono agl'occhi nostri bellissime.

Cap. X. De' bassi e de' mezzi rilievi, la difficultà del fargli, et in che consista il condurgli a perfezzione.

Quelle figure che gli scultori chiamano mezzi rilievi furono trovate già dagli antichi per fare istorie da adornare le mura piane, e se ne servirono ne' teatri e negl'archi per le vittorie; perché volendole fare tutte tonde, non le potevano situare, se non facevano prima una stanza o vero una piazza che fusse piana. Il che volendo sfuggire, trovarono una specie che mezzo rilievo nominarono, et è da noi così chiamato ancora: il quale, a similitudine d'una pittura, dimostra prima l'intero delle figure principali, o mezze tonde, o più come sono; e le seconde occupate dalle prime, e le terze dalle seconde, in quella stessa maniera che appariscono le persone vive quando elle sono ragunate e ristrette insieme. In que-sta specie di mezzo rilievo, per la diminuzione dell'occhio, si fanno l'ultime figure di quello basse, come alcune teste bassissime, e così i casamenti et i paesi, che sono l'ultima cosa.

Questa specie di mezzi rilievi da nessuno è mai stata meglio né con più osservanza fatta, né più proporzio-na[ta]mente diminuita o allontanata le sue figure l'una dall'altra, che dagli antichi. Come quelli che, imitatori del vero et ingegnosi, non hanno mai fatto le figure in tali storie che abbino piano, che scorti o fugga, ma l'hanno fatte co' proprii piedi che posino su la cornice di sotto: dove alcuni de' nostri moderni, animosi più del dovere, hanno fatto nelle storie loro di mezzo rilievo posare le prime figure nel piano che è di basso rilievo e sfugge, e le figure di mezzo sul medesimo, in modo che stando così non posano i piedi con quella sodezza che naturalmente doverebbono; laonde spesse volte si vede le punte de' piè di quelle figure che voltano il di dietro, toccarsi gli stinchi delle gambe, per lo scorto che è violento. E di tali cose se ne vede in molte opere moderne, et ancora nelle porte di S. Giovanni et in più luoghi di quella età. E per questo i mezzi rilievi che hanno questa proprietà sono falsi: perché, se la metà della figura si cava fuor del sasso, avendone a fare altre dopo quelle prime, vogliono avere regola dello sfuggire e diminuire, e co' piedi in piano, che sia più innanzi il piano che i piedi, come fa l'occhio e la regola nelle cose dipinte; e conviene che elle si abbassino di mano in mano a proporzione, tanto che venghino a rilievo stiacciato e basso; e per questa unione che in ciò bisogna, è difficile dar loro perfezzione e condurgli; atteso che nel rilievo ci vanno scorti di piedi e di teste, ch'è necessario avere grandissimo disegno a volere in ciò mostrare il valore dello artefice. E [a] tanta perfezzione si recano in questo grado le cose lavorate di terra e di cera, quanto quelle di bronzo e di marmo. Per che in tutte l'opere che aranno le parti ch'io dico, saranno i mezzi rilievi tenuti bellissimi e dagli artefici intendenti sommamente lodati.

La seconda specie, che bassi rilievi si chiamano, sono di manco rilievo assai ch'il mezzo, e si dimostrano almeno per la metà di quegli che noi chiamiamo mezzo rilievo; e in questi si può con ragione fare il piano, i casamenti, le prospettive, le scale, et i paesi: come veggiamo ne' pergami di bronzo in S. Lorenzo di Firenze et in tutti i bassi rilievi di Donato, il quale in questa professione lavorò veramente cose divine con grandissima osservazione. E questi si rendono a l'occhio facili e senza errori o barbarismi, perché non sportano tanto in fuori che possino dare causa di errori o di biasimo.

La terza specie si chiamano bassi e stiacciati rilievi; i quali non hanno altro in sé, che 'l disegno della figura con ammaccato e stiacciato rilievo. Sono difficili assai, atteso che e' ci bisogna disegno grande e invenzione, avvenga che questi sono faticosi a dargli grazia per amor de' contorni; et in questo genere ancora Donato lavorò meglio d'ogni artefice con arte, disegno et invenzione. Di questa sorte se n'è visto ne' vasi antichi aretini assai figure, maschere, et altre storie antiche, e similmente ne' cammei antichi, e nei conii da stampare le cose di bronzo per le medaglie, e similmente nelle monete.

E questo fecero, perché, se fossero state troppo di rilievo, non arebbono potuto coniarle, ch'al colpo del martello non sarebbono venute l'impronte, dovendosi imprimere i conii nella materia gittata, la quale, quando è bassa, dura poca fati-ca a riempire i cavi del conio. Di questa arte vediamo oggi molti artefici moderni che l'hanno fatta divinissimamente, e più che essi antichi, come si dirà nelle vite loro pienamente. Imperò chi conoscerà ne' mezzi rilievi la perfezzione delle figure fatte diminuire con osservazione, e ne' bassi la bontà del disegno per le prospettive et altre invenzioni, e nelli stiacciati la nettezza, la pulitezza, e la bella forma delle figure che vi si fanno, gli farà eccellentemente per queste parti tenere o lodevoli o biasimevoli, et insegnerà conoscerli altrui.

Cap. XI. Come si fanno i modelli per fare di bronzo le figure grandi e picciole, e come le forme per buttarle; come si armino di ferri e come si gettino di metallo, e di tre sorti bronzo; e come, gittate, si ceselino e si rinettino; e come, mancando pezzi che non fussero venuti, s'innestino e commettino nel medesimo bronzo.

Usano gl'artefici eccellenti quando vogliono gittare o [di] metallo o bronzo figure grandi, fare nel principio una statua di terra tanto grande, quanto quella che e' vogliono buttare di metallo, e la conducono di terra a quella perfezzione ch'è concessa dall'arte e dallo studio loro. Fatto questo che si chiama da loro modello e condotto a tutta la perfezione dell'arte e del saper loro, cominciano poi con gesso da fare presa a formare sopra questo modello, parte per parte, facendo addosso a quel modello i cavi d'i pezzi; e sopra ogni pezzo si fanno riscontri, che un pezzo con l'altro si commettano segnandoli o con numeri o con alfabeti o altri contrassegni, e che si possino cavare e reggere insieme. Così a parte per parte lo vanno formando et ungendo con olio fra gesso e gesso, dove le commettiture s'hanno a congiugnere; e così di pezzo in pezzo la figura si forma, e la testa, le braccia, il torso, e le gambe per fin all'ultima cosa, di maniera che il cavo di quella statua, cioè la forma incavata, viene improntata nel cavo con tutte le parti et ogni minima cosa che è nel modello. Fatto ciò, quelle forme di gesso si lasciano assodare e riposare; poi pigliano un palo di ferro che sia più lungo di tutta la figura che vogliono fare e che si ha a gettare, e sopra quello fanno un'anima di terra, la quale morbidamente impastando, vi mescolano sterco di cavallo e cimatura; la quale anima ha la medesima forma che la figura del modello, et a suolo a suolo si cuoce per cavare la umidità della terra: e questa serve poi alla figura; perché, gittando la statua, tutta questa anima, ch'è soda, vien vacua né si riempie di bronzo, che non si potrebbe muovere per lo peso. Così ingrossano tanto e con pari misure quest'anima, che scaldando e cocendo i suoli, come è detto, quella terra vien cotta bene, e così priva in tutto dell'umido, che gittandovi poi sopra il bronzo, non può schizzare o fare nocumento, come si è visto già molte volte con la morte de' maestri e con la rovina di tutta l'opera. Così vanno bilicando questa anima et assettando e contrapesando i pezzi, finché la riscontrino e riprovino, tanto ch'eglino vengono a fare, che si lasci appunto la grossezza del metallo o la sottilità di che vuoi che la statua sia.

Armano spesso questa anima per traverso con perni di rame e con ferri che si possino cavare e mettere, per tenerla con sicurtà e forza maggiore. Questa anima, quando è finita, nuovamente ancora si ricuoce con fuoco dolce, e cavatane interamente l'umidità, se pur ve ne fusse restata punto, si lascia poi riposare. E ritornando a' cavi del gesso, si formano quelli pezzo per pezzo con cera gialla, che sia stata in molle e sia incorporata con un poco di trementina e di sevo. Fondutala dunque al fuoco, la gettano a metà per metà ne' pezzi di cavo, di maniera che l'artefice fa venire la cera sottile secondo la volontà sua per il getto. E tagliati i pezzi secondo che sono i cavi addosso all'anima che già di terra s'è fatta, gli commettono et insieme gli riscontrano e innestano, e con alcuni brocchi di rame sottili fermano sopra l'anima cotta i pezzi della cera, confitti da detti brocchi, e così a pezzo a pezzo la figura innestano e riscontrono, e la rendono del tutto finita. Fatto ciò vanno levando tutta la cera dalle bave delle superfluità de' cavi, conducendola il più che si può a quella finita bontà e perfezione che si desidera che abbia il getto. Et avanti che e' proceda più innanzi, rizza la figura e considera diligentemente se la cera ha mancamento alcuno, e la va racconciando e riempiendo o rinalzando o abbassando dove mancasse.

Appresso, finita la cera e ferma la figura, mette l'artefice su due alari, o di legno o di pietra o di ferro, come un arrosto, al fuoco la sua figura, con commodità che ella si possa alzare e abbassare; e con cenere bagnata, appropriata a quel-l'uso, con un pennello tutta la figura va ricoprendo che la cera non si vegga, e per ogni cavo e pertugio la veste bene di questa materia. Dato la cenere, rimette i perni a traverso, che passano la cera e l'anima, secondo che gl'ha lasciati nella figura; perciò che questi hanno a reggere l'anima di dentro, e la cappa di fuori, che è la incrostatura del cavo fra l'anima e la cappa dove il bronzo si getta. Armato ciò, l'artefice comincia a tôrre della terra sottile con cimatura e sterco di ca-vallo, come dissi, battuta insieme, e con diligenza fa una incrostatura per tutto sottilissima, e quella lascia seccare; e così volta per volta si fa l'altra incrostatura con lasciare seccare di continuo, finché viene interrando et alzando alla grossezza di mezzo palmo il più. Fatto ciò, que' ferri che tengono l'anima di dentro, si cingono con altri ferri che tengono di fuori la cappa, ed a quelli si fermano; e l'un l'altro incatenati e serrati fanno reggimento l'uno all'altro: l'anima di dentro regge la cappa di fuori, e la cappa di fuori regge l'anima di dentro. Usasi fare certe cannelle fra l'anima e la cappa, le quali si dimandano venti, che sfiatano all'insù, e si mettono, verbigrazia, da un ginocchio a un braccio che alzi; perché questi danno la via al metallo di soccorrere quello che per qualche impedimento non venisse; e se ne fanno pochi et assai, secondo che è difficile il getto. Ciò fatto, si va dando il fuoco a tale cappa ugualmente per tutto, tal che ella venga unita et a poco a poco a riscaldarsi, rinforzando il fuoco sino a tanto che la forma si infuochi tutta, di maniera che la cera che è nel cavo di dentro venga a struggersi, tale che ella esca tutta per quella banda per la quale si debbe gittare il metallo, senza che ve ne rimanga dentro niente. Et a conoscere ciò, bisogna, quando i pezzi s'innestano su la figura, pesarli pezzo per pezzo; così poi, nel cavare la cera, ripesarla; e facendo il calo di quella, vede l'artefice se n'è rimasta fra l'anima e la cappa, e quanta n'è uscita. E sappi che qui consiste la maestria e la diligenza dell'artefice a cavare tal cera; dove si mostra la difficultà di fare i getti, che venghino begli e netti; atteso che, rimanendoci punto di cera, ruinarebbe tutto il getto, massimamente in quelle parti dove essa rimane.

Finito questo, l'artefice sotterra questa forma vicino alla fucina dove il bronzo si fonde, e puntella sì che il bronzo non la sforzi, e li fa le vie che possa buttarsi, et al sommo lascia una quantità di grossezza, che si possa poi segare il bronzo che avanza di questa materia; e questo si fa perché venga più netta. Ordina il metallo che vuole, e per ogni libra di cera ne mette dieci di metallo. Fassi la lega del metallo statuario di due terzi rame et un terzo ottone, secondo l'ordine italiano. Gli Egizi, da' quali quest'arte ebbe origine, mettevano nel bronzo i due terzi ottone e un terzo rame. Del metal-lo elletro, che è degl'altri più fine, si mette due parti rame e la terza argento; nelle campane per ogni cento di rame XX di stagno - et a l'artiglierie per ogni cento di rame dieci di stagno -, acciò che il suono di quelle sia più squillante et unito.

Restaci ora ad insegnare, che venendo la figura con mancamento, perché fosse il bronzo cotto o sottile o mancasse in qualche parte, il modo dell'innestarvi un pezzo. Et in questo caso lievi l'artefice tutto quanto il tristo che è in quel getto, e facciavi una buca quadra cavandola sotto squadra; di poi le aggiusti un pezzo di metallo attuato a quel pezzo, che venga in fuora quanto gli piace; e commesso appunto in quella buca quadra, col martello tanto lo percuota che lo saldi, e con lime e ferri faccia sì che lo pareggi e finisca in tutto.

Ora, volendo l'artefice gettare di metallo le figure picciole, quelle si fanno di cera o, avendone, di terra o d'altra materia, vi fa sopra il cavo di gesso come alle grandi, e tutto il cavo si empie di cera. Ma bisogna che il cavo sia bagnato, perché buttandovi detta cera, ella si rappiglia per la freddezza dell'acqua e del cavo. Di poi, sventolando e diguazzando il cavo, si vòta la cera che è in mezzo del cavo, di maniera che il getto resta vòto nel mezzo; il qual vòto o vano riempie l'artefice poi di terra e vi mette perni di ferro. Questa terra serve poi per anima, ma bisogna lasciarla seccar bene. Da poi fa la cappa come all'altre figure grandi, armandola e mettendovi le cannelle per i venti; la cuoce di poi, e ne cava la cera, e così il cavo si resta netto, sì che agevolmente si possono gittare. Il simile si fa de' bassi e de' mezzi rilievi e d'o-gni altra cosa di metallo.

Finiti questi getti, l'artefice di poi con ferri appropriati, cioè bulini, ciappole, strozzi, ceselli, puntelli, scarpelli, e lime lieva dove bisogna; e dove bisogna spigne all'indietro e rinetta le bave, e con altri ferri che radono raschia e pulisce il tutto con diligenza, et ultimamente con la pomice gli dà il pulimento. Questo bronzo piglia col tempo per se medesimo un colore che trae in nero, e non in rosso come quando si lavora. Alcuni con olio lo fanno venire nero, altri con l'a-ceto lo fanno verde, et altri con la vernice li danno il colore di nero, tale che ognuno lo conduce come più gli piace. Ma quello che veramente è cosa maravigliosa, è venuto a' tempi nostri questo modo di gettar le figure, così grandi come picciole, in tanta eccellenza, che molti maestri le fanno venire nel getto in modo pulite, che non si hanno a rinettare con ferri, e tanto sottili quanto è una costola di coltello. E, quello che è più, alcune terre e ceneri che a ciò s'adoperano, sono venute in tanta finezza, che si gettano d'argento e d'oro le ciocche della ruta, e ogni altra sottile erba o fiore agevolmente e tanto bene, che così belli riescono come il naturale. Nel che si vede questa arte essere in maggior eccellenza che non era al tempo degli antichi.

Cap. XII. De' conii d'acciaio per fare le medaglie di bronzo o d'altri metalli, e come elle si fanno di essi metalli, di pietre orientali e di cammei.

Volendo fare le medaglie di bronzo, d'argento o d'oro come già le fecero gli antichi, debbe l'artefice primieramente con punzoni di ferro intagliare di rilievo i punzoni nell'acciaio indolcito a fuoco, a pezzo per pezzo, come per esemplo la testa sola di rilievo ammaccato in un punzone solo d'acciaio, e così l'altre parti che si commettono a quella; fabbricati così d'acciaio tutti i punzoni che bisognano per la medaglia, si temprano col fuoco, et in sul conio dell'acciaio stemperato, che debbe servire per cavo e per madre della medaglia, si va improntando a colpi di martello e la testa e l'altre parti a' luoghi loro. E dopo l'avere improntato il tutto, si va diligentemente rinettando e ripulendo e dando fine e perfezione al predetto cavo, che ha poi a servire per madre. Hanno tuttavolta usato molti artefici d'incavare con le ruote le dette madri in quel modo che si lavorano d'incavo i cristalli, i diaspri, i calcidonii, le agate, gli ametisti, i sardonii, i lapislazuli, i crisoliti, le corniuole, i cammei, e l'altre pietre orientali; et il così fatto lavoro fa le madri più pulite, come ancora le pietre predette. Nel medesimo modo si fa il rovescio della medaglia; e con la madre della testa e con quella del rovescio si stampano medaglie di cera o di piombo, le quali si formano di poi con sottilissima polvere di terra atta a ciò; nelle quali forme, cavatane prima la cera o il piombo predetto, serrate dentro a le staffe, si getta quello stesso metallo che ti aggrada per la medaglia. Questi getti si rimettono nelle loro madri d'acciaio, e per forza di viti o di lieve et a colpi di martello si stringono talmente, che elle pigliano quella pelle dalla stampa che elle non hanno presa dal getto. Ma le monete e l'altre medaglie più basse si improntano senza viti, a colpi di martello con mano; e quelle pietre orientali che noi dicemmo di sopra, si intagliano di cavo con le ruote per forza di smeriglio, che con la ruota consuma ogni sorte di durezza di qualunque pietra si sia. E l'artefice va spesso improntando con cera quel cavo che e' lavora, et in questo modo va levando dove più giudica di bisogno, e dando fine alla opera. Ma i cammei si lavorano di rilievo, perché essendo questa pietra faldata, cioè bianca sopra e sotto nera, si va levando del bianco tanto, che o testa o figura resti di basso rilievo bianca nel campo nero. Et alcuna volta, per accomodarsi che tutta la testa o figura venga bianca in sul campo nero, si usa di tignere il campo, quando e' non è tanto scuro quanto bisogna. E di questa professione abbiamo viste opere mirabili e divinissime antiche e moderne.

Cap. XIII. Come di stucco si conducono i lavori bianchi, e del modo del fare la forma di sotto murata, e come si lavo-rano.

Solevano gl'antichi, nel volere fare volte o incrostature o porte o finestre o altri ornamenti di stucchi bianchi, fare l'ossa di sotto di muraglia, che sia o di mattoni cotti o vero di tufi, cioè sassi che siano dolci e si possino tagliare con facilità; e di questi murando, facevano l'ossa di sotto, dandoli o forma di cornice o di figure o di quello che fare volevano, tagliando de' mattoni o delle pietre, le quali hanno a essere murate con la calce. Poi con lo stucco che nel capitolo IIII dicemmo impastato di marmo pesto e di calce di trevertino, debbano fare sopra l'ossa predette la prima bozza di stucco ruvido, cioè grosso e granelloso, acciò vi si possi mettere sopra il più sottile, quando quel di sotto ha fatto la presa, e che sia fermo, ma non secco affatto. Perché lavorando la massa della materia in su quel che è umido, fa maggior presa, bagnando di continuo dove lo stucco si mette, acciò si renda più facile a lavorarlo. E volendo fare cornici o fogliami intagliati, bisogna avere forme di legno, intagliate nel cavo di quegli stessi intagli che tu vuoi fare.

E si piglia lo stucco che sia non sodo sodo, né tenero tenero, ma di una maniera tegnente; e si mette su l'opra alla quantità della cosa che si vuol formare, e vi si mette sopra la predetta forma intagliata, impolverata di polvere di marmo; e picchiandovi su con un martello, che il colpo sia uguale, resta lo stucco improntato: il quale si va rinettando e pulendo poi, acciò venga il lavoro diritto et uguale. Ma volendo che l'opera abbia maggior rilievo allo infuori, si conficcano, dove ell'ha da essere, ferramenti o chiodi o altre armadure simili che tenghino sospeso in aria lo stucco, che fa con esse presa grandissima: come negli edificii antichi si vede, ne' quali si truovano ancora gli stucchi et i ferri conservati sino al dì d'oggi. Quando vuole, adunque, l'artefice condurre in muro piano un'istoria di basso rilievo, conficca prima in quel muro i chiovi spessi, dove meno e dove più in fuori, secondo che hanno a stare le figure, e tra quegli serra pezzami piccoli di mattoni o di tufi, a cagione che le punte o capi di quegli tenghino il primo stucco grosso e bozzato; et appresso lo va finendo con pulitezza e con pacienza, che e' si rassodi. E mentre che egli indurisce, l'artefice lo va diligentemente lavorando e ripulendolo di continovo co' pennelli bagnati, di maniera che e' lo conduce a perfezzione come se e' fusse di cera o di terra. Con questa maniera medesima di chiovi e di ferramenti fatti a posta, e maggiori e minori secondo il bisogno, si adornano di stucchi le volte, gli spartimenti e le fabbriche vecchie, come si vede costumarsi oggi per tutta Italia da molti maestri che si son dati a questo esercizio. Né si debbe dubitare di lavoro così fatto come di cosa poco durabile, perché e' si conserva infinitamente, et indurisce tanto nello star fatto, che e' diventa col tempo come marmo.

Cap. XIIII. Come si conducono le figure di legno, e che legno sia buono a farle.

Chi vuole che le figure del legno si possino condurre a perfezzione, bisogna che e' ne faccia prima il modello di cera

o di terra, come dicemmo. Questa sorte di figure si è usata molto nella cristiana religione, atteso che infiniti maestri hanno fatto molti crocifissi e diverse altre cose. Ma invero non si dà mai al legno quella carnosità o morbidezza, che al metallo et al marmo et all'altre sculture che noi veggiamo, e di stucchi o di cera o di terra. Il migliore, nientedimanco, tra tutti i legni che si adoperano alla scultura, è il tiglio, perché egli ha i pori uguali per ogni lato, et ubbidisce più agevolmente alla lima et allo scarpello. Ma perché l'artefice, essendo grande la figura che e' vuole, non può fare il tutto d'un pezzo solo, bisogna ch'egli lo commetta di pezzi, e l'alzi et ingrossi secondo la forma che e' lo vuol fare. E per appiccarlo insieme in modo che e' tenga, non tolga mastrice di cacio, perché non terrebbe, ma colla di spicchi, con la qua-le, strutta, scaldati i predetti pezzi al fuoco, gli commetta e gli serri insieme, non con chiovi di ferro, ma del medesimo legno. Il che fatto, lo lavori et intagli secondo la forma del suo modello. E degli artefici di così fatto mestiero si sono vedute ancora opere di bossolo lodatissime et ornamenti di noce bellissimi, i quali quando sono di bel noce, che sia ne-ro, appariscono quasi di bronzo. Et ancora abbiamo veduto intagli in noccioli di frutte, come di cirege e meliache, di mano di tedeschi molto eccellenti, lavorati con una pacienza e sottigliezza grandissima. E sebbene e' non hanno gli stranieri quel perfetto disegno che nelle cose loro dimostrano gl'italiani, hanno nientedimeno operato et operano continovamente in guisa, che riducono le cose a tanta sottigliezza, che elle fanno stupire il mondo; come si può vedere in un'opera, o per meglio dire, in un miracolo di legno di mano di maestro Ianni franzese, il quale abitando nella città di Firenze, - la quale egli si aveva eletta per patria -, prese in modo nelle cose del disegno, del quale gli dilettò sempre, la maniera italiana, che con la pratica che aveva nel lavorar il legno fece di tiglio una figura d'un S. Rocco grande quanto il naturale, e condusse con sottilissimo intaglio tanto morbidi e traforati i panni che la vestono et in modo cartosi, e con bello andar l'ordine delle pieghe, che non si può veder cosa più maravigliosa. Similmente condusse la testa, la barba, le mani, e le gambe di quel Santo con tanta perfezzione, che ella ha meritato e meriterà sempre lode infinita da tutti gli uomini; e, che è più, acciò si veggia in tutte le sue parti l'eccellenza dell'artefice, è stata conservata insino a oggi questa figura nella Nunziata di Firenze sotto il pergamo, senza alcuna coperta di colori o di pitture, nello stesso color del legname, e con la sola pulitezza, e perfezzione che maestro Ianni le diede, bellissima sopra tutte l'altre che si veggia intagliata in legno.

E questo basti brevemente aver detto delle cose della scultura. Passiamo ora alla pittura.

DELLA PITTURA

Cap. XV. Che cosa sia disegno, e come si fanno e si conoscono le buone pitture, et a che; e dell'invenzione delle storie.

Perché il disegno, padre delle tre arti nostre, architettura, scultura e pittura, procedendo dall'intelletto, cava di molte cose un giudizio universale, simile a una forma o vero idea di tutte le cose della natura, la quale è singolarissima nelle sue misure, di qui è che non solo nei corpi umani e degl'animali, ma nelle piante ancora, e nelle fabriche e sculture e pitture cognosce la proporzione che ha il tutto con le parti, e che hanno le parti fra loro e col tutto insieme. E perché da questa cognizione nasce un certo concetto e giudizio che si forma nella mente quella tal cosa, che poi espressa con le mani si chiama disegno, si può conchiudere che esso disegno altro non sia che una apparente espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell'animo, e di quello che altri si è nella mente imaginato e fabricato nell'idea. E da questo per avventura nacque il proverbio de' Greci “Dell'ugna un leone”, quando quel valente uomo vedendo scolpita in un masso l'ugna sola d'un leone, comprese con l'intelletto da quella misura e forma le parti di tutto l'animale, e dopo il tutto insieme, come se l'avesse avuto presente e dinanzi agl'occhi.

Credono alcuni che il padre del disegno e dell'arti fusse il caso, e che l'uso e la sperienza, come balia e pedagogo, lo nutrissero con l'aiuto della cognizione e del discorso; ma io credo che con più verità si possa dire il caso aver più tosto dato occasione, che potersi chiamar padre del disegno. Ma sia come si voglia, questo disegno ha bisogno, quando cava l'invenzione d'una qualche cosa dal giudizio, che la mano sia, mediante lo studio et essercizio di molti anni, spedita et atta a disegnare et esprimere bene qualunche cosa ha la natura creato, con penna, con stile, con carbone, con matita o con altra cosa; perché quando l'intelletto manda fuori i concetti purgati e con giudizio, fanno quelle mani, che hanno molti anni essercitato il disegno, conoscere la perfezione et eccellenza dell'arti, et il sapere dell'artefice insieme. E perché alcuni scultori talvolta non hanno molta pratica nelle linee e ne' dintorni, onde non possono disegnare in carta, eglino in quel cambio con bella proporzione e misura facendo con terra o cera uomini, animali, et altre cose di rilievo, fanno il medesimo che fa colui il quale perfettamente disegna in carta o in su altri piani.

Hanno gli uomini di queste arti chiamato o vero distinto il disegno in varii modi, e secondo le qualità de' disegni che si fanno. Quelli che sono tocchi leggermente et apena accennati con la penna o altro si chiamano schizzi, come si dirà in altro luogo. Quegli, poi, che hanno le prime linee intorno intorno sono chiamati profili, dintorni, o lineamenti. E tutti questi o profili o altrimenti che vogliam chiamarli servono così all'architettura e scultura come alla pittura, ma all'archi-tettura massimamente; perciò che i disegni di quella non sono composti se non di linee, il che non è altro quanto all'ar-chitettore, ch'il principio e la fine di quell'arte, perché il restante, mediante i modelli di legname tratti dalle dette linee, non è altro che opera di scarpellini e muratori. Ma nella scultura serve il disegno di tutti i contorni, perché a veduta per veduta se ne serve lo scultore quando vuol disegnare quella parte che gli torna meglio, o che egli intende di fare per ogni verso o nella cera o nella terra o nel marmo o nel legno o altra materia.

Nella pittura servono i lineamenti in più modi, ma particolarmente a dintornare ogni figura, perché quando eglino sono ben disegnati e fatti giusti, et a proporzione, l'ombre, che poi vi si aggiungono, et i lumi sono cagione che i lineamenti della figura che si fa, ha grandissimo rilievo, e riesce di tutta bontà e perfezzione. E di qui nasce, che chiunque intende e maneggia bene queste linee sarà in ciascuna di queste arti, mediante la pratica et il giudizio, eccellentissimo. Chi dunque vuole bene imparare a esprimere disegnando i concetti dell'animo e qualsivoglia cosa, fa di bisogno, poi che averà alquanto assuefatta la mano, che per divenir più intelligente nell'arti si eserciti in ritrarre figure di rilievo o di marmo, o di sasso, o vero di quelle di gesso formate sul vivo, o vero sopra qualche bella statua antica, o sì veramente rilievi di modelli fatti di terra o nudi o con cenci interrati addosso, che servono per panni e vestimenti; perciò che tutte queste cose essendo immobili e senza sentimento, fanno grande agevolezza stando ferme a colui che disegna, il che non avviene nelle cose vive, ché si muovono. Quando poi averà in disegnando simili cose fatto buona pratica et assicurata la mano, cominci a ritrarre cose naturali, et in esse faccia con ogni possibile opera e diligenza una buona e sicura pratica; perciò che le cose che vengono dal naturale sono veramente quelle che fanno onore a chi si è in quelle affaticato, avendo in sé, oltre a una certa grazia e vivezza, di quel semplice, facile, e dolce che è proprio della natura, e che dalle cose sue s'impara perfettamente, e non dalle cose dell'arte abbastanza già mai. E tengasi per fermo, che la pratica che si fa con lo studio di molti anni in disegnando, come si è detto di sopra, è il vero lume del disegno, e quello che fa gli uomini eccellentissimi. Ora avendo di ciò ragionato a bastanza, seguita che noi veggiamo che cosa sia la pittura.

Ell'è dunque un piano coperto di campi di colori in superficie o di tavola o di muro o di tela, intorno a' lineamenti detti di sopra, i quali per virtù di un buon disegno di linee girate circondano la figura. Questo sì fatto piano, dal pittore con retto giudizio mantenuto nel mezzo chiaro e negli estremi e ne' fondi scuro, et accompagnato tra questi e quello da colore mezzano fra il chiaro e lo scuro, fa che, unendosi insieme questi tre campi, tutto quello che è tra l'uno lineamento e l'altro si rilieva et apparisce tondo e spiccato, come s'è detto. Bene è vero che questi tre campi non possono bastare ad ogni cosa minutamente, atteso che egli è necessario dividere qualunche di loro almeno in due spezie, faccendo in quel chiaro due mezzi, e di quello scuro due più chiari, e di quel mezzo due altri mezzi che pendino l'uno nel più chiaro e l'altro nel più scuro. Quando queste tinte d'un color solo, qualunche egli si sia, saranno stemperate, si vedrà a poco a poco cominciare il chiaro, e poi meno chiaro, e poi un poco più scuro, di maniera ch'a poco a poco troverremo il nero schietto.

Fatte dunque le mestiche, cioè mescolati insieme questi colori, volendo lavorare o a olio o a tempera o in fresco, si va coprendo il lineamento, e mettendo a' suoi luoghi i chiari e gli scuri et i mezzi e gli abbagliati de' mezzi e de' lumi, che sono quelle tinte mescolate de' tre primi, chiaro, mezzano e scuro, i quali chiari e mezzani e scuri et abbagliati si cavano dal cartone o vero altro disegno che per tal cosa è fatto per porlo in opra; il qual'è necessario che sia condotto con buona collocazione e disegno fondato, e con giudizio et invenzione, atteso che la collocazione non è altro nella pittura, che avere spartito in quel loco dove si fa una figura, che gli spazii siano concordi al giudizio dell'occhio, e non siano disformi; che il campo sia in un luogo pieno e nell'altro vòto: la qual cosa nasca dal disegno, e dall'avere ritratto o figure di naturale vive o da' modelli di figure fatte per quello che si voglia fare. Il qual disegno non può avere buon'ori-gine, se non s'ha dato continuamente opera a ritrarre cose naturali, e studiato pitture d'eccellenti maestri, e di statue antiche di rilievo, come s'è tante volte detto. Ma sopra tutto il meglio è gl'ignudi degli uomini vivi e femine, e da quelli avere preso in memoria per lo continovo uso i muscoli del torso, delle schiene, delle gambe, delle braccia, delle ginocchia e l'ossa di sotto, e poi avere sicurtà per lo molto studio, che senza avere i naturali inanzi si possa formare di fantasia, da sé, attitudini per ogni verso; così aver veduto degli uomini scorticati, per sapere come stanno l'ossa sotto et i muscoli et i nervi con tutti gli ordini e' termini della notomia, per potere con maggior sicurtà, e più rettamente situare le membra nell'uomo, e porre i muscoli nelle figure. E coloro che ciò sanno, forza è che faccino perfettamente i contorni delle figure; le quali, dintornate come elle debbono, mostrano buona grazia e bella maniera. Perché chi studia le pitture e sculture buone, fatte con simil modo, vedendo et intendendo il vivo, è necessario che abbi fatto buona maniera nell'ar-te. E da ciò nasce l'invenzione, la quale fa mettere insieme in istoria le figure a quattro, a sei, a dieci, a venti, talmente che si viene a formare le battaglie e l'altre cose grandi dell'arte. Questa invenzione vuol in sé una convenevolezza formata di concordanza e d'obedienza: ché, s'una figura si muove per salutare un'altra, non si faccia la salutata voltarsi indietro, avendo a rispondere; e con questa similitudine tutto il resto.

La istoria sia piena di cose variate e differenti l'una da l'altra, ma a proposito sempre di quello che si fa, e che di mano in mano figura lo artefice, il quale debbe distinguere i gesti e l'attitudini, facendo le femmine con aria dolce e bella, e similmente i giovani; ma i vecchi gravi sempre d'aspetto, et i sacerdoti massimamente, e le persone di autorità; avvertendo però sempremai che ogni cosa corrisponda ad un tutto dell'opera, di maniera che quando la pittura si guarda, vi si conosca una concordanza unita, che dia terrore nelle furie e dolcezza negli effetti piacevoli, e rappresenti in un tratto la intenzione del pittore, e non le cose che e' non pensava. Conviene adunque per questo che e' formi le figure che hanno ad essere fiere con movenzia e con gagliardia, e sfugga quelle che sono lontane dalle prime con l'ombre e con i colori appoco appoco dolcemente oscuri: di maniera che l'arte sia accompagnata sempre con una grazia di facilità e di pulita leggiadria di colori, e condotta l'opera a perfezzione, non con uno stento di passione crudele, che gl'uomini che ciò guardano abbino a patire pena della passione che in tal'opera veggono sopportata dallo artefice, ma da ralegrarsi della felicità che la sua mano abbia avuto dal cielo quella agilità, che renda le cose finite con istudio e fatica sì, ma non con istento; tanto che, dove elle sono poste, non siano morte, ma si appresentino vive e vere a chi le considera. Guardinsi da le crudezze, e cerchino che le cose che di continuo fanno, non paiono dipinte, ma si dimostrino vive e di rilievo fuor della opera loro.

E questo è il vero disegno fondato e la vera invenzione, che si conosce esser data da chi le ha fatte alle pitture che si conoscono e giudicano come buone.

Cap. XVI. Degli schizzi, disegni, cartoni et ordine di prospettive: e per quel che si fanno, et a quello che i pittori se ne servono.

Gli schizzi, de' quali si è favellato di sopra, chiamiamo noi una prima sorte di disegni che si fanno per trovar il modo delle attitudini, et il primo componimento dell'opra, e sono fatti in forma di una macchia e accennati solamente da noi in una sola bozza del tutto; e perché dal furor dello artefice sono in poco tempo con penna o con altro disegnatoio o carbone espressi solo per tentare l'animo di quel che gli sovviene, perciò si chiamano schizzi. Da questi dunque vengo-no poi rilevati in buona forma i disegni, nel far de' quali con tutta quella diligenza che si può, si cerca vedere dal vivo se già l'artefice non si sentisse gagliardo in modo che da sé li potesse condurre. Appresso, misuratili con le seste o a occhio, si ringrandiscono dalle misure piccole nelle maggiori, secondo l'opera che si ha da fare.

Questi si fanno con varie cose, cioè o con lapis rosso che è una pietra la qual viene da' monti di Alamagna, che, per esser tenera, agevolmente si sega e riduce in punte sottili da segnare con esse in sui fogli come tu vuoi; o con la pietra nera che viene da' monti di Francia, la qual'è similmente come la rossa; altri di chiaro e scuro si conducono su fogli tinti, che fanno un mezzo, e la penna fa il lineamento, cioè il dintorno o profilo, e l'inchiostro poi con un poco d'acqua fa una tinta dolce che lo vela et ombra; di poi con un pennello sottile intinto nella biacca stemperata con la gomma si lumeggia il disegno; e questo modo è molto alla pittoresca e mostra più l'ordine del colorito. Molti altri fanno con la penna sola, lasciando i lumi della carta; che è difficile, ma molto maestrevole; et infiniti altri modi ancora si costumano nel disegnare, de' quali non accade fare menzione, perché tutti rappresentano una cosa medesima, cioè il disegnare.

Fatti così i dissegni, chi vuole lavorar in fresco, cioè in muro, è necessario che faccia i cartoni, ancora ch'e' si costumi per molti di fargli per lavorar anco in tavola. Questi cartoni si fanno così: impastansi fogli con colla di farina e acqua cotta al fuoco; fogli, dico, che siano squadrati, e si tirano al muro con l'incollarli attorno due dita verso il muro con la medesima pasta. E si bagnano spruzzandovi dentro per tutto acqua fresca, e così molli si tirano, acciò nel seccarsi vengano a distendere il molle delle grinze. Da poi quando sono secchi si vanno, con una canna lunga che abbia in cima un carbone, riportando sul cartone per giudicar da discosto tutto quello che nel disegno piccolo è disegnato con pari grandezza; e così a poco a poco quando a una figura, e quando all'altra dànno fine. Qui fanno i pittori tutte le fatiche dell'arte, del ritrarre dal vivo ignudi e panni di naturale, e tirano le prospettive con tutti quelli ordini che piccoli si sono fatti in su' fogli, ringrandendoli a proporzione. E se in quegli fussero prospettive o casamenti, si ringrandiscono con la rete; la qual'è una graticola di quadri piccoli ringrandita nel cartone, che riporta giustamente ogni cosa. Perché chi ha tirate le prospettive ne' disegni piccoli, cavate di su la pianta, alzate col profilo e con la intersecazione e col punto fatte diminuire e sfuggire, bisogna che le riporti proporzionate in sul cartone. Ma del modo del tirarle, perché ella è cosa fastidiosa e difficile a darsi ad intendere, non voglio io parlare altrimenti. Basta, che le prospettive son belle tanto, quanto elle si mostrano giuste alla loro veduta, e sfuggendo si allontanano dall'occhio, e quando elle sono composte con variato e bello ordine di casamenti. Bisogna poi che 'l pittore abbia risguardo a farle con proporzione sminuire con la dolcezza de' colori, la qual'è nell'artefice una retta discrezione et un giudicio buono; la causa del quale si mostra nella difficultà delle tante linee confuse colte dalla pianta, dal profilo, et intersecazione, che ricoperte dal colore restano una facillissima cosa, la qual fa tenere l'artefice dotto, intendente et ingegnoso nell'arte. Usano ancora molti maestri, innanzi che faccino la storia nel cartone, fare un modello di terra in su un piano, con situar tonde tutte le figure per vedere gli sbattimenti, cioè l'ombre che da un lume si causano addosso alle figure, che sono quell'ombra tolta dal sole il quale, più crudamente che il lume, le fa in terra, nel piano, per l'ombra della figura. E di qui ritraendo il tutto della opra, hanno fatto l'ombre che percuotono adosso all'una e l'altra figura: onde ne vengono i cartoni e l'opera, per queste fatiche, di perfezzione e di forza più finiti, e da la carta si spiccano per il rilievo; il che dimostra il tutto più bello e maggiormente finito.

E quando questi cartoni al fresco o al muro s'adoprano, ogni giorno nella commettitura se ne taglia un pezzo, e si calca sul muro, che sia incalcinato di fresco e pulito eccellentemente. Questo pezzo del cartone si mette in quel luogo dove s'ha a fare la figura, e si contrassegna; perché l'altro dì che si voglia rimettere un altro pezzo, si riconosca il suo luogo a punto e non possa nascere errore. Appresso per i dintorni del pezzo detto, con un ferro si va calcando in su l'in-tonaco della calcina; la quale, per essere fresca, acconsente alla carta, e così ne rimane segnata. Per il che si lieva via il cartone, e per que' segni che nel muro sono calcati si va con i colori lavorando, e così si conduce il lavoro in fresco o in muro. Alle tavole et alle tele si fa il medesimo calcato, ma il cartone d'un pezzo, salvo che bisogna tingere di dietro il cartone con carboni o polvere nera, acciò che segnando poi col ferro, egli venga profilato e disegnato nella tela o tavola. E per questa cagione i cartoni si fanno per compartire, che l'opra venga giusta e misurata. Assai pittori sono che per l'opre a olio sfuggono ciò, ma per il lavoro in fresco non si può sfuggire che non si faccia. Ma certo chi trovò tal'inven-zione ebbe buona fantasia, atteso che ne' cartoni si vede il giudizio di tutta l'opra insieme, e si acconcia e guasta, finché stiano bene, il che nell'opra poi non può farsi.

Cap. XVII. De li scorti delle figure al di sotto in su, e di quelli in piano.

Hanno avuto gli artefici nostri una grandissima avvertenza nel fare scortare le figure, cioè nel farle apparire di più quantità che elle non sono veramente, essendo lo scorto a noi una cosa disegnata in faccia corta, che all'occhio venendo innanzi non ha la lunghezza o l'altezza che ella dimostra. Tuttavia la grossezza, i dintorni, l'ombre et i lumi fanno parere che ella venga innanzi; e per questo si chiama scorto. Di questa specie non fu mai pittore o disegnatore che facesse meglio, che s'abbia fatto il nostro Michelangelo Buonarroti: et ancora nessuno meglio gli poteva fare, avendo egli divinamente fatto le figure di rilievo. Egli, prima, di terra o di cera ha per questo uso fatti i modelli, e da quegli, ché più del vivo restano fermi, ha cavato i contorni, i lumi e l'ombre. Questi dànno a chi non intende grandissimo fastidio, perché non arrivano con l'intelletto a la profondità di tale difficultà, la qual'è la più forte a farla bene, che nessuna che sia nella pittura. E certo i nostri vecchi, come amorevoli dell'arte, trovarono il tirarli per via di linee in prospettiva, il che non si poteva fare prima, e li ridussero tanto inanzi, che oggi s'ha la vera maestria di farli. E quegli che li biasimano (dico delli artefici nostri) sono quelli che non li sanno fare, e che per alzare se stessi vanno abassando altrui. Et abbiamo assai maestri pittori i quali ancora che valenti, non si dilettano di fare scorti; e, nientedimeno, quando gli veggono belli e difficili non solo non gli biasimano, ma gli lodano sommamente.

Di questa specie ne hanno fatto i moderni alcuni che sono a proposito e difficili, come sarebbe a dir, in una volta, le figure che guardando in su, scortano e sfuggono, e questi chiamiamo al di sotto in su, ch'hanno tanta forza ch'eglino bu-cano le volte. E questi non si possono fare se non si ritraggono dal vivo, o con modelli in altezze convenienti non si fanno fare loro le attitudini e le movenzie di tali cose. E certo in questo genere si recano in quella difficultà una somma grazia e molta bellezza, e mostrasi una terribilissima arte. Di questa specie troverrete che gli artefici nostri nelle vite loro hanno dato grandissimo rilievo a tali opere e condottele a una perfetta fine, onde hanno conseguito lode grandissima. Chiamansi scorti di sotto in su, perché il figurato è alto e guardato dall'occhio per veduta in su, e non per la linea piana dell'orizzonte. Laonde, alzandosi la testa a volere vederlo, e scorgendosi prima le piante de' piedi e l'altre parti di sotto, giustamente si chiama col detto nome.

Cap. XVIII. Come si debbino unire i colori a olio, a fresco o a tempera, e come le carni, i panni e tutto quello che si dipigne venga nell'opera a unire in modo, che le figure non venghino divise, et abbino rilievo e forza, e mostrino l'ope-ra chiara et aperta.

L'unione nella pittura è una discordanza di colori diversi accordati insieme; i quali, nella diversità di più divise mostrano differentemente distinte l'una dall'altra le parti delle figure; come le carni dai capelli, et un panno diverso di colore da l'altro. Quando questi colori son messi in opera accesamente e vivi con una discordanza spiacevole, talché siano tinti e carichi di corpo sì come usavano di fare già alcuni pittori, il disegno ne viene ad essere offeso di maniera che le figure restano più presto dipinte dal colore, che dal pennello che le lumeggia e adombra, fatte apparire di rilievo e naturali.

Tutte le pitture, adunque, o a olio o a fresco o a tempera si debbon fare talmente unite ne' loro colori, che quelle figure che nelle storie sono le principali venghino condotte chiare chiare, mettendo i panni di colore non tanto scuro addosso a quelle dinanzi, ché quelle che vanno dopo gli abbino più chiari che le prime; anzi, a poco a poco, tanto quanto elle vanno diminuendo a lo indentro, divenghino anco parimente, di mano in mano, e nel colore delle carnagioni e nelle vestimenta, più scure. E principalmente si abbia grandissima avvertenza di mettere sempre i colori più vaghi, più dilettevoli e più belli nelle figure principali et in quelle massimamente che nella istoria vengono intere e non mezze, perché queste sono sempre le più considerate, e quelle che sono più vedute che l'altre, le quali servono quasi per campo nel colorito di queste; et un colore più smorto fa parere più vivo l'altro che gli è posto accanto, et i colori maninconici e pallidi fanno parere più allegri quelli che li sono accanto, e quasi d'una certa bellezza fiameggianti. Né si debbono vestire gli ignudi di colori tanto carichi di corpo, che dividino le carni da' panni, quando detti panni atraversassino detti ignudi; ma i colori de' lumi di detti panni siano chiari, simili alle carni, o gialletti o rossigni o violati o pagonazzi, con cangiare i fondi scuretti o verdi o azzurri o pagonazzi o gialli, purché tragghino a lo oscuro, e che unitamente si accompagnino nel girare delle figure con le lor ombre, in quel medesimo modo che noi veggiamo nel vivo; ché quelle parti che ci si apresentano più vicine all'occhio, più hanno di lume, e l'altre, perdendo di vista, perdono ancora del lume e del colore.

Così nella pittura si debbono adoperare i colori con tanta unione, che e' non si lasci uno scuro et un chiaro sì spiacevolmente ombrato e lumeggiato, che e' si faccia una discordanza et una disunione spiacevole, salvo che negli sbattimenti, che sono quell'ombre che fanno le figure adosso l'una all'altra, quando un lume solo percuote adosso a una prima figura, che viene ad ombrare col suo sbattimento la seconda. E questi ancora, quando accaggiono, voglion esser dipinti con dolcezza et unitamente, perché chi gli disordina viene a fare che quella pittura par più presto un tappeto colorito o un paro di carte da giocare, che carne unita o panni morbidi o altre cose piumose, delicate e dolci. Che sì come gli orecchi restano offesi da una musica che fa strepito o dissonanza o durezza (salvo però in certi luoghi e a' tempi, sì come io dissi degli sbattimenti), così restano offesi gli occhi da' colori troppo carichi o troppo crudi. Conciò sia che il troppo acceso offende il disegno, e lo abbacinato, smorto, abbagliato e troppo dolce pare una cosa spenta, vecchia ed affumicata; ma lo unito che tenga in fra lo acceso e lo abbagliato è perfettissimo e diletta l'occhio, come una musica unita et arguta diletta lo orecchio.

Debbonsi perdere negli scuri certe parti delle figure, e nella lontananza della istoria; perché oltre che, se elle fussono nello apparire troppo vive et accese, confonderebbono le figure, elle dànno ancora, restando scure et abbagliate qua-si come campo, maggiore forza alle altre che vi sono inanzi. Né si può credere quanto nel variare le carni con i colori, faccendole a' giovani più fresche che a' vecchi, et ai mezzani tra il cotto et il verdiccio e gialliccio, si dia grazia e bellezza alla opera, e quasi in quello stesso modo che si faccia nel disegno, l'aria delle vecchie accanto alle giovani et alle fanciulle et a' putti; dove veggendosene una tenera e carnosa, l'altra pulita e fresca, fa nel dipinto una discordanza accordatissima. Et in questo modo si debbe nel lavorare metter gli scuri, dove meno offendino e faccino divisione, per cavare fuori le figure; come si vede nelle pitture di Rafaello da Urbino e di altri pittori eccellenti che hanno tenuto que-sta maniera. Ma non si debbe tenere questo ordine nelle istorie dove si contrafacessino lumi di sole e di luna, o vero fuochi o cose notturne; perché queste si fanno con gli sbattimenti crudi e taglienti, come fa il vivo. E nella sommità do-ve sì fatto lume percuote, sempre vi sarà dolcezza et unione. Et in quelle pitture che aranno queste parti, si conoscerà che la intelligenza del pittore arà con la unione del colorito campata la bontà del disegno, dato vaghezza alla pittura, e rilievo e forza terribile alle figure.

Cap. XIX. Del dipingere in muro: come si fa e perché si chiama lavorare in fresco.

Di tutti gl'altri modi che i pittori faccino, il dipignere in muro è più maestrevole e bello, perché consiste nel fare in un giorno solo quello che nelli altri modi si può in molti ritoccare sopra il lavorato. Era dagli antichi molto usato il fresco, et i vecchi moderni ancora l'hanno poi seguitato. Questo si lavora su la calce che sia fresca, né si lascia mai sino a che sia finito quanto per quel giorno si vuole lavorare. Perché allungando punto il dipignerla, fa la calce una certa crosterella pel caldo, pel freddo, pel vento e pe' ghiacci, che muffa e macchia tutto il lavoro. E per questo vuole essere continovamente bagnato il muro che si dipigne, et i colori che vi si adoperano, tutti di terre e non di miniere, et il bianco di trevertino, cotto. Vuole ancora una mano destra resoluta e veloce, ma sopra tutto un giudizio saldo et intero; perché i colori, mentre che il muro è molle, mostrano una cosa in un modo, che poi secco non è più quella. E però bisogna che in questi lavori a fresco giuochi molto più nel pittore il giudizio che il disegno, e che egli abbia per guida sua una pratica più che grandissima, essendo sommamente difficile il condurlo a perfezione. Molti de' nostri artefici vagliono assai negl'altri lavori, cioè a olio o a tempera, et in questo poi non riescono, per essere egli veramente il più virile, più sicuro, più resoluto e durabile di tutti gli altri modi, e quello che, nello stare fatto, di continuo acquista di bellezza e di unione più degl'altri infinitamente. Questo all'aria si purga, e dall'acqua si difende, e regge di continuo a ogni percossa. Ma bisogna guardarsi di non avere a ritoccarlo co' colori che abbino colla di carnicci, o rosso d'uovo o gomma o draganti, come fanno molti pittori; perché, oltra che il muro non fa il suo corso di mostrare la chiarezza, vengono i colori apannati da quello ritoccar di sopra, e con poco spazio di tempo diventano neri. Però quegli che cercano lavorar in muro, lavorino virilmente a fresco, e non ritocchino a secco; perché, oltre l'esser cosa vilissima, rende più corta vita alle pitture, come in altro luogo s'è detto.

Cap. XX. Del dipignere a tempera o vero a uovo su le tavole o tele; e come si può usare sul muro che sia secco.

Da Cimabue in dietro, e da lui in qua s'è sempre veduto opre lavorate da' Greci a tempera in tavola et in qualche muro. Et usavano, nello ingessare delle tavole questi maestri vecchi, dubitando che quelle non si aprissero in su le commettiture, mettere per tutto con la colla di carnicci tela lina, e poi sopra quella ingessavano per lavorarvi sopra, e temperavano i colori da condurle col rosso dell'uovo o tempera, la qual'è questa: toglievano un uovo e quello dibattevano, e dentro vi tritavano un ramo tenero di fico, acciò che quel latte con quell'uovo facesse la tempera de' colori, i quali con essa temperando, lavoravano l'opere loro. E toglievano per quelle tavole i colori ch'erano di miniere, i quali son fatti parte dagli alchimisti, e parte trovati nelle cave. Et a questa specie di lavoro ogni colore è buono, salvo ch'il bianco che si lavora in muro fatto di calcina, perch'è troppo forte; così venivano loro condotte con questa maniera le opere e le pitture loro, e questo chiamavono colorire a tempera. Solo gli azzurri temperavono con colla di carnicci; perché la giallezza dell'uovo gli faceva diventar verdi, ove la colla li mantiene nell'essere loro, e 'l simile fa la gomma. Tiensi la medesima maniera su le tavole o ingessate o senza, e così su' muri che siano secchi si dà una o due mani di colla calda, e dipoi con colori temperati con quella si conduce tutta l'opera; e chi volesse temperare ancora i colori a colla, agevolmente gli verrà fatto, osservando il medesimo che nella tempera si è raccontato. Né saranno peggiori per questo; poiché anco de' vecchi maestri nostri si sono vedute le cose a tempera conservate centinaia d'anni con bellezza e freschezza grande. E certamente e' si vede ancora delle cose di Giotto, che ce n'è pure alcuna in tavola, durata già dugento anni e mantenutasi molto bene. È poi venuto il lavorar a olio, che ha fatto per molti mettere in bando il modo della tempera, sì come oggi veggiamo che nelle tavole e nelle altre cose d'importanza si è lavorato e si lavora ancora del continovo.

Cap. XXI. Del dipingere a olio in tavola e su tele.

Fu una bellissima invenzione et una gran commodità all'arte della pittura il trovare il colorito a olio, di che fu primo inventore in Fiandra Giovanni da Bruggia, il quale mandò la tavola a Napoli al re Alfonso et al duca d'Urbino Federico II la stufa sua; e fece un S. Gironimo che Lorenzo de' Medici aveva, e molte altre cose lodate. Lo seguitò poi Rugieri da Bruggia suo discipolo, et Ausse creato di Rugieri, che fece a' Portinari in S. Maria Nuova di Firenze un quadro picciolo, il qual è oggi apresso al duca Cosimo, et è di sua mano la tavola di Careggi, villa fuori di Firenze della illustrissima casa de' Medici. Furono similmente de' primi Lodovico da Luano e Pietro Crista, e maestro Martino e Giusto da Guanto, che fece la tavola della comunione del duca d'Urbino et altre pitture, et Ugo d'Anversa, che fe' la tavola di S. Maria Nuova di Fiorenza. Questa arte condusse poi in Italia Antonello da Messina che molti anni consumò in Fiandra, e nel tornarsi di qua da' monti, fermatosi ad abitare in Venezia, la insegnò ad alcuni amici. Uno de' quali fu Domenico Veniziano che la condusse poi in Firenze, quando dipinse a olio la capella de' Portinari in S. Maria Nuova, dove la imparò Andrea dal Castagno, che la insegnò agli altri maestri, con i quali si andò ampliando l'arte et acquistando sino a Pietro Perugino, a Lionardo da Vinci et a Rafaello da Urbino, talmente che ella s'è ridotta a quella bellezza che gli artefici nostri mercé loro l'hanno acquistata.

Questa maniera di colorire accende più i colori, né altro bisogna che diligenza et amore, perché l'olio in sé si reca il colorito più morbido, più dolce e dilicato e di unione e sfumata maniera più facile che li altri; e mentre che fresco si lavora, i colori si mescolano e si uniscono l'uno con l'altro più facilmente; et insomma gli artefici danno in questo modo bellissima grazia e vivacità e gagliardezza alle figure loro, talmente che spesso ci fanno parere di rilievo le loro figure e che ell'eschino della tavola, e massimamente quando elle sono continovate di buono disegno con invenzione e bella maniera.

Ma per mettere in opera questo lavoro si fa così: quando vogliono cominciare, cioè ingessato che hanno le tavole o' quadri, gli radono, e datovi di dolcissima colla quattro o cinque mani con una spugna, vanno poi macinando i colori con olio di noce o di seme di lino (benché il noce è meglio, perché ingialla meno) e così macinati con questi olii, che è la tempera loro, non bisogna altro, quanto a essi, che distenderli col pennello. Ma conviene far prima una mestica di colori seccativi, come biacca, giallo-lino, terra da campane, mescolati tutti in un corpo e d'un color solo, e quando la colla è secca, impiastrarla su per la tavola e poi batterla con la palma della mano, tanto ch'ella venga egualmente unita e distesa per tutto, il che molti chiamano l'imprimatura. Dopo, distesa detta mestica o colore per tutta la tavola, si metta sopra essa il cartone che averai fatto con le figure e invenzioni a tuo modo; e sotto questo cartone se ne metta un altro tinto da un lato di nero, cioè da quella parte che va sopra la mestica; apuntati poi con chiodi piccoli l'uno e l'altro, piglia una punta di ferro o vero d'avorio o legno duro, e va' sopra i profili del cartone segnando sicuramente, perché così facendo non si guasta il cartone, e nella tavola o quadro vengono benissimo proffilate tutte le figure e quello che è nel cartone sopra la tavola. E chi non volesse far cartone, disegni con gesso da sarti bianco sopra la mestica, o vero con carbone di salcio, perché l'uno e l'altro facilmente si cancella. E così si vede che seccata questa mestica, lo artefice, o calcando il cartone o con gesso bianco da sarti disegnando, l'abozza; il che alcuni chiamano imporre. E finita di coprire tutta, ritorna con somma politezza lo artefice da capo a finirla; e qui usa l'arte e la diligenza per condurla a perfezione; e così fanno i maestri in tavola a olio le loro pitture.

Cap. XXII. Del pingere a olio nel muro che sia secco.

Quando gli artefici vogliono lavorare a olio in sul muro secco, due maniere possono tenere: una con fare che il muro, se vi è dato su il bianco o a fresco o in altro modo, si raschi, o se egli è restato liscio senza bianco ma intonacato, vi si dia su due o tre mani di olio bollito e cotto, continoando di ridarvelo su, sino a tanto che non voglia più bere; e poi, secco, si gli dà di mestica o imprimatura, come si disse nel capitolo avanti a questo. Ciò fatto e secco, possono gli artefici calcare o disegnare, e tale opera come la tavola condurre al fine, tenendo mescolato continuo nei colori un poco di vernice, perché facendo questo non accade poi vernicarla.

L'altro modo è che l'artefice di stucco di marmo e di matton pesto finissimo fa un arricciato che sia pulito, e lo rade col taglio della cazzuola, perché il muro ne resti ruvido; appresso gli dà una man d'olio di seme di lino, e poi fa in una pignatta una mistura di pece greca e mastico e vernice grossa, e quella bollita, con un pennel grosso si dà nel muro; poi si distende per quello con una cazzuola da murar che sia di fuoco; questa intasa i buchi dell'arricciato, e fa una pelle più unita per il muro. E poi ch'è secca, si va dandole d'imprimatura o di mestica, e si lavora nel modo ordinario dell'olio, come abbiamo ragionato. E perché la sperienza di molti anni mi ha insegnato come si possa lavorar a olio in sul muro, ultimamente ho seguitato nel dipigner le sale, camere et altre stanze del palazzo del duca Cosimo, il modo che in questo ho per l'adietro molte volte tenuto; il qual modo, brevemente, è questo: facciasi l'arricciato, sopra il quale si ha da far l'intonaco di calce, di matton pesto e di rena, e si lasci seccar bene affatto; ciò fatto, la materia del secondo intonaco sia calce, matton pesto stiacciato bene, e schiuma di ferro, perché tutte e tre queste cose, cioè di ciascuna il terzo, incorporate con chiara d'uova battute quanto fa bisogno, et olio di seme di lino, fanno uno stucco tanto serrato, che non si può disiderar in alcun modo migliore. Ma bisogna bene avvertire di non abbandonare l'intonaco mentre la materia è fresca, perché fenderebbe in molti luoghi; anzi è necessario, a voler che si conservi buono, non se gli levar mai d'intorno con la cazzuola o vero mestola o cucchiara che vogliam dire, insino a che non sia del tutto pulitamente disteso come ha da sta-re. Secco poi che sia questo intonaco, e datovi sopra d'imprimatura o mestica, si condurranno le figure e le storie perfettamente, come l'opere del detto palazzo e molte altre possono chiaramente dimostrare a ciascuno.

Cap. XXIII. Del dipignere a olio su le tele.

Gli uomini per potere portare le pitture di paese in paese, hanno trovato la comodità delle tele dipinte, come quelle che pesano poco, et avvolte sono agevoli a trasportarsi. Queste a olio, perch'elle siano arrendevoli, se non hanno a stare ferme non s'ingessano, atteso che il gesso vi crepa su arrotolandole; però si fa una pasta di farina con olio di noce, et in quello si metteno due o tre macinate di biacca; e quando le tele hanno avuto tre o quattro mani di colla, che sia dolce, ch'abbia passato da una banda all'altra, con un coltello si dà questa pasta, e tutti i buchi vengono con la mano dell'artefi-ce a turarsi. Fatto ciò, se le dà una o due mani di colla dolce, e da poi la mestica o imprimatura; et a dipignervi sopra si tiene il medesimo modo che agl'altri di sopra racconti. E perché questo modo è paruto agevole e commodo, si sono fatti non solamente quadri piccioli per portare attorno, ma ancora tavole da altari et altre opere di storie, grandissime, come si vede nelle sale del palazzo di S. Marco di Vinezia, et altrove, avenga che dove non arriva la grandezza delle tavole, serve la grandezza e 'l commodo delle tele.

Cap. XXIV. Del dipingere in pietra a olio, e che pietre siano buone.

È cresciuto sempre lo animo a' nostri artefici pittori, faccendo che il colorito a olio, oltra l'averlo lavorato in muro, si possa volendo lavorare ancora su le pietre; delle quali hanno trovato nella riviera di Genova quella spezie di lastre che noi dicemmo nella architettura che sono attissime a questo bisogno; perché per esser serrate in sé e per avere la grana gentile pigliano il pulimento piano. In su queste hanno dipinto modernamente quasi infiniti e trovato il modo ve-ro da potere lavorarvi sopra. Hanno provate poi le pietre più fine, come mischi di marmo, serpentini e porfidi, et altre simili, che sendo liscie e brunite, vi si attacca sopra il colore. Ma nel vero, quando la pietra sia ruvida et arida, molto meglio inzuppa e piglia l'olio bollito et il colore dentro; come alcuni piperni o vero piperigni gentili, i quali quando siano battuti col ferro e non arrenati con rena o sasso di tufi, si possono spianare con la medesima mistura che dissi nell'ar-ricciato, con quella cazzuola di ferro infocata. Perciò che a tutte queste pietre non accade dar colla in principio, ma solo una mano d'imprimatura di colore a olio, cioè mestica; e secca che ella sia, si può cominciare il lavoro a suo piacimento. E chi volesse fare una storia a olio su la pietra, può tôrre di quelle lastre genovesi e farle fare quadre, e fermarle nel muro co' perni sopra una incrostatura di stucco, distendendo bene la mestica in su le commettiture, di maniera che e' venga a farsi per tutto un piano di che grandezza l'artefice ha bisogno. E questo è il vero modo di condurre tali opre a fine; e, finite, si può a quelle fare ornamenti di pietre fini, di misti e d'altri marmi; le quali si rendono durabili in infinito, purché con diligenza siano lavorate; e possonsi e non si possono vernicare, come altrui piace, perché la pietra non prosciuga, cioè non sorbisce quanto fa la tavola e la tela, e si difende da' tarli, il che non fa il legname.

Cap. XXV. Del dipignere nelle mura di chiaro e scuro di varie terrette; e come si contrafanno le cose di bronzo; e del-le storie di terretta per archi o per feste, a colla, che è chiamato a guazzo et a tempera.

Vogliono i pittori che il chiaroscuro sia una forma di pittura che tragga più al disegno che al colorito, perché ciò è stato cavato dalle statue di marmo contrafacendole, e dalle figure di bronzo et altre varie pietre; e questo hanno usato di fare nelle faciate de' palazzi e case in istorie, mostrando che quelle siano contrafatte, e paino di marmo o di pietra con quelle storie intagliate; o veramente contrafacendo quelle sorti di spezie di marmo e porfido, e di pietra verde, e granito rosso e bigio, o bronzo, o altre pietre, come par loro meglio, si sono accommodati in più spartimenti di questa maniera; la qual'è oggi molto in uso per fare le facce delle case e de' palazzi, così in Roma come per tutta Italia.

Queste pitture si lavorano in due modi, prima in fresco, che è la vera, o in tele per archi, che si fanno nell'entrate de' principi nelle città e ne' trionfi, o negli apparati delle feste e delle comedie, perché in simili cose fanno bellissimo vede-re. Trattaremo prima della spezie e sorte del fare in fresco, poi diremo de l'altra. Di questa sorte di terretta si fanno i campi con la terra da fare i vasi, mescolando quella con carbone macinato o altro nero per far l'ombre più scure, e bianco di trevertino con più scuri e più chiari, e si lumeggiano col bianco schietto, e con ultimo nero a ultimi scuri finite. Vogliono avere tali specie fierezza, disegno, forza, vivacità e bella maniera, et essere espresse con una gagliardezza che mostri arte e non stento, perché si hanno a vedere et a conoscere di lontano. E con queste ancora s'imitino le figure di bronzo, le quali col campo di terra gialla e rossa s'abbozzano, e con più scuri di quello nero e rosso e giallo si sfondano, e con giallo schietto si fanno i mezzi, e con giallo e bianco si lumeggiano. E di queste hanno i pittori le facciate e le storie di quelle con alcune statue tramezzate, che in questo genere hanno grandissima grazia.

Quelle poi che si fanno per archi, comedie, o feste, si lavorano poi che la tela sia data di terretta, cioè di quella prima terra schietta da far vasi temperata con colla; e bisogna che essa tela sia bagnata di dietro mentre l'artefice la dipigne, acciò che con quel campo di terretta unisca meglio li scuri et i chiari della opera sua; e si costuma temperare i neri di quelle con un poco di tempera; e si adoperano biacche per bianco, e minio per dar rilievo alle cose che paiono di bronzo, e giallolino per lumeggiare sopra detto minio; e per i campi e per gli scuri le medesime terre gialle e rosse, et i medesimi neri che io dissi nel lavorare a fresco, i quali fanno mezzi et ombre. Ombrasi ancora con altri diversi colori altre sorte di chiari e scuri; come con terra d'ombra, alla quale si fa la terretta di verde terra e gialla e bianco; similmente con terra nera, che è un'altra sorte di verde terra e nera, che la chiamano verdaccio.

Cap. XXVI. Degli sgraffiti delle case che reggono a l'acqua, quello che si adoperi a fargli, e come si lavorino le grottesche nelle mura.

Hanno i pittori un'altra sorte di pittura che è disegno e pittura insieme, e questo si domanda sgraffito, e non serve ad altro che per ornamenti di facciate, di case e palazzi, che più brevemente si conducono con questa spezie, e reggono al-l'acque sicuramente; perché tutt'i lineamenti invece di essere disegnati con carbone o con altra materia simile, sono tratteggiati con un ferro dalla mano del pittore; il che si fa in questa maniera: pigliano la calcina mescolata con la rena, ordinariamente, e con paglia abbruciata la tingono d'uno scuro che venga in un mezzo colore che trae in argentino, e verso lo scuro un poco più che tinta di mezzo, e con questa intonacano la facciata. E fatto ciò e pulita, col bianco della calce di trevertino, l'imbiancano tutta, et imbiancata ci spolverano su i cartoni, o vero disegnano quel che ci vogliono fare; e di poi aggravando col ferro, vanno dintornando e tratteggiando la calce; la quale essendo sotto di corpo nero, mostra tutti i graffi del ferro come segni di disegno. E si suole ne' campi di quegli radere il bianco, e poi avere una tinta d'ac-querello scuretto molto acquidoso, e di quello dare per gli scuri, come si desse a una carta; il che di lontano fa un bellissimo vedere: ma il campo, se ci è grottesche o fogliami, si sbattimenta, cioè ombreggia con quello acquerello. E questo è il lavoro, che per esser dal ferro graffiato, hanno chiamato i pittori sgraffito.

Restaci or a ragionare delle grottesche che si fanno sul muro, dunque, quelle che vanno in campo bianco. Non ci essendo il campo di stucco per non essere bianca la calce, si dà per tutto sottilmente il campo di bianco, e fatto ciò, si spolverano e si lavorano in fresco di colori sodi, perché non arebbono mai la grazia ch'hanno quelle che si lavorano su lo stucco. Di questa spezie possono essere grottesche grosse e sottili, le quali vengono fatte nel medesimo modo che si lavorano le figure a fresco o in muro.

Cap. XXVII. Come si lavorino le grottesche su lo stucco.

Le grottesche sono una spezie di pitture licenziose e ridicole molto, fatte dagl'antichi per ornamenti di vani, dove in alcuni luoghi non stava bene altro che cose in aria; per il che facevano in quelle tutte sconciature di mostri, per strattezza della natura e per gricciolo e ghiribizzo degli artefici; i quali fanno in quelle, cose senza alcuna regola, apiccando a un sottilissimo filo un peso che non si può reggere, a un cavallo le gambe di foglie, e a un uomo le gambe di gru, e infiniti sciarpelloni e passerotti; e chi più stranamente se gli immaginava, quello era tenuto più valente. Furono poi regolate, e per fregi e spartimenti fatto bellissimi andari; così di stucchi mescolarono quelle con la pittura. E sì innanzi andò questa pratica, che in Roma e in ogni luogo dove i Romani risedevano, ve n'è ancora conservato qualche vestigio. E nel vero tocche d'oro et intagliate di stucchi, elle sono opera allegra e dilettevole a vedere.

Queste si lavorano di quattro maniere: l'una lavora lo stucco schietto; l'altra fa gli ornamenti soli di stucco, e dipigne le storie ne' vani e le grottesche ne' fregi; la terza fa le figure parte lavorate di stucco e parte dipinte di bianco e nero, contrafacendo cammei e altre pietre. E di questa spezie grottesche e stucchi se n'è visto e vede tante opere lavorate da' moderni, i quali con somma grazia e bellezza hanno adornato le fabbriche più notabili di tutta l'Italia, che gli antichi rimangono vinti di grande spacio. L'ultima, finalmente, lavora d'acquerello in su lo stucco, campando il lume con esso, et ombrandolo con diversi colori.

Di tutte queste sorti che si difendono assai dal tempo, se ne veggono delle antiche in infiniti luoghi a Roma et a Pozzuolo vicino a Napoli. E questa ultima sorte si può anco benissimo lavorare con colori sodi a fresco, lasciando lo stucco bianco per campo a tutte queste, che nel vero hanno in sé bella grazia; e fra esse si mescolano paesi che molto dànno loro de l'allegro, e così ancora storiette di figure piccole colorite. E di questa sorte oggi in Italia ne sono molti maestri che ne fanno professione, et in esse sono eccellenti.

Cap. XXVIII. Del modo del mettere d'oro a bolo et a mordente, et altri modi.

Fu veramente bellissimo segreto et investigazione sofistica il trovar modo che l'oro si battesse in fogli sì sottilmente che per ogni migliaio di pezzi battuti, grandi un ottavo di braccio per ogni verso, bastasse fra l'artificio e l'oro il valore solo di sei scudi. Ma non fu punto meno ingegnosa cosa il trovar modo a poterlo talmente distendere sopra il gesso, che il legno, od altro ascostovi sotto, paresse tutto una massa d'oro; il che si fa in questa maniera: ingessasi il legno con gesso sottilissimo, impastato con la colla più tosto dolce che cruda, e vi si dà sopra grosso più mani, secondo che il legno è lavorato bene o male; inoltre raso il gesso e pulito, con la chiara dell'uovo schietta, sbattuta sottilmente con l'ac-qua, dentrovi si tempera il bolo armeno macinato ad acqua sottilissimamente, e si fa il primo acquidoso, o vogliamo dirlo liquido e chiaro, e l'altro appresso più corpulento. Poi si dà con esso almanco tre volte sopra il lavoro, fino a che e' lo pigli per tutto bene; e bagnando di mano in mano con un pennello con acqua pura dove è dato il bolo, vi si mette su l'oro in foglia il quale subito si appicca a quel molle; e quando egli è soppasso, non secco, si brunisce con una zanna di cane o di lupo, sinché e' diventi lustrante e bello. Dorasi ancora in un'altra maniera che si chiama a mordente, il che si adopera ad ogni sorte di cose, pietre, legni, tele, metalli d'ogni spezie, drappi e corami, e non si brunisce come quel primo. Questo mordente che è la maestra che lo tiene, si fa di colori seccaticci a olio di varie sorti, e di olio cotto con la vernice dentrovi, e dassi in sul legno che ha avuto prima due mani di colla. E poi che il mordente è dato così, non mentre che egli è fresco ma mezzo secco, vi si mette su l'oro in foglie. Il medesimo si può fare ancora con l'orminiaco quando s'ha fretta, atteso che, mentre si dà, è buono; e questo serve più a fare selle, arabeschi et altri ornamenti, che ad altro. Si macina ancora di questi fogli in una tazza di vetro con un poco di mèle e di gomma, che serve ai miniatori, et a infiniti che col pennello si dilettano fare proffili e sottilissimi lumi nelle pitture. E tutti questi sono bellissimi segreti, ma per la copia di essi non se ne tiene molto conto.

Cap. XXIX. Del musaico de' vetri, et a quello che si conosce il buono e lodato.

Essendosi assai largamente detto di sopra nel VI capitolo che cosa sia il musaico, e come e' si faccia, continuandone qui quel tanto che è proprio della pittura, diciamo che egli è maestria veramente grandissima condurre i suoi pezzi cotanto uniti, che egli apparisca di lontano per onorata pittura e bella; atteso che in questa spezie di lavoro bisogna e pratica e giudizio grande con una profondissima intelligenza nell'arte del disegno, perché chi offusca ne' disegni il musaico con la copia et abbondanza delle troppe figure nelle istorie e con le molte minuterie de' pezzi, le confonde. E però bisogna che il disegno de' cartoni che per esso si fanno sia aperto, largo, facile, chiaro e di bontà e bella maniera continuato. E chi intende nel disegno la forza degli sbattimenti e del dare pochi lumi et assai scuri, con fare in quelli certe piazze o campi, costui sopra d'ogni altro lo farà bello e bene ordinato.

Vuole avere il musaico lodato chiarezza in sé con certa unita scurità verso l'ombre, e vuole essere fatto con grandissima discrezione lontano dall'occhio, acciò che lo stimi pittura e non tarsia commessa. Laonde, i musaici che aranno queste parti saranno buoni e lodati da ciascheduno; e certo è che il musaico è la più durabile pittura che sia. Imperò che l'altra col tempo si spegne, e questa nello stare fatta di continuo s'accende; et inoltre la pittura manca e si consuma per se medesima, ove il musaico per la sua lunghissima vita si può quasi chiamare eterno. Per lo che scorgiamo noi in esso non solo la perfezione de' maestri vecchi, ma quella ancora degli antichi, mediante quelle opere che oggi si riconoscono dell'età loro; come nel tempio di Bacco a S. Agnesa fuor di Roma, dove è benissimo condotto tutto quello che vi è lavo-rato; similmente a Ravenna n'è del vecchio bellissimo in più luoghi, et a Vinezia in S. Marco, a Pisa nel Duomo, et a Fiorenza in S. Giovanni, la tribuna: ma il più bello di tutti è quello di Giotto nella nave del portico di S. Piero di Roma, perché veramente in quel genere è cosa miracolosa; e ne' moderni quello di Domenico del Ghirlandaio sopra la porta di fuori di Santa Maria del Fiore che va alla Nunziata.

Preparansi adunque i pezzi da farlo in questa maniera: quando le fornaci de' vetri sono disposte e le padelle piene di vetro, se li vanno dando i colori, a ciascuna padella il suo; avvertendo sempre che da un chiaro bianco che ha corpo e non è trasparente si conduchino i più scuri di mano in mano, in quella stessa guisa che si fanno le mestiche de' colori per dipignere ordinariamente. Appresso, quando il vetro è cotto e bene stagionato, e le mestiche sono condotte e chiare e scure e d'ogni ragione, con certe cucchiaie lunghe di ferro si cava il vetro caldo e si mette in su uno marmo piano, e sopra con un altro pezzo di marmo si schiaccia pari, e se ne fanno rotelle che venghino ugualmente piane, e restino di grossezza la terza parte dell'altezza d'un dito. Se ne fa poi con una bocca di cane di ferro pezzetti quadri tagliati, et altri col ferro caldo lo spezzano, inclinandolo a loro modo. I medesimi pezzi diventano lunghi e con uno smeriglio si tagliano: il simile si fa di tutti i vetri che hanno di bisogno, e se n'empiono le scatole, e si tengono ordinati come si fa i colori quando si vuole lavorare a fresco, che in vari scodellini si tiene separatamente la mestica delle tinte più chiare e più scure per lavorare.

Ècci un'altra spezie di vetro che si adopra per lo campo e per i lumi de' panni che si mette d'oro. Questo quando lo vogliano dorare, pigliano quelle piastre di vetro che hanno fatto, e con acqua di gomma bagnano tutta la piastra del vetro, e poi vi mettono sopra i pezzi d'oro; fatto ciò, mettono la piastra su una pala di ferro, e quella nella bocca della fornace, coperta prima con un vetro sottile tutta la piastra di vetro che hanno messa d'oro, e fanno questi coperchi o di bocce o a modo di fiaschi spezzati, di maniera che un pezzo cuopra tutta la piastra; e lo tengono tanto nel fuoco, che vien quasi rosso, ed in un tratto cavandolo, l'oro viene con una presa mirabile a imprimersi nel vetro e fermarsi, e regge all'acqua et a ogni tempesta: poi questo si taglia et ordina come l'altro di sopra. E per fermarlo nel muro usano di fare il cartone colorito et alcuni altri senza colore; il quale cartone calcano o segnano a pezzo a pezzo in su lo stucco, e di poi vanno commettendo appoco appoco quanto vogliono fare nel musaico. Questo stucco per esser posto grosso in su l'ope-ra, gli aspetta duoi dì e quattro, secondo la qualità del tempo, e fassi di trevertino, di calce, mattone pesto, draganti e chiara d'uovo; e fattolo, tengono molle con pezze bagnate. Così dunque pezzo per pezzo tagliano i cartoni nel muro, e lo disegnano su lo stucco calcando; finché poi con certe mollette si pigliano i pezzetti degli smalti, e si commettono nello stucco, e si lumeggiano i lumi, e dassi mezzi a' mezzi, e scuri agli scuri, contrafacendo l'ombre, i lumi et i mezzi minutamente come nel cartone; e così lavorando con diligenza si conduce a poco a poco a perfezione. E chi più lo conduce unito, sì che e' torni pulito e piano, colui è più degno di loda e tenuto da più degli altri. Imperò sono alcuni tanto diligenti al musaico che lo conducono di maniera che egli apparisce pittura a fresco. Questo, fatta la presa, indura talmente il vetro nello stucco, che dura in infinito come ne fanno fede i musaici antichi che sono in Roma e quelli che so-no vecchi; et anco nell'una e nell'altra parte i moderni ai dì nostri n'hanno fatto del maraviglioso.

Cap. XXX. Dell'istorie e delle figure che si fanno di commesso ne' pavimenti, ad imitazione delle cose di chiaro e scuro.

Hanno aggiunto i nostri moderni maestri al musaico di pezzi piccoli un'altra specie di musaici di marmi commessi, che contrafanno le storie dipinte di chiaroscuro; e questo ha causato il desiderio ardentissimo di volere che e' resti nel mondo a chi verrà dopo, se pure si spegnessero l'altre spezie della pittura, un lume che tenga accesa la memoria de' pittori moderni; e così hanno contrafatto con mirabile magisterio storie grandissime, che non solo si potrebbono mettere ne' pavimenti dove si camina, ma incrostarne ancora le facce delle muraglie e d'i palazzi, con arte tanto bella e meravigliosa, che pericolo non sarebbe, ch'el tempo consumasse il disegno di coloro che sono rari in questa professione; come si può vedere nel Duomo di Siena cominciato prima da Duccio Sanese e poi da Domenico Beccafumi a' dì nostri seguitato et augumentato.

Questa arte ha tanto del buono e del nuovo e del durabile, che per pittura commessa di bianco e nero poco più si puote desiderare di bontà e di bellezza. Il componimento suo si fa di tre sorte marmi che vengono de' monti di Carrara; l'uno de' quali è bianco finissimo e candido, l'altro non è bianco, ma pende in livido, che fa mezzo a quel bianco; et il terzo è un marmo bigio di tinta che trae in argentino, che serve per iscuro. Di questi volendo fare una figura, se ne fa un cartone di chiaro e scuro con le medesime tinte; e ciò fatto, per i dintorni di que' mezzi e scuri e chiari, a' luoghi loro si commette nel mezzo con diligenza il lume di quel marmo candido, e così i mezzi, e gli scuri allato a quei mezzi, secondo i dintorni stessi che nel cartone ha fatto l'artefice. E quando ciò hanno commesso insieme, e spianato di sopra tutti i pezzi de' marmi così chiari, come scuri e come mezzi, piglia l'artefice che ha fatto il cartone un pennello di nero temperato, quando tutta l'opra è insieme commessa in terra, e tutta sul marmo la tratteggia e proffila dove sono gli scuri, a guisa che si contorna, tratteggia e proffila con la penna una carta che avesse disegnata di chiaroscuro. Fatto ciò lo scultore viene incavando coi ferri tutti quei tratti e proffili che il pittore ha fatti, e tutta l'opra incava dove ha disegnato di nero il pennello. Finito questo, si murano ne' piani a pezzi a pezzi; e finito, con una mistura di pegola nera bollita o asfalto e nero di terra, si riempiono tutti gli incavi che ha fatti lo scarpello; e poi che la materia è fredda et ha fatto presa, con pezzi di tufo vanno levando e consumando ciò che sopra avanza, e con rena, mattoni e acqua si va arrotando e spianando tanto, che il tutto resti ad un piano, cioè il marmo stesso et il ripieno: il che fatto, resta l'opera in una maniera ch'ella pare veramente pittura in piano, et ha in sé grandissima forza con arte e con maestria.

Laonde è ella molto venuta in uso per la sua bellezza et ha causato ancora che molti pavimenti di stanze oggi si fanno di mattoni, che siano una parte di terra bianca, cioè di quella che trae in azzurrino quando ella è fresca e cotta diventa bianca, e l'altra della ordinaria da fare mattoni, che viene rossa quando ella è cotta. Di queste due sorti si sono fatti pavimenti commessi di varie maniere a spartimenti; come ne fanno fede le sale papali a Roma al tempo di Raffaello da Urbino, et ora ultimamente molte stanze in Castello S. Agnolo, dove si sono con i medesimi mattoni fatte imprese di gigli commessi di pezzi, che dimostrano l'arme di papa Paulo, e molte altre imprese: et in Firenze il pavimento della libreria di S. Lorenzo fatta fare dal duca Cosimo, e tutte sono state condotte con tanta diligenza, che più di bello non si può desiderare in tale magisterio: e di tutte queste cose commesse fu cagione il primo musaico.

E perché dove si è ragionato delle pietre e marmi di tutte le sorte, non si è fatto menzione d'alcuni misti nuovamente trovati dal signor duca Cosimo, dico che l'anno 1563 sua Eccellenza ha trovato nei monti di Pietrasanta presso alla villa di Stazzema un monte che gira 2 miglia et altissimo, la cui prima scorza è di marmi bianchi ottimi per fare statue. Il disotto è un mischio rosso e gialliccio, e quello che è più a dentro è verdiccio, nero, rosso e giallo con altre varie mescolanze di colori, e tutti sono in modo duri, che quanto più si va a dentro si trovano maggiori saldezze, et insino a ora vi si vede da cavar colonne di quindici in venti braccia. Non se n'è ancor messo in uso, perché si va tuttavia facendo d'ordine di sua Eccellenza una strada di tre miglia, per potere condurre questi marmi dalle dette cave alla marina, i quali mischi saranno, per quello che si vede, molto a proposito per pavimenti.

Cap. XXXI. Del musaico di legname, cioè delle tarsie; e dell'istorie che si fanno di legni tinti e commessi a guisa di pitture.

Quanto sia facil cosa l'aggiugnere all'invenzioni de' passati qualche nuovo trovato sempre assai chiaro ce lo dimostra non solo il predetto commesso de' pavimenti, che senza dubbio vien dal musaico, ma le stesse tarsie ancora, e le figure di tante varie cose, che a similitudine pur del musaico e della pittura sono state fatte da' nostri vecchi di piccoli pezzetti di legno commessi et uniti insieme nelle tavole del noce e colorati diversamente; il che i moderni chiamano lavoro di commesso, benché a' vecchi fosse tarsia. Le miglior cose che in questa spezie già si facessero furono in Firenze nei tempi di Filippo di ser Brunellesco e poi di Benedetto da Maiano; il quale, nientedimanco, giudicandole cosa disutile, si levò in tutto da quelle, come nella vita sua si dirà. Costui, come gli altri passati, le lavorò solamente di nero e di bianco; ma fra' Giovanni Veronese, che in esse fece gran frutto, largamente le migliorò dando vari colori a' legni con acque e tinte bollite e con olii penetrativi, per avere di legname i chiari e gli scuri variati diversamente, come nella arte della pittura, e lumeggiando con bianchissimo legno di silio sottilmente le cose sue.

Questo lavoro ebbe origine primieramente nelle prospettive, perché quelle avevano termine di canti vivi, che commettendo insieme i pezzi facevano il profilo, e pareva tutto d'un pezzo il piano dell'opra loro, sebbene e' fosse stato di più di mille. Lavorarono però di questo gli antichi ancora nelle incrostature delle pietre fini, come apertamente si vede nel portico di S. Pietro, dove è una gabbia con un uccello in un campo di porfido e d'altre pietre diverse, commesse in quello con tutto il resto degli staggi e delle altre cose. Ma per essere il legno più facile e molto più dolce a questo lavo-ro, hanno potuto i maestri nostri lavorarne più abbondantemente et in quel modo che hanno voluto. Usarono già per far l'ombre abbronzarle col fuoco da una banda, il che bene imitava l'ombra; ma gli altri hanno usato di poi olio di zolfo et acque di solimati e di arsenichi, con le quali cose hanno dato quelle tinture che eglino stessi hanno voluto, come si vede nell'opre di fra' Damiano in S. Domenico di Bologna. E perché tale professione consiste solo ne' disegni che siano atti a tale esercizio, pieni di casamenti e di cose che abbino i lineamenti quadrati, e si possa per via di chiari e di scuri dare loro forza e rilievo, hannolo fatto sempre persone che hanno avuto più pacienza che disegno. E così s'è causato che molte opere vi si sono fatte, e si sono in questa professione lavorate storie di figure, frutti et animali, che in vero alcune cose sono vivissime, ma per essere cosa che tosto diventa nera e non contrafà se non la pittura, essendo da meno di quella, e poco durabile per i tarli e per il fuoco, è tenuto tempo buttato invano, ancora che e' sia pure lodevole e maestrevole.

Cap. XXXII. Del dipignere le finestre di vetro, e come elle si conduchino co' piombi e co' ferri da sostenerle senza impedimento delle figure.

Costumarono già gl'antichi, ma per gli uomini grandi o almeno di qualche importanza, di serrare le finestre in modo che, senza impedire il lume, non vi entrassero i venti o il freddo; e questo solamente ne' bagni loro, ne' sudatoi, nelle stufe e negli altri luoghi riposti, chiudendo le aperture o vani di quelle con alcune pietre trasparenti, come sono le agate, gli alabastri et alcuni marmi teneri che sono mischi o che traggono al gialliccio. Ma i moderni che in molto maggior copia hanno avuto le fornaci de' vetri, hanno fatto le finestre di vetro, di occhi, e di piastre, a similitudine od imitazione di quelle che gli antichi fecero di pietra; e con i piombi accanalati da ogni banda le hanno insieme serrate e ferme, e ad alcuni ferri messi nelle muraglie a questo proposito, o veramente ne' telai di legno, le hanno armate e ferrate, come di-remo. E dove elle si facevano nel principio semplicemente d'occhi bianchi, e con angoli bianchi oppur colorati, hanno poi imaginato gli artefici fare un musaico de le figure di questi vetri diversamente colorati e commessi ad uso di pittura.

E talmente si è assottigliato l'ingegno in ciò, che e' si vede oggi condotta questa arte delle finestre di vetro a quella perfezzione, che nelle tavole si conducono le belle pitture unite di colori e pulitamente dipinte; sì come nella vita di Guglielmo da Marzille franzese largamente dimostrerremo.

Di questa arte hanno lavorato meglio i Fiaminghi et i Franzesi, che l'altre nazioni; atteso che eglino, come investigatori delle cose del fuoco e de' colori, hanno ridotto a cuocere a fuoco i colori che si pongono in sul vetro, a cagione che il vento l'aria e la pioggia non le offenda in maniera alcuna; dove già costumavano dipigner quelle di colori velati con gomme et altre tempere che col tempo si consumavano; et i venti le nebbie e l'acque se le portavano di maniera, che altro non vi restava che il semplice colore del vetro. Ma nella età presente veggiamo noi condotta questa arte a quel sommo grado, oltra il quale non si può appena desiderare perfezione alcuna di finezza, di bellezza e di ogni particularità che a questo possa servire; con una delicata e somma vaghezza, non meno salutifera, per assicurare le stanze da' venti e dall'arie cattive, che utile e comoda, per la luce chiara e spedita che per quella ci si appresenta. Vero è che, per condurle che elle siano tali, bisognano primieramente tre cose, cioè: una luminosa trasparenza ne' vetri scelti, un bellissimo componimento di ciò che vi si lavora et un colorito aperto senza alcuna confusione. La trasparenza consiste nel saper fare elezione di vetri che siano lucidi per se stessi; et in ciò meglio sono i franzesi, fiaminghi et inghilesi, che i veniziani; perché i fiaminghi sono molto chiari, et i veniziani molto carichi di colore; e quegli che son chiari, adombrandoli di scuro, non perdono il lume del tutto, tale che e' non traspaino nell'ombre loro; ma i veniziani, essendo di loro natura scuri, et oscurandoli di più con l'ombre, perdono in tutto la trasparenza. Et ancora che molti si dilettino d'averli carichi di colori artifiziatamente soprapostivi, che sbattuti dall'aria e dal sole mostrano non so che di bello, più che non fanno i colori naturali, meglio è nondimeno aver i vetri di loro natura chiari che scuri, acciò che dalla grossezza del colore non rimanghino offuscati.

A condurre questa opera bisogna avere un cartone disegnato con profili, dove siano i contorni delle pieghe de' panni e delle figure, i quali dimostrino dove si hanno a commettere i vetri; di poi si pigliano i pezzi de' vetri rossi, gialli, azzurri e bianchi e si scompartiscono secondo il disegno, per panni o per carnagioni, come ricerca il bisogno. E per ridurre ciascuna piastra di essi vetri alle misure disegnate sopra il cartone, si segnano detti pezzi in dette piastre, posate sopra il detto cartone, con un pennello di biacca, et a ciascun pezzo s'assegna il suo numero per ritrovargli più facilmente nel commettergli; i quali numeri, finita l'opera, si scancellano. Fatto questo, per tagliargli a misura si piglia un ferro appuntato affocato, con la punta del quale avendo prima con una punta di smeriglio intaccata alquanto la prima superficie dove si vuole cominciare, e con un poco di sputo bagnatovi, si va con esso ferro lungo que' dintorni, ma alquanto disco-sto: et a poco a poco muovendo il predetto ferro, il vetro si inclina e si spicca dalla piastra. Di poi con una punta di smeriglio si va rinettando detti pezzi e levandone il superfluo, e con un ferro, che e' chiamano grisatoio o vero topo, si vanno rodendo i dintorni disegnati, tale ch'e' venghino giusti da poterli commettere per tutto.

Così, dunque, commessi i pezzi di vetro, in su una tavola piana si distendono sopra il cartone e si comincia a dipignere per i panni l'ombra di quegli la quale vuol essere di scaglia di ferro macinata, e d'un'altra ruggine che alle cave del ferro si trova, la quale è rossa, o vero matita rossa e dura macinata, e con queste si ombrano le carni, cangiando quelle col nero e rosso, secondo che fa bisogno. Ma prima è necessario alle carni velare con quel rosso tutti i vetri, e con quel nero fare il medesimo a' panni con temperargli con la gomma, a poco a poco dipignendoli et ombrandoli come sta il cartone. Et appresso dipinti che e' sono, volendoli dare lumi fieri si ha un pennello di setole corto e sottile, e con quello si graffiano i vetri in su il lume, e levasi di quel panno che aveva dato per tutto il primo colore, e con l'asticciuola del pennello si va lumeggiando i capegli, le barbe, i panni, i casamenti e' paesi come tu vuoi.

Sono però in questa opera molte difficultà, e chi se ne diletta può mettere varii colori sul vetro; perché segnando su un colore rosso un fogliame o cosa minuta, volendo che a fuoco venga colorito d'altro colore, si può squamare quel vetro quanto tiene il fogliame, con la punta d'un ferro che levi la prima scaglia del vetro, cioè il primo suolo, e non la passi; perché faccendo così, rimane il vetro di color bianco, e se gli dà poi quel rosso fatto di più misture, che nel cuocere mediante lo scorrere diventa giallo. E questo si può fare su tutti i colori; ma il giallo meglio riesce sul bianco che in altri colori, l'azzurro a campirlo divien verde nel cuocerlo, perché il giallo e l'azzurro mescolati fanno color verde. Questo giallo non si dà mai se non dietro dove non è dipinto, perché mescolandosi e scorrendo guasterebbe e si mescolarebbe con quello, il quale cotto rimane sopra grosso il rosso, che raschiato via con un ferro vi lascia giallo. Dipinti che sono i vetri, vogliono esser messi in una tegghia di ferro con un suolo di cenere stacciata e calcina cotta mescolata, et a suolo a suolo i vetri parimente distesi e ricoperti dalla cenere istessa, poi posti nel fornello, il quale a fuoco lento a poco a poco riscaldati, venga a infocarsi la cenere e i vetri, perché i colori che vi sono su infocati inrugginiscono e scorrono, e fanno la presa sul vetro. Et a questo cuocere bisogna usare grandissima diligenza, perché il troppo fuoco violento li farebbe crepare, et il poco non li cocerebbe; né si debbono cavare, finché la padella o tegghia dove e' sono non si vede tutta di fuoco, e la cenere con alcuni saggi sopra, che si vegga quando il colore è scorso.

Fatto ciò, si buttano i piombi in certe forme di pietra o di ferro, i quali hanno due canali, cioè da ogni lato uno, dentro al quale si commette e serra il vetro, e si piallano e dirizzano, e poi su una tavola si conficcano et a pezzo per pezzo s'impiomba tutta l'opera in più quadri, e si saldano tutte le commettiture de' piombi con saldatoi di stagno, et in alcune traverse dove vanno i ferri si mette fili di rame impiombati, acciò che possino reggere e legare l'opra; la quale s'arma di ferri che non siano al dritto delle figure, ma torti secondo le commettiture di quelle, a cagione che e' non impedischino il vederle. Questi si mettono con inchiovature ne' ferri che reggono il tutto, e non si fanno quadri ma tondi, acciò impedischino manco la vista; e dalla banda di fuori si mettono alle finestre, e ne' buchi delle pietre s'impiombano, e con fili di rame, che ne' piombi delle finestre saldati siano a fuoco, si legano fortemente. E perché i fanciulli o altri impedimenti non le guastino, vi si mette dietro una rete di filo di rame sottile. Le quali opre se non fossero in materia troppo frangibile, durerebbono al mondo infinito tempo. Ma per questo non resta che l'arte non sia difficile, artificiosa, e bellissima.

Cap. XXXIII. Del niello e come per quello abbiamo le stampe di rame; e come s'intaglino gl'argenti, per fare gli smalti di basso rilievo, e similmente si ceselino le grosserie.

Il niello, il quale non è altro che un disegno tratteggiato e dipinto su lo argento, come si dipigne e tratteggia sottilmente con la penna, fu trovato dagli orefici sino al tempo degli antichi, essendosi veduti cavi co' ferri ripieni di mistura negli ori et argenti loro. Questo si disegna con lo stile su lo argento che sia piano e s'intaglia col bulino, che è un ferro quadro tagliato a unghia dall'uno degli angoli all'altro per isbieco, che così calando verso uno de' canti, lo fa più acuto e tagliente da' due lati, e la punta di esso scorre e sottilissimamente intaglia. Con questo si fanno tutte le cose che sono intagliate ne' metalli per riempierle o per lasciarle vòte secondo la volontà dell'artefice. Quando hanno dunque intagliato e finito col bulino, pigliano argento e piombo, e fanno di esso al fuoco una cosa, che incorporata insieme è nera di colore e frangibile molto e sottilissima a scorrere. Questa si pesta e si pone sopra la piastra dell'argento dov'è l'intaglio, il qual è necessario che sia bene pulito; et accostatolo a fuoco di legne verdi, soffiando co' mantici, si fa che i raggi di quello percuotino dove è il niello; il quale per la virtù del calore fondendosi e scorrendo, riempie tutti gl'intagli che aveva fatti il bulino. Appresso quando l'argento è raffreddo, si va diligentemente co' raschiatoi levando il superfluo, e con la pomice appoco appoco si consuma fregandolo e con le mani e con un cuoio, tanto che e' si truovi il vero piano e che il tutto resti pulito. Di questo lavorò mirabilissimamente Maso Finiguerra fiorentino, il quale fu raro in questa professione, come ne fanno fede alcune paci di niello in S. Giovanni di Fiorenza, che sono tenute mirabili. Da questo intaglio di bulino son derivate le stampe di rame, onde tante carte e italiane e tedesche veggiamo oggi per tutta Italia; che sì come negli argenti s'improntava, anzi che fussero ripieni di niello, di terra, e si buttava di zolfo, così gli stampatori trovarono il modo del fare le carte su le stampe di rame col torculo, come oggi abbiam veduto da essi imprimersi.

Ècci un'altra sorte di lavori in argento o in oro, comunemente chiamata smalto, che è spezie di pittura mescolata con la scultura; e serve dove si mettono l'acque, sì che gli smalti restino in fondo. Questa dovendosi lavorare in su l'oro ha bisogno d'oro finissimo et in su l'argento, argento almeno a lega di giulii; et è necessario questo modo, perché lo smalto ci possa restare e non iscorrere altrove che nel suo luogo: bisogna lasciarli i profili di argento, che di sopra sian sottili e non si vegghino. Così si fa un rilievo piatto, et in contrario all'altro, acciò che mettendovi gli smalti, pigli gli scuri e' chiari di quello dall'altezza e dalla bassezza dell'intaglio. Pigliasi poi smalti di vetri di varii colori che diligentemente si fermino col martello, e si tengono negli scodellini con acqua chiarissima, separati e distinti l'uno dall'altro. E quegli che si adoperano all'oro sono differenti da quelli che servono per l'argento, e si conducono in questa maniera: con una sottilissima palettina d'argento si pigliano separatamente gli smalti, e con pulita pulitezza si distendono a' luoghi loro, e vi se ne mette e rimette sopra, secondo che ragnano, tutta quella quantità che fa di mestiero. Fatto questo, si prepara una pignatta di terra fatta aposta, che per tutto sia piena di buchi et abbia una bocca dinanzi, e vi si mette dentro la mufola, cioè un coperchietto di terra bucato, che non lasci cadere i carboni a basso, e dalla mufola in su si empie di carboni di cerro, e si accende ordinariamente. Nel vòto che è restato sotto il predetto coperchio, in su una sottilissima piastra di ferro si mette la cosa smaltata a sentire il caldo a poco a poco, e vi si tiene tanto, che, fondendosi, gli smalti scorrino per tutto quasi come acqua. Il che fatto, si lascia rafreddare, e poi con una frassinella, ch'è una pietra da dare filo ai ferri, e con rena da bicchieri si sfrega, e con acqua chiara, finché si truovi il suo piano. E quando è finito di levare il tutto, si rimette nel fuoco medesimo, acciò il lustro nello scorrere l'altra volta vada per tutto. Fassene d'un'altra sorte a mano, che si pulisce con gesso di Tripoli e con un pezzo di cuoio, del quale non accade fare menzione; ma di questo l'ho fatta, perché essendo opra di pittura, come le altre, m'è paruto a proposito.

Cap. XXXIIII. Della tausìa, cioè lavoro alla damaschina.

Hanno ancora i moderni ad imitazione degli antichi rinvenuto una spezie di commettere ne' metalli intagliati d'ar-gento o d'oro, facendo in essi lavori piani o di mezzo o di basso rilievo, et in ciò grandemente gli hanno avanzati. E così abbiamo veduto nello acciaio l'opere intagliate a la tausìa, altrimenti detta a la damaschina, per lavorarsi di ciò in Damasco e per tutto il Levante eccellentemente. Laonde, veggiamo oggi di molti bronzi et ottoni e rami commessi di argento et oro con arabeschi, venuti di que' paesi: e negli antichi abbiamo veduto anelli d'acciaio con mezze figure e fogliami molto belli. E di questa spezie di lavoro se ne son fatte a' dì nostri armadure da combattere, lavorate tutte d'ara-beschi d'oro commessi, e similmente staffe, arcioni di selle e mazze ferrate; et ora molto si costumano i fornimenti delle spade, de' pugnali, de' coltelli e d'ogni ferro che si voglia riccamente ornare e guernire; e si fa così: cavasi il ferro in sotto squadra, e per forza di martello si commette l'oro in quello, fattovi prima sotto una tagliatura a guisa di lima sottile, sì che l'oro viene a entrare ne' cavi di quella et a fermarvesi. Poi con ferri si dintorna o con garbi di foglie o con girare di quel che si vuole, e tutte le cose co' fili d'oro passati per filiera si girano per il ferro, e col martello s'amaccano e fermano nel modo di sopra. Avvertiscasi nientedimeno che i fili siano più grossi et i proffili più sottili, acciò si fermino meglio in quelli. In questa professione infiniti ingegni hanno fatto cose lodevoli, e tenute maravigliose; e però non ho voluto mancare di farne ricordo, dependendo dal commettersi, et essendo scultura e pittura, cioè cosa che deriva dal disegno.

Cap. XXXV. De le stampe di legno e del modo di farle e del primo inventor loro, e come con tre stampe si fanno le carte che paiono disegnate, e mostrano il lume, il mezzo e l'ombre.

Il primo inventore delle stampe di legno di tre pezzi, per mostrare oltra il disegno l'ombre, i mezzi et i lumi ancora, fu Ugo da Carpi; il quale a imitazione delle stampe di rame ritrovò il modo di queste, intagliandole in legname di pero

o di bossolo, che in questo sono eccellenti sopra tutti gli altri legnami. Fecele dunque di tre pezzi, ponendo nella prima tutte le cose proffilate e tratteggiate, nella seconda tutto quello che è tinto accanto al proffilo con lo acquerello per ombra, e nella terza i lumi et il campo, lasciando il bianco della carta in vece di lume, e tingendo il resto per campo. Que-sta, dove è il lume et il campo, si fa in questo modo: pigliasi una carta stampata con la prima, dove sono tutte le proffilature et i tratti, e così fresca fresca si pone in su l'asse del pero, et agravandola sopra con altri fogli che non siano umidi, si strofina in maniera, che quella che è fresca lascia su l'asse la tinta di tutti i proffili delle figure; e allora il pittore piglia la biacca a gomma, e dà in su 'l pero i lumi; i quali dati, lo intagliatore gli incava tutti co' ferri, secondo che sono segnati. E questa è la stampa che primieramente si adopera, perché ella fa i lumi et il campo, quando ella è imbrattata di colore ad olio, e per mezzo della tinta lascia per tutto il colore, salvo che dove ella è incavata, che ivi resta la carta bianca. La seconda poi è quella delle ombre, che è tutta piana e tutta tinta di acquerello, eccetto che dove le ombre non hanno ad essere, che quivi è incavato il legno. E la terza, che è la prima a formarsi, è quella dove il proffilato del tutto è incavato per tutto, salvo che dove e' non ha i proffili tocchi dal nero della penna. Queste si stampano al torculo, e vi si rimettono sotto tre volte, cioè una volta per ciascuna stampa, sì che elle abbino il medesimo riscontro. E certamente che ciò fu bellissima invenzione.

Tutte queste professioni ed arti ingegnose si vede che derivano dal disegno, il quale è capo necessario di tutte; e, non l'avendo, non si ha nulla; perché sebbene tutti i segreti et i modi sono buoni, quello è ottimo, per lo quale ogni cosa perduta si ritrova, et ogni difficil cosa per esso diventa facile; come si potrà vedere nel leggere le vite degl'artefici, i quali dalla natura e dallo studio aiutati, hanno fatto cose sopra umane per il mezzo solo del disegno.

E così, faccendo qui fine alla introduzzione delle tre arti, troppo più lungamente forse trattate che nel principio non mi pensai, me ne passo a scrivere le Vite.

PROEMIO DELLE VITE

Io non dubito punto che non sia quasi di tutti gli scrittori commune e certissima opinione, che la scultura insieme con la pittura fussero naturalmente dai popoli dello Egitto primieramente trovate, e che alcun'altri non siano, che attribuischino a' Caldei le prime bozze de' marmi et i primi rilievi delle statue: come dànno anco a' Greci la invenzione del pennello e del colorire. Ma io dirò bene che dell'una e dell'altra arte il disegno, - che è il fondamento di quelle, anzi l'i-stessa anima che concepe e nutrisce in se medesima tutti i parti degli intelletti -, fusse perfettissimo in su l'origine di tutte l'altre cose, quando l'altissimo Dio, fatto il gran corpo del mondo et ornato il cielo de' suoi chiarissimi lumi, discese con l'intelletto più giù, nella limpidezza dell'aere e nella solidità della terra; e, formando l'uomo, scoperse, con la vaga invenzione delle cose, la prima forma della scoltura e della pittura; dal quale uomo, a mano a mano, poi (ché non si de' dire il contrario) come da vero esemplare fur cavate le statue e le sculture, e la difficultà dell'attitudini e dei contorni; e per le prime pitture (qual che elle si fussero) la morbidezza, l'unione e la discordante concordia che fanno i lumi con l'ombre.

Così, dunque, il primo modello onde uscì la prima imagine dell'uomo fu una massa di terra, e non senza cagione; perciò che il divino architetto del tempo e della natura, come perfettissimo, volle mostrare nella imperfezione della materia la via del levare e dell'aggiugnere; nel medesimo modo che sogliono fare i buoni scultori e' pittori, i quali ne' lor modelli aggiungendo e levando riducono le imperfette bozze a quel fine e perfezzione che vogliono. Diedegli colore vivacissimo di carne; dove s'è tratto nelle pitture, poi, dalle miniere della terra, gli istessi colori, per contraffare tutte le cose che accaggiono nelle pitture.

Bene è vero, che e' non si può affermare per certo quello che ad imitazione di così bella opera si facessino gli uomini avanti al Diluvio in queste arti; avvegna che verisimilmente paia da credere che essi ancora e scolpissero e dipignessero d'ogni maniera; poiché Belo, figliuolo del superbo Nembrot, circa CC anni dopo il Diluvio, fece fare la statua donde nacque poi la idolatria, e la famosissima nuora sua Semiramis regina di Babilonia, nella edificazione di quella città, pose tra gli ornamenti di quella non solamente variate e diverse spezie di animali ritratti e coloriti di naturale, ma la imagine di se stessa e di Nino suo marito, e le statue ancora, di bronzo, del suocero e della suocera e della antisuocera sua, come racconta Diodoro, chiamandole co' nomi de' Greci, che ancora non erano, Giove, Giunone et Ope. Da le quali statue appresero per avventura i Caldei a fare le imagini de' loro Dii; poiché 150 anni dopo Rachel nel fuggire di Mesopotamia insieme con Jacob suo marito furò gl'idoli di Laban suo padre, come apertamente racconta il Genesi.

Né forono, però, soli i Caldei a fare sculture e pitture; ma le fecero ancora gli Egizzii, esercitandosi in queste arti con tanto studio, quanto mostra il sepolcro maraviglioso dello antichissimo re Simandio largamente descritto da Diodo-ro; e quanto arguisce il severo comandamento fatto da Mosè nello uscire de l'Egitto, cioè che sotto pena della morte non si facessero a Dio imagini alcune. Costui, nello scendere di sul monte, avendo trovato fabricato il vitello dell'oro et adorato solennemente dalle sue genti, turbatosi gravemente di vedere concessi i divini onori all'immagine d'una bestia, non solamente lo ruppe e ridusse in polvere, ma per punizione di cotanto errore, fece uccidere da' Leviti molte migliaia degli scellerati figliuoli d'Israel che avevano commessa quella idolatria. Ma perché non il lavorare le statue, ma l'ado-rarle era peccato sceleratissimo, si legge nell'Esodo, che l'arte del disegno e delle statue, non solamente di marmo, ma di tutte le sorte di metallo, fu donata per bocca di Dio a Beseleel della tribù di Iuda, et ad Oliab della tribù di Dan, che furono que' che fecero i due cherubini d'oro e' candellieri, e 'l velo e le fimbrie delle vesti sacerdotali, e tante altre bellissime cose di getto nel Tabernacolo, non per altro, che per indurvi le genti a contemplarle et adorarle.

Dalle cose, dunque, vedute innanzi al Diluvio, la superbia degli uomini trovò il modo di fare le statue di coloro che al mondo volsero che restassero per fama immortali; et i Greci, che diversamente ragionano di questa origine, dicono che gli Etiopi trovarono le prime statue, secondo Diodoro, e gli Egizzii le presono da loro, e da questi i Greci, poi che insino a' tempi d'Omero si vede essere stato perfetta la scultura e la pittura, come fa fede nel ragionar dello scudo d'A-chille quel divino poeta, che, con tutta l'arte, piuttosto scolpito e dipinto che scritto ce lo dimostra. Lattanzio Firmiano, favoleggiando, le concede a Prometeo, il quale, a similitudine del grande Dio, formò l'immagine umana di loto, e da lui l'arte delle statue afferma essere venuta. Ma, secondo che scrive Plinio, quest'arte venne in Egitto da Gige Lidio, il qua-le, essendo al fuoco e l'ombra di se medesimo riguardando, subito, con un carbone in mano, contornò se stesso nel muro; e da quella età, per un tempo, le sole linee si costumò mettere in opera senza corpi di colore, sì come afferma il medesimo Plinio; la qual cosa da Filocle Egizzio con più fatica, e similmente da Cleante et Ardice Corintio e da Telefane Sicionio fu ritrovata.

Cleofante Corintio fu il primo appresso de' Greci che colorì, et Apollodoro il primo che ritrovasse il pennello. Seguì Polignoto Tasio, Zeusi e Timagora Calcidese, Pitio, et Aglaufo, tutti celebratissimi; e, dopo questi, il famosissimo A-pelle, da Alessandro Magno tanto per quella virtù stimato et onorato, ingegnosissimo investigatore della Calumnia e del Favore, come ci dimostra Luciano, e, come sempre fur quasi tutti i pittori e gli scultori eccellenti, dotati dal cielo, il più delle volte, non solo dell'ornamento della poesia, come si legge di Pacuvio, ma della filosofia ancora, come si vede in Metrodoro, perito tanto in filosofia quanto in pittura, mandato dagli Ateniesi a Paolo Emilio per ornare il trionfo, che ne rimase a leggere filosofia a' suoi figliuoli.

Furono, adunque, grandemente in Grecia esercitate le sculture; nelle quali si trovarono molti artefici eccellenti, e tra gli altri Fidia Ateniese, Prasitele e Policleto, grandissimi maestri; così Lisippo e Pirgotele in intaglio di cavo valsero assai, e Pigmaleone in avorio di rilievo, di cui si favoleggia che, co' preghi suoi, impetrò fiato e spirito alla figura della vergine ch'ei fece.

La pittura similmente onorarono e con premii gli antichi Greci e Romani, poiché a coloro che la fecero maravigliosa apparire, lo dimostrarono col donare loro città e dignità grandissime. Fiorì talmente quest'arte in Roma, che Fabio diede nome al suo casato, sottoscrivendosi nelle cose da lui sì vagamente dipinte nel Tempio della Salute, e chiamandosi Fabio Pittore. Fu proibito per decreto publico che le persone serve tal'arte non facessero per le città; e tanto onore fecero le gente del continuo all'arte et agli artefici, che l'opere rare, nelle spoglie de' trionfi come cose miracolose a Roma si mandavono; e gli artefici egregi erano fatti, di servi, liberi e riconosciuti con onorati premii dalle republiche. Gli stessi Romani tanta riverenza a tali arti portarono che, oltre il rispetto che, nel guastare la città di Siragusa, volle Marcello che s'avesse a un artefice famoso di queste, nel volere pigliare la città predetta, ebbero riguardo di non mettere il fuoco a quella parte dove era una bellissima tavola dipinta; la quale fu di poi portata a Roma, nel trionfo, con molta pompa; do-ve in spazio di tempo avendo quasi spogliato il mondo, ridussero gli artefici stessi e le egregie opere loro; delle quali Roma poi si fece sì bella, perché le diedero grande ornamento le statue pellegrine, e più che le domestiche e particolari; sapendosi che in Rodi, città d'isola non molto grande, furono più di tremila statue annoverate fra di bronzo e di marmo, né manco ne ebbero gli Ateniesi, ma molto più que' d'Olimpia e di Delfo, e senza alcun numero que' di Corinto, e furo-no tutte bellissime e di grandissimo prezzo. Non si sa egli, che Nicomede, re di Licia, per l'ingordigia di una Venere che era di mano di Prasitele, vi consumò quasi tutte le ricchezze de' popoli? Non fece il medesimo Attalo? che per ave-re la tavola di Bacco dipinta da Aristide non si curò di spendervi dentro più di sei mila sesterzii: la qual tavola da Lucio Mummio fu posta, per ornarne pur Roma, nel tempio di Cerere con grandissima pompa.

Ma con tutto che la nobiltà di quest'arte fusse così in pregio, e' non si sa però ancora per certo chi le desse il primo principio. Perché, come già si è di sopra ragionato, ella si vede antichissima ne' Caldei; certi la danno all'Etiopi, et i Greci a se medesimi l'attribuiscono. E puossi, non senza ragione, pensare ch'ella sia forse più antica appresso a' Tosca-ni, come testifica il nostro Lion Batista Alberti; e ne rende assai buona chiarezza la maravigliosa sepoltura di Porsena a Chiusi: dove non è molto tempo che si è trovato sotto terra fra le mura del Laberinto alcune tegole di terra cotta, dentrovi figure di mezzo rilievo tanto eccellenti e di sì bella maniera, che facilmente si può conoscere l'arte non esser cominciata apunto in quel tempo; anzi, per la perfezzione di que' lavori, esser molto più vicina al colmo che al principio. Come ancora ne può far medesimamente fede il veder tutto il giorno molti pezzi di que' vasi rossi e neri aretini, fatti come si giudica per la maniera, intorno a quei tempi, con leggiadrissimi intagli e figurine et istorie di basso rilievo, e molte mascherine tonde sottilmente lavorate da' maestri di quell'età, come per l'effetto si mostra, pratichissimi e valentissimi in tale arte.

Vedesi ancora, per le statue trovate a Viterbo nel principio del pontificato d'Alessandro VI, la scultura essere stata in pregio e non picciola perfezzione in Toscana; e come che e' non si sappia apunto il tempo che elle furon fatte, pure, e dalla maniera delle figure e dal modo delle sepolture e delle fabriche, non meno che dalle inscrizzioni di quelle lettere toscane, si può verisimilmente conietturare ch'e' le sono antichissime e fatte ne' tempi che le cose di qua erano in buono e grande stato. Ma che maggior chiarezza si può di ciò avere, essendosi ai tempi nostri, cioè l'anno 1554, trovata una figura di bronzo fatta per la Chimera di Bellerofonte, nel far fossi, fortificazione e muraglia d'Arezzo? Nella quale figura si conosce la perfezzione di quell'arte essere stata anticamente appresso i Toscani, come si vede alla maniera etrusca, ma molto più nelle lettere intagliate in una zampa che, per essere poche, si coniettura, non si intendendo oggi da nessuno la lingua etrusca, che elle possino così significare il nome del maestro, come d'essa figura, e forse ancora gli anni secondo l'uso di que' tempi: la quale figura è oggi per la sua bellezza et antichità stata posta dal signor duca Cosimo nella sala delle stanze nuove del suo palazzo, dove sono stati da me dipinti i fatti di papa Leone X. Et oltre a questa, nel medesimo luogo furono ritrovate molte figurine di bronzo della medesima maniera; le quali sono appresso il detto signor Duca.

Ma perché le antichità delle cose de' Greci e dell'Etiopi e de' Caldei sono parimente dubbie, come le nostre e forse più, e per il più bisogna fondare il giudizio di tali cose in su le conietture, che ancor non sieno talmente deboli che in tutto si scostino dal segno, io credo non mi esser punto partito dal vero e penso che ognuno, che questa parte vorrà discretamente considerare, giudicherà come io, quando di sopra io dissi il principio di queste arti essere stata l'istessa natura e l'innanzi o modello la bellissima fabrica del mondo, et il maestro quel divino lume infuso per grazia singulare in noi, il quale non solo ci ha fatti superiori alli altri animali, ma simili (se è lecito dire) a Dio. E se ne' tempi nostri si è veduto (come io credo per molti esempli poco inanzi poter mostrare) che i semplici fanciulli e rozzamente allevati ne' boschi, in sull'esempio solo di queste belle pitture e sculture della natura, con la vivacità del loro ingegno da per se stessi hanno cominciato a disegnare, quanto più si può e debbe verisimilmente pensare, que' primi uomini, i quali quanto manco erano lontani dal suo principio e divina generazione, tanto erono più perfetti e di migliore ingegno, essi da per loro avendo per guida la natura, per maestro l'intelletto purgatissimo, per essempio sì vago modello del mondo, aver dato origine a queste nobilissime arti e da picciol principio, a poco a poco migliorandole, condottole finalmente a perfezzione?

Non voglio già negare che e' non sia stato un primo che cominciasse, ché io so molto bene che e' bisognò che qualche volta e da qualcuno venisse il principio; né anche negherò essere stato possibile che l'uno aiutasse l'altro, et insegnasse et aprisse la via al disegno, al colore e rilievo; perché io so che l'arte nostra è tutta imitazione della natura, principalmente, e poi, perché da sé non può salir tanto alto, delle cose, che da quelli che miglior maestri di sé giudica, sono condotte: ma dico bene, che il volere determinatamente affermare chi costui o costoro fussero, è cosa molto pericolosa a giudicare, e forse poco necessaria a sapere, poi che veggiamo la vera radice et origine donde ella nasce. Per che, poiché delle opere che sono la vita e la fama delli artefici, le prime, e di mano in mano le seconde e le terze, per il tempo che consuma ogni cosa, venner manco, e non essendo allora chi scrivesse, non potettono essere almanco per quella via conosciute da' posteri, vennero ancora a esser incogniti gli artefici di quelle. Ma da che gli scrittori cominciorono a far memoria delle cose state innanzi a loro, non potettono già parlare di quelli de' quali non avevano potuto aver notizia; in modo che primi appo loro vengono a esser quelli de' quali era stata ultima a perdersi la memoria. Sì come il primo de' poeti, per consenso comune, si dice esser Omero, non perché innanzi a lui non ne fusse qualcuno, che ne furono, sebbene non tanto eccellenti, e nelle cose sue istesse si vede chiaro; ma perché di quei primi, tali quali essi furono, era persa già dumila anni fa ogni cognizione. Però, lasciando questa parte indietro, troppo per l'antichità sua incerta, vegniamo alle cose più chiare, della loro perfezzione e rovina e restaurazione e per dir meglio rinascita; delle quali con molti miglior fondamenti potremo ragionare.

Dico adunque, essendo però vero che elle cominciassero in Roma tardi, se le prime figure furono, come si dice, il simulacro di Cerere fatto di metallo de' beni di Spurio Cassio, il quale, perché macchinava di farsi re, fu morto dal proprio padre senza rispetto alcuno, che sebbene continuarono l'arti della scultura e della pittura insino alla consumazione de' dodici Cesari, non però continuarono in quella perfezzione e bontà che avevano avuto innanzi; perché si vede negli edifizii che fecero, succedendo l'uno all'altro gli imperatori, che ogni giorno queste arti declinando, venivano a poco a poco perdendo l'intera perfezzione del disegno.

E di ciò possono rendere chiara testimonianza l'opere di scultura e d'architettura che furono fatte al tempo di Gostantino in Roma, e particularmente l'arco trionfale fattogli dal popolo romano al Colosseo, dove si vede che per mancamento di maestri buoni non solo si servirono delle storie di marmo fatte al tempo di Traiano, ma delle spoglie ancora condotte di diversi luoghi a Roma. E chi conosce che i vòti che sono ne' tondi, cioè le sculture di mezzo rilievo, e parimente i prigioni e le storie grandi e le colonne e le cornici et altri ornamenti, fatti prima e di spoglie, sono eccellentemente lavorati, conosce ancora che l'opere, le quali furon fatte per ripieno dagli scultori di quel tempo, sono goffissime, come sono alcune storiette di figure piccole di marmo sotto i tondi, et il basamento da piè, dove sono alcune vittorie, e fra gli archi dalle bande certi fiumi che sono molto goffi e sì fatti che si può credere fermamente che insino allora l'arte della scultura aveva cominciato a perdere del buono; e nondimeno non erano ancora venuti i Gotti e l'altre nazioni barbare e straniere, che distrussono insieme con l'Italia tutte l'arti migliori. Ben è vero che ne' detti tempi aveva minor dan-no ricevuto l'architettura che l'altre arti del disegno fatto non avevano, perché nel bagno che fece esso Gostantino fabricare a Laterano nell'entrata del portico principale, si vede, oltre alle colonne di porfido, i capitelli lavorati di marmo e le base doppie tolte d'altrove, benissimo intagliate, che tutto il composto della fabrica è benissimo inteso. Dove, per contrario, lo stucco, il musaico et alcune incrostature delle facce fatte da' maestri di quel tempo, non sono a quelle simili che fece porre nel medesimo bagno, levate per la maggior parte dai tempii degli Dii de' Gentili. Il medesimo, secondo che si dice, fece Gostantino del giardino d'Equizio, nel fare il tempio che egli dotò poi e diede a' sacerdoti cristiani. Similmente il magnifico tempio di S. Giovanni Laterano, fatto fare dallo stesso imperadore, può fare fede del medesimo, cioè che al tempo suo era di già molto declinata la scultura; perché l'immagine del Salvatore e i dodici Apostoli d'ar-gento che egli fece fare, furono sculture molto basse e fatte senza arte e con pochissimo disegno. Oltre ciò chi considera con diligenza le medaglie d'esso Gostantino e l'imagine sua et altre statue fatte dagli scultori di quel tempo che oggi so-no in Campidoglio, vede chiaramente ch'elle sono molto lontane dalla perfezzione delle medaglie e delle statue degl'al-tri imperatori: le quali tutte cose mostrano che molto inanzi la venuta in Italia de' Gotti era molto declinata la scultura.

L'architettura, come si è detto, s'andò mantenendo, se non così perfetta, in miglior modo; né di ciò è da maravigliarsi, perché facendosi gli edifizii grandi quasi tutti di spoglie, era facile agli architetti nel fare i nuovi imitare in gran parte i vecchi, che sempre avevano dinanzi agli occhi. E ciò molto più agevolmente che non potevano gli scultori, essendo mancata l'arte, imitare le buone figure degl'antichi. E che ciò sia vero, è manifesto che il tempio del prencipe degli Apostoli in Vaticano non era ricco se non di colonne, di base, di capitelli, d'architravi, cornici, porte et altre incrostature et ornamenti, che tutti furono tolti di diversi luoghi e dagli edifizii stati fatti inanzi molto magnificamente. Il medesimo si potrebbe dire di Santa Croce in Gerusalemme, la quale fece fare Gostantino a' preghi della madre Elena; di S. Lorenzo fuor delle mura; e di S. Agnesa, fatta dal medesimo a richiesta di Gostanza sua figliuola. E chi non sa che il fonte il quale servì per lo battesimo di costei e d'una sua sorella, fu tutto adornato di cose fatte molto prima? e particolarmente di quel pilo di porfido intagliato di figure bellissime, e d'alcuni candelieri di marmo eccellentemente intagliati di fogliami, e d'alcuni putti di basso rilievo che sono veramente bellissimi?

Insomma, per questa e molte altre cagioni, si vede quanto già fusse al tempo di Gostantino venuta al basso la scultura, e con essa insieme l'altre arti migliori. E se alcuna cosa mancava all'ultima rovina loro, venne loro data compiutamente dal partirsi Gostantino di Roma per andare a porre la sede dell'Imperio in Bisanzio; perciò che egli condusse in Grecia non solamente tutti i migliori scultori et altri artefici di quella età, comunche fussero, ma ancora una infinità di statue e d'altre cose di scultura bellissime.

Dopo la partita di Gostantino, i Cesari che egli lasciò in Italia, edificando continuamente et in Roma et altrove, si sforzarono di fare le cose loro quanto potettero migliori; ma, come si vede, andò sempre così la scultura come la pittura e l'architettura di male in peggio. E ciò forse avvenne perché quando le cose umane cominciano a declinare, non resta-no mai d'andare sempre perdendo, se non quando non possono più oltre peggiorare. Parimente si vede, che sebbene s'ingegnarono al tempo di Liberio papa gl'architetti di quel tempo di far gran cose nell'edificare la chiesa di S. Maria Maggiore, che non però riuscì loro il tutto felicemente, perciò che sebbene quella fabrica, che è similmente per la maggior parte di spoglie, fu fatta con assai ragionevoli misure, non si può negare nondimeno, oltre a qualche altra cosa, che il partimento fatto intorno intorno sopra le colonne con ornamenti di stucchi e di pitture, non sia povero affatto di disegno, e che molte altre cose che in quel gran tempio si veggiono, non argomentino l'imperfezzione dell'arti.

Molti anni dopo, quando i cristiani sotto Giuliano Apostata erano perseguitati, fu edificato in sul monte Celio un tempio a' San Giovanni e Paolo martiri, di tanto peggior maniera che i sopra detti, che si conosce chiaramente che l'arte era a quel tempo poco meno che perduta del tutto.

Gli edifizii ancora, che in quel medesimo tempo si fecero in Toscana, fanno di ciò pienissima fede. E per tacere molti altri, il tempio che fuor dalle mura d'Arezzo fu edificato a S. Donato vescovo di quella città, il quale insieme con Ilariano monaco fu martirizzato sotto il detto Giuliano Apostata, non fu di punto migliore architettura che i sopra detti. Né è da credere che ciò procedesse da altro che dal non essere migliori architetti in quell'età; conciò fusse che il detto tempio, come si è potuto vedere a' tempi nostri, a otto facce, fabricato delle spoglie del teatro, colosseo, et altri edifizi che erano stati in Arezzo innanzi che fusse convertita alla fede di Cristo, fu fatto senza alcun risparmio e con grandissima spesa, e di colonne di granito, di porfido e di mischi che erano stati delle dette fabriche antiche, adornato. Et io per me non dubito, alla spesa che si vedeva fatta in quel tempio, che se gli Aretini avessono avuti migliori architetti, non avessono fatto qualche cosa maravigliosa; poiché si vede in quel che fecero, che a niuna cosa perdonarono per fare quell'opera, quanto potettono maggiormente, ricca e fatta con buon ordine. E perché, come si è già tante volte detto, meno aveva della sua perfezione l'architettura che l'altre arti perduto, vi si vedeva qualche cosa di buono. Fu in quel tempo similmente aggrandita la chiesa di Santa Maria in Grado a onore del detto Ilariano, perciò che in quella aveva lungo tempo abitato, quando andò con Donato alla palma del martirio.

Ma perché la fortuna, quando ella ha condotto altri al sommo della ruota, o per ischerzo o per pentimento il più del-le volte lo torna in fondo, avvenne, dopo queste cose, che sollevatesi in diversi luoghi del mondo quasi tutte le nazioni barbare contra i Romani, ne seguì fra non molto tempo non solamente lo abbassamento di così grande imperio, ma la rovina del tutto e massimamente di Roma stessa; con la quale rovinarono del tutto parimente gli eccellentissimi artefici, scultori, pittori et architetti, lasciando l'arti e loro medesimi sotterrate e sommerse fra le miserabili stragi e rovine di quella famosissima città. E prima andarono in mala parte la pittura e la scoltura, come arti che più per diletto che per altro servivano; e l'altra, cioè l'architettura, come necessaria e utile alla salute del corpo, andò continuando, ma non già nella sua perfezzione e bontà; e se non fusse stato che le sculture e le pitture rappresentavano inanzi agl'occhi di chi nasceva di mano in mano, coloro che n'erano stati onorati per dar loro perpetua vita, se ne sarebbe tosto spento la memoria dell'une e dell'altre. Là dove alcune ne conservarono per l'imagine e per l'inscrizioni poste nell'architetture private e nelle publiche, cioè negli anfiteatri, ne' teatri, nelle terme, negli acquedotti, ne' tempii, negli obelisci, ne' colossi, nelle piramidi, negli archi, nelle conserve, e negli erarii, e, finalmente, nelle sepulture medesime; delle quali furono distrutte una gran parte da gente barbara et efferata, che altro non avevano d'uomo che l'effigie e 'l nome. Questi fra gli altri furono i Visigoti, i quali avendo creato Alarico loro re, assalirono l'Italia e Roma, e la saccheggiorno due volte e senza rispetto di cosa alcuna. Il medesimo fecero i Vandali venuti d'Affrica con Genserico loro re; il quale non contento alla roba e prede e crudeltà che vi fece, ne menò in servitù le persone con loro grandissima miseria, e con esse Eudossia moglie stata di Valentiniano imperatore, stato amazzato poco avanti dai suoi soldati medesimi; i quali, degenerati in grandissima parte dal valore antico romano per esserne andati gran tempo innanzi tutti i migliori in Bisanzio con Gostantino imperatore, non avevano più costumi né modi buoni nel vivere; anzi, avendo perduto in un tempo medesimo i veri uomini e ogni sorte di virtù, e mutate leggi, abito, nomi e lingue, tutte queste cose insieme e ciascuna per sé avevano ogni bell'animo e alto ingegno fatto bruttissimo e bassissimo diventare.

Ma quello che, sopra tutte le cose dette, fu di perdita e danno infinitamente alle predette professioni, fu il fervente zelo della nuova religione cristiana, la quale, dopo lungo e sanguinoso combattimento, avendo finalmente, con la copia de' miracoli e con la sincerità delle operazioni, abbattuta e annullata la vecchia fede de' Gentili, mentre che ardentissimamente attendeva con ogni diligenza a levar via et a stirpare in tutto ogni minima occasione donde poteva nascere errore, non guastò solamente o gettò per terra tutte le statue maravigliose, e le scolture, pitture, musaici et ornamenti de' fallaci Dii de' Gentili, ma le memorie ancora e gl'onori d'infinite persone egregie, alle quali per gl'eccellenti meriti loro dalla virtuosissima antichità erano state poste in publico le statue e l'altre memorie. Inoltre, per edificare le chiese a la usanza cristiana, non solamente distrusse i più onorati tempii degli idoli, ma per far diventare più nobile e per adornare

S. Piero, oltre agli ornamenti che da principio avuto avea, spogliò di colonne di pietra la mole d'Adriano, oggi detto Castello S. Agnolo, e molte altre le quali veggiamo oggi guaste. E avvenga che la religione cristiana non facesse questo per odio che ella avesse con le virtù, ma solo per contumelia et abbattimento degli Dii de' Gentili, non fu però che da questo ardentissimo zelo non seguisse tanta rovina a queste onorate professioni, che non se ne perdesse in tutto la forma.

E se niente mancava a questo grave infortunio, sopravvenne l'ira di Totila contro a Roma, che oltre a sfasciarla di mura, e rovinar col ferro e col fuoco tutti i più mirabili e degni edifici di quella, universalmente la bruciò tutta e, spogliatola di tutti i viventi corpi, la lasciò in preda alle fiamme et al fuoco, e senza che in XVIII giorni continui si ritrovasse in quella vivente alcuno, abbatté e destrusse talmente le statue, le pitture, i musaici e gli stucchi maravigliosi, che se ne perdé, non dico la maiestà sola, ma la forma e l'essere stesso. Per il che, essendo le stanze terrene, prima, de' palazzi o altri edificii, di stucchi, di pitture e di statue lavorate, con le rovine di sopra affogorno tutto il buono che a' giorni nostri s'è ritrovato. E coloro che successer poi, giudicando il tutto rovinato, vi piantarono sopra le vigne; di maniera che per essere le dette stanze terrene rimaste sotto la terra, le hanno i moderni nominate grotte e grottesche le pitture che vi si veggono al presente.

Finiti gli Ostrogotti, che da Narse furono spenti, abitandosi per le rovine di Roma in qualche maniera pur malamente, venne dopo cento anni Costante II imperatore di Costantinopoli; e ricevuto amorevolmente dai Romani, guastò, spogliò e portossi via tutto ciò che nella misera città di Roma era rimaso, più per sorte che per libera volontà di coloro che l'avevono rovinata. Bene è vero che e' non potette godersi di questa preda, perché da la tempesta del mare trasportato nella Sicilia, giustamente occiso dai suoi, lasciò le spoglie, il regno e la vita tutto in preda della fortuna. La quale, non contenta ancora de' danni di Roma, perché le cose tolte non potessino tornarvi già mai, vi condusse un'armata di Saracini a' danni dell'isola; i quali e le robe de' Siciliani e le stesse spoglie di Roma se ne portorono in Alessandria, con grandissima vergogna e danno dell'Italia e del Cristianesimo: e così tutto quello che non avevano guasto i Pontefici, e

S. Gregorio massimamente (il quale si dice che messe in bando tutto il restante delle statue e delle spoglie degli edifizii), per le mani di questo sceleratissimo greco finalmente capitò male. Di maniera che, non trovandosi più né vestigio né indizio di cosa alcuna che avesse del buono, gli uomini che vennono apresso, ritrovandosi rozzi e materiali, e particularmente nelle pitture e nelle sculture, incitati dalla natura e assottigliati dall'aria, si diedero a fare non secondo le regole dell'arti predette, ché non l'avevano, ma secondo la qualità degl'ingegni loro.

Essendo, dunque, a questo termine condotte l'arti del disegno, e inanzi e in quel tempo che signoreggiarono l'Italia i Longobardi, e poi, andarono dopo agevolmente, sebben alcune cose si facevano, in modo peggiorando che non si sarebbe potuto né più goffamente né con manco disegno lavorar di quello che si faceva; come ne dimostrano, oltr'a molte altre cose, alcune figure che sono nel portico di S. Piero in Roma sopra le porte, fatte alla maniera greca, per memoria d'alcuni Santi Padri, che per la S. Chiesa avevano in alcuni concilii disputato; ne fanno fede similmente molte cose del-l'istessa maniera che nella città et in tutto l'Essarcato di Ravenna si veggiono; e particolarmente alcune che sono in S. Maria Ritonda fuor di quella città, fatte poco dopo che d'Italia furono cacciati i Longobardi: nella qual chiesa non tacerò che una cosa si vede notabilissima e maravigliosa, e questa è la volta o vero cupola che la cuopre; la quale, come che sia larga dieci braccia, e serva per tetto e coperta di quella fabrica, è nondimeno tutta d'un pezzo solo, e tanto grande e sconcio, che pare quasi impossibile che un sasso di quella sorte, di peso di più di dugentomila libre, fusse tanto in alto collocato. Ma, per tornare al proposito nostro, uscirono delle mani de' maestri di que' tempi quei fantocci e quelle goffezze che nelle cose vecchie ancora oggi appariscono.

Il medesimo avvenne dell'architettura; perché bisognando pur fabricare, et essendo smarrita in tutto la forma e il modo buono per gl'artefici morti e per l'opere distrutte e guaste, coloro che si diedero a tale esercizio non edificavano cosa che per ordine o per misura avesse grazia, né disegno, né ragion alcuna. Onde ne vennero a risorgere nuovi architetti, che delle loro barbare nazioni fecero il modo di quella maniera di edifizii, ch'oggi da noi son chiamati tedeschi; i quali facevano alcune cose più tosto a noi moderni ridicole, che a loro lodevoli; finché la miglior forma e alquanto alla buona antica simile trovarono poi i migliori artefici, come si veggono di quella maniera per tutta Italia le più vecchie chiese, e non antiche, che da essi furono edificate, come da Teodorico re d'Italia un palazzo in Ravenna, uno in Pavia, et un altro in Modena pur di maniera barbara, e più tosto ricchi e grandi, che bene intesi o di buona architettura. Il medesimo si può affermare di S. Stefano in Rimini, di S. Martino di Ravenna, e del tempio di S. Giovanni Evangelista edificato nella medesima città da Galla Placidia intorno agli anni di nostra salute CCCCXXXVIII, di S. Vitale che fu edificato l'anno DXLVII, e della Badia di Classi di fuori, et insomma di molti altri monasterii e tempî edificati dopo i Longobardi. I quali tutti edifizii, come si è detto, sono e grandi e magnifici, ma di goffissima architettura, e fra questi sono molte badie in Francia edificate a S. Benedetto, e la chiesa e monastero di Monte Casino, il tempio di S. Giovambatista a Monza, fatto da quella Teodelinda, reina de' Gotti, alla quale S. Gregorio papa scrisse i suoi Dialogi; nel qual luogo essa reina fece dipignere la storia d'i Longobardi, dove si vedeva che eglino dalla parte di dietro erano rasi, e dinanzi avevano le zazzere, e si tignevano fino al mento. Le vestimenta erano di tela larga, come usarono gli Angli et i Sassoni, e sotto un manto di diversi colori, e le scarpe fino alle dita de' piedi aperte, e sopra legate con certi correggiuo

li.

Simili a' sopra detti tempii furono la chiesa di S. Giovanni in Pavia, edificata da Gundiperga figliuola della sopra detta Teodelinda, e nella medesima città la chiesa di S. Salvador fatta da Ariperto fratello della detta reina, il quale successe nel regno a Rodoaldo marito di Gundiperga; la chiesa di S. Ambruogio di Pavia, edificata da Grimoaldo re de' Longobardi, che cacciò dal regno Perterit figliuolo di Riperto; il quale Perterit ristituito nel regno dopo la morte di Grimoaldo edificò pur in Pavia un monasterio di donne, detto Monasterio Nuovo, in onore di Nostra Donna e di S. Agata; e la reina ne edificò uno fuora delle mura dedicato alla Vergine Maria in Pertica. Conperte, similmente figliuolo d'esso Perterit, edificò un monasterio e tempio a S. Giorgio detto di Coronate, nel luogo dove aveva avuto una gran vittoria contra a Alahi, di simile maniera. Né dissimile fu a questi il tempio che 'l re de' Longobardi Luiprando, il quale fu al tempo del re Pipino padre di Carlo Magno, edificò in Pavia, che si chiama S. Piero in Cieldauro; né quello similmente che Disiderio, il quale regnò dopo Astolfo, edificò di S. Piero Clivate nella diocesi milanese; né 'l monasterio di S.

Vincenzo in Milano, né quello di S. Giulia in Brescia, perché tutti furono di grandissima spesa, ma di bruttissima e disordinata maniera. In Fiorenza poi, migliorando alquanto l'architettura, la chiesa di S. Apostolo, che fu edificata da Carlo Magno, fu ancor che piccola di bellissima maniera; perché, oltre che i fusi delle colonne, sebbene sono di pezzi, han-no molta grazia e sono condotti con bella misura, i capitelli ancora e gli archi girati per le volticciuole delle due piccole navate, mostrano che in Toscana era rimaso o vero risorto qualche buono artefice. Insomma l'architettura di questa chiesa è tale, che Pippo di ser Brunellesco non si sdegnò di servirsene per modello nel fare la chiesa di S. Spirito e quella di S. Lorenzo nella medesima città.

Il medesimo si può vedere nella chiesa di S. Marco di Vinezia; la quale (per non dir nulla di S. Giorgio Maggiore stato edificato da Giovanni Morosini l'anno [978]) fu cominciata sotto il doge Iustiniano e Giovanni Particiaco appresso

S. Teodosio, quando d'Alessandria fu mandato a Vinezia il corpo di quell'Evangelista; perciò che dopo molti incendii che il palazzo del Doge e la chiesa molto dannificarono, ella fu sopra i medesimi fondamenti finalmente rifatta alla maniera greca et in quel modo che ella oggi si vede, con grandissima spesa e col parere di molti architetti, al tempo di Domenico Selvo, doge negli anni di Cristo DCCCCLXXIII; il quale fece condurre le colonne di que' luoghi donde le potette avere. E così si andò continuando insino all'anno MCXL. essendo doge messer Piero Polani, e, come si è detto, col disegno di più maestri tutti greci.

Della medesima maniera greca furono, e nei medesimi tempi, le sette badie che il conte Ugo marchese di Brandiburgo fece fare in Toscana, come si può vedere nella Badia di Firenze, in quella di Settimo e nell'altre. Le quali tutte fabriche e le vestigia di quelle che non sono in piedi, rendono testimonianza che l'architettura si teneva alquanto in pie-di, ma imbastardita fortemente e molto diversa dalla buona maniera antica. Di ciò possono anco far fede molti palazzi vecchi, stati fatti in Fiorenza dopo la rovina di Fiesole, d'opera toscana, ma con ordine barbaro nelle misure di quelle porte e finestre lunghe lunghe, e ne' garbi di quarti acuti nel girare degli archi, secondo l'uso degli architetti stranieri di que' tempi. L'anno poi MXIII si vede l'arte aver ripreso alquanto di vigore nel riedificarsi la bellissima chiesa di S. Miniato in sul Monte al tempo di messer Alibrando cittadino e vescovo di Firenze; perciò che, oltre agli ornamenti che di marmo vi si veggiono dentro e fuori, si vede nella facciata dinanzi, che gli architetti toscani si sforzarono d'imitare nelle porte, nelle finestre, nelle colonne, negl'archi e nelle cornici, quanto potettono il più, l'ordine buono antico, avendolo in parte riconosciuto nell'antichissimo tempio di S. Giovanni nella città loro. Nel medesimo tempo la pittura, che era poco meno che spenta affatto, si vide andare riacquistando qualche cosa, come ne mostra il musaico che fu fatto nella capella maggiore della detta chiesa di S. Miniato.

Da cotal principio, adunque, cominciò a crescere a poco a poco in Toscana il disegno et il miglioramento di queste arti, come si vide l'anno mille e sedici nel dare principio i Pisani alla fabbrica del Duomo loro; perché in quel tempo fu gran cosa metter mano a un corpo di chiesa così fatto di cinque navate, e quasi tutto di marmo, dentro e fuori. Questo tempio, il quale fu fatto con ordine e disegno di Buschetto, greco da Dulicchio, architettore in quell'età rarissimo, fu edificato et ornato dai Pisani d'infinite spoglie condotte per mare, essendo eglino nel colmo della grandezza loro, di diversi lontanissimi luoghi, come ben mostrano le colonne, base, capitegli, cornicioni, et altre pietre d'ogni sorte che vi si veggiono. E perché tutte queste cose erano alcune piccole, alcune grandi, et altre mezzane, fu grande il giudizio e la virtù di Buschetto nell'accomodarle, e nel fare lo spartimento di tutta quella fabbrica, dentro e fuori molto bene accommodata. Et oltre all'altre cose, nella facciata dinanzi, con gran numero di colonne accommodò il diminuire del frontespizio molto ingegnosamente, quello di varii e diversi intagli d'altre colonne e di statue antiche adornando, sì come anco fece le porte principali della medesima facciata; fra le quali, cioè allato a quella del Carroccio, fu poi dato a esso Buschetto onorato sepolcro con tre epitaffi, de' quali è questo uno, in versi latini, non punto dissimili dall'altre cose di que' tempi:

Quod vix mille boum possent iuga iuncta movere, et quod vix potuit per mare ferre ratis, Buschetti nisu, quod erat mirabile visu, dena puellarum turba levavit onus.

E perché si è di sopra fatto menzione della chiesa di S. Apostolo di Firenze, non tacerò che in un marmo di essa dal-l'uno de' lati dell'altare maggiore si leggono queste parole: VIII. V. die VI aprilis in resurrectione Domini Karolus Francorum Rex a Roma revertens, ingressus Florentiam cum magno gaudio et tripudio susceptus civium, copiam torqueis aureis decoravit [...] Ecclesiam Sanctorum Apostolorum. In altari inclusa est lamina plumbea, in qua descripta apparet praefata fundatio et consecratio, facta per Archiepiscopum Turpinum testibus Rolando et Uliverio.

L'edifizio sopra detto del Duomo di Pisa, svegliando per tutta Italia et in Toscana massimamente l'animo di molti a belle imprese, fu cagione che nella città di Pistoia si diede principio l'anno mille e trentadue alla chiesa di S. Paolo, presente il beato Atto, vescovo di quella città, come si legge in un contratto fatto in quel tempo; et insomma a molti altri edifizii, de' quali troppo lungo sarebbe fare al presente menzione.

Non tacerò già, continuando l'andar de' tempi, che l'anno poi mille e sessanta fu in Pisa edificato il tempio tondo di

S. Giovanni, dirimpetto al Duomo et in su la medesima piazza. E quello che è cosa maravigliosa e quasi del tutto incredibile, si trova, per ricordo in uno antico libro dell'Opera del Duomo, detto che le colonne del detto S. Giovanni, i pilastri e le volte furono rizzate e fatte in quindici giorni e non più. E nel medesimo libro, il quale può chiunche n'avesse voglia vedere, si legge che per fare quel tempio fu posta una gravezza d'un danaio per fuoco; ma non vi si dice già se d'oro o di piccioli. Et in quel tempo erano in Pisa, come nel medesimo libro si vede, trentaquattro mila fuochi. Fu certo questa opera grandissima di molta spesa e difficile a condursi, e massimamente la volta della tribuna fatta a guisa di pera, e di sopra coperta di piombo. Il di fuori è pieno di colonne, d'intagli, e d'istorie, e nel fregio della porta di mezzo è un Gesù Cristo con dodici Apostoli di mezzo rilievo, di maniera greca.

I Lucchesi ne' medesimi tempi, cioè l'anno 1061, come concorrenti de' Pisani, principiarono la chiesa di S. Martino in Lucca col disegno, non essendo allora altri architetti in Toscana, di certi discepoli di Buschetto. Nella facciata dinanzi della qual chiesa si vede appiccato un portico di marmo con molti ornamenti et intagli di cose fatte in memoria di papa Alessandro Secondo, stato, poco innanzi che fusse assunto al pontificato, vescovo di quella città; della quale edificazione e di esso Alessandro si dice in nove versi latini pienamente ogni cosa. Il medesimo si vede in alcune altre lettere antiche intagliate nel marmo sotto il portico infra le porte. Nella detta facciata sono alcune figure, e sotto il portico molte storie di marmo di mezzo rilievo della vita di S. Martino e di maniera greca; ma le migliori, le quali sono sopra una delle porte, furono fatte centosettanta anni doppo da Nicola Pisano, e finite nel milleduecentotrentatre come si dirà al luogo suo, essendo Operai, quando si cominciarono, Abellenato et Aliprando, come per alcune lettere nel medesimo luogo intagliate in marmo, apertamente si vede. Le quali figure di mano di Nicola Pisano mostrano quanto per lui migliorasse l'arte della scultura. Simili a questi furono per lo più, anzi tutti gli edifizii, che dai tempi detti di sopra insino all'anno milledugentocinquanta furono fatti in Italia, perciò che poco o nullo acquisto o miglioramento si vide nello spazio di tanti anni avere fatto l'architettura, ma essersi stata nei medesimi termini et andata continuando in quella goffa maniera della quale ancora molte cose si veggiono, di che non farò al presente alcuna memoria, perché se ne dirà di sotto, secondo l'occasioni che mi si porgeranno.

Le sculture e le pitture similmente buone state sotterrate nelle rovine d'Italia, si stettono insino al medesimo tempo rinchiuse o non conosciute dagli uomini ingrossati nelle goffezze del moderno uso di quell'età, nella quale non si usa-vano altre sculture né pitture, che quelle le quali un residuo di vecchi artefici di Grecia facevano, o in imagini di terra e di pietra o dipignendo figure mostruose e coprendo solo i primi lineamenti di colore. Questi artefici, come migliori, essendo soli in queste professioni, furono condotti in Italia, dove portarono, insieme col musaico, la scultura e la pittura in quel modo che la sapevano; e così le insegnarono agli Italiani goffe e rozzamente; i quali Italiani poi se ne servirono, come si è detto e come si dirà, insino a un certo tempo.

E gli uomini di quei tempi non essendo usati a veder altra bontà né maggior perfezzione nelle cose di quella che essi vedevano, si maravigliavano, e quelle ancora che baronesche fossero, nondimeno per le migliori apprendevano. Pur, gli spirti di coloro che nascevano, aitati in qualche luogo dalla sottilità dell'aria, si purgarono tanto, che nel MCCL il cielo, a pietà mossosi dei begli ingegni che 'l terren toscano produceva ogni giorno, li ridusse alla forma primiera. E sebbene gli innanzi a loro avevano veduto residui d'archi, o di colossi, o di statue, o pili, o colonne storiate, nell'età che furono dopo i sacchi e le ruine e gl'incendi di Roma, e' non seppono mai valersene o cavarne profitto alcuno, sino al tempo detto di sopra. Gli ingegni che vennero poi, conoscendo assai bene il buono dal cattivo, e abbandonando le maniere vecchie, ritornarono ad imitare le antiche con tutta l'industria et ingegno loro.

Ma perché più agevolmente s'intenda quello che io chiami vecchio et antico, antiche furono le cose innanzi a Costantino, di Corinto, d'Atene e di Roma, e d'altre famosissime città, fatte fino a sotto Nerone, ai Vespasiani, Traiano, Adriano et Antonino; perciò che l'altre si chiamano vecchie, che da S. Salvestro in qua furono poste in opera da un certo residuo de' Greci; i quali piuttosto tignere che dipignere sapevano. Perché essendo in quelle guerre morti gl'eccellenti primi artefici, come si è detto, al rimanente di que' Greci vecchi, e non antichi, altro non era rimaso che le prime linee in un campo di colore; come di ciò fanno fede oggidì infiniti musaici, che per tutta Italia lavorati da essi Greci si veggono per ogni vecchia chiesa di qualsivoglia città d'Italia, e massimamente nel Duomo di Pisa, in S. Marco di Vinegia, et ancora in altri luoghi; e così molte pitture, continovando, fecero di quella maniera con occhi spiritati e mani aperte in punta di piedi, come si vede ancora in S. Miniato fuor di Fiorenza fra la porta che va in sagrestia e quella che va in convento et in S. Spirito di detta città tutta la banda del chiostro verso la chiesa, e similmente in Arezzo in S. Giuliano et in S. Bartolomeo et in altre chiese, et in Roma in S. Pietro, nel vecchio, storie intorno intorno fra le finestre, cose che hanno più del mostro nel lineamento che effigie di quel ch'e' si sia.

Di scultura ne fecero similmente infinite, come si vede ancora sopra la porta di S. Michele a piazza Padella di Fiorenza, di basso rilievo; et in Ogni Santi, e per molti luoghi, sepulture et ornamenti di porte per chiese, dove hanno per mensole certe figure per regger il tetto così goffe e sì ree, e tanto malfatte di grossezza e di maniera, che par impossibile che imaginare peggio si potesse.

Sino a qui mi è parso discorrere dal principio della scultura e della pittura, e per avventura più largamente che in questo luogo non bisognava; il che ho io però fatto, non tanto trasportato dall'affezzione dell'arte, quanto mosso dal benefizio et utile comune degli artefici nostri: i quali, avendo veduto in che modo ella da piccol principio si conducesse alla somma altezza, e come da grado sì nobile precipitasse in ruina estrema, e per conseguente la natura di quest'arte, simile a quella dell'altre, che come i corpi umani hanno il nascere, il crescere, lo invecchiare et il morire, potranno ora più facilmente conoscere il progresso della sua rinascita e di quella stessa perfezzione dove ella è risalita ne' tempi nostri. Et a cagione ancora, che se mai (il che non acconsenta Dio) accadesse per alcun tempo per la trascuraggine degli uomini o per la malignità de' secoli, oppure per ordine de' cieli, i quali non pare che voglino le cose di quaggiù mantenersi molto in uno essere, ella incorresse di nuovo nel medesimo disordine di rovina, possano queste fatiche mie, qualunche elle si siano (se elle però saranno degne di più benigna fortuna), per le cose discorse innanzi e per quelle che hanno da dirsi, mantenerla in vita, o almeno dare animo ai più elevati ingegni di provederle migliori aiuti; tanto che con la buona volontà mia e con le opere di questi tali ella abbondi di quegli aiuti et ornamenti, dei quali (siami lecito liberamente dire il vero) ha mancato sino a quest'ora.

Ma tempo è di venire oggimai alla vita di Giovanni Cimabue, il quale, sì come dette principio al nuovo modo di disegnare e di dipignere, così è giusto e conveniente che e' lo dia ancora alle Vite, nelle quali mi sforzerò di osservare, il più che si possa, l'ordine delle maniere loro, più che del tempo. E nel descrivere le forme e le fattezze degli artefici sarò breve, perché i ritratti loro, i quali sono da me stati messi insieme con non minore spesa e fatica che diligenza, meglio dimostreranno quali essi artefici fussero quanto all'effigie, che il raccontarlo non farebbe già mai; e se d'alcuno mancas-se il ritratto, ciò non è per colpa mia, ma per non si essere in alcuno luogo trovato. E se i detti ritratti non paressero a qualcuno per avventura simili affatto ad altri che si trovassono, voglio che si consideri che il ritratto fatto d'uno quando era di diciotto o venti anni, non sarà mai simile al ritratto che sarà stato fatto quindici o venti anni poi. A questo si aggiugne, che i ritratti dissegnati non somigliano mai tanto bene quanto fanno i coloriti; senza che gli intagliatori, che non hanno disegno, tolgono sempre alle figure, per non potere né sapere fare appunto quelle minuzie che le fanno esser buone e somigliare quella perfezzione che rade volte o non mai hanno i ritratti intagliati in legno. Insomma quanta sia stata in ciò la fatica, spesa, e diligenza mia, coloro il sapranno che leggendo vedranno onde io gli abbia quanto ho potuto il meglio ricavati, etc.

FINE DEL PROEMIO DELLE VITE

DELLE

VITE DE' PITTORI, SCULTORI

E ARCHITETTORI

CHE SONO STATI DA CIMABUE IN QUA

SCRITTE DA MESSER GIORGIO VASARI

PITTORE ARETINO PARTE PRIMA

VITA DI CIMABUE

PITTORE FIORENTINO

Erano per l'infinito diluvio de' mali che avevano cacciato al disotto et affogata la misera Italia, non solamente rovinate quelle che veramente fabriche chiamar si potevano, ma, quello che importava più, spento affatto tutto il numero degl'artefici; quando, come Dio volle, nacque nella città di Fiorenza, l'anno MCCXL, per dar e' primi lumi all'arte della pittura, Giovanni cognominato Cimabue, della nobil famiglia in que' tempi d'i Cimabui. Costui, crescendo, per esser giudicato dal padre e da altri di bello e acuto ingegno, fu mandato, acciò si esercitasse nelle lettere, in S. Maria Novella a un maestro suo parente, che allora insegnava grammatica a' novizii di quel convento; ma Cimabue in cambio d'atten-dere alle lettere, consumava tutto il giorno, come quello che a ciò si sentiva tirato dalla natura, in dipignere, in su' libri et altri fogli, uomini, cavalli, casamenti et altre diverse fantasie; alla quale inclinazione di natura fu favorevole la fortuna; perché essendo chiamati in Firenze, da chi allora governava la città, alcuni pittori di Grecia, non per altro, che per rimettere in Firenze la pittura più tosto perduta che smarrita, cominciarono, fra l'altre opere tolte a far nella città, la cappella de' Gondi, di cui oggi le volte e le facciate sono poco meno che consumate dal tempo, come si può vedere in S. Maria Novella allato alla principale capella, dove ell'è posta. Onde Cimabue, cominciato a dar principio a questa arte che gli piaceva, fuggendosi spesso dalla scuola, stava tutto il giorno a vedere lavorare que' maestri; di maniera che, giudicato dal padre e da quei pittori in modo atto alla pittura, che si poteva di lui sperare, attendendo a quella professione, onorata riuscita; con non sua piccola sodisfazzione fu da detto suo padre acconcio con esso loro; là dove, di continuo esercitandosi, l'aiutò in poco tempo talmente la natura, che passò di gran lunga, sì nel disegno come nel colorire, la maniera de' maestri che gli insegnavano; i quali, non si curando passar più innanzi, avevano fatte quelle opre nel modo che elle si veggono oggi, cioè non nella buona maniera greca antica, ma in quella goffa moderna di que' tempi; e perché, sebbene imitò que' Greci, aggiunse molta perfezzione all'arte, levandole gran parte della maniera loro goffa, onorò la sua patria col nome e con l'opre che fece; di che fanno fede in Fiorenza le pitture che egli lavorò, come il dossale del-l'altare di S. Cecilia, et in S. Croce una tavola drentovi una Nostra Donna, la quale fu et è ancora appoggiata in uno pilastro a man destra intorno al coro. Doppo la quale fece in una tavoletta in campo d'oro un S. Francesco, e lo ritrasse, il che fu cosa nuova in que' tempi, di naturale, come seppe il meglio, et intorno a esso tutte l'istorie della vita sua in venti quadretti pieni di figure picciole in campo d'oro. Avendo poi preso a fare per i monaci di Vall'Ombrosa nella Badia di Santa Trinita di Fiorenza una gran tavola, mostrò in quell'opera, usandovi gran diligenza per rispondere alla fama che già era conceputa di lui, migliore invenzione, e bel modo nell'attitudini d'una Nostra Donna, che fece col Figliuolo in braccio e con molti Angeli intorno che l'adoravano in campo d'oro; la qual tavola finita, fu posta, da que' monaci in sul-l'altar maggiore di detta chiesa, donde essendo poi levata, per dar quel luogo alla tavola che v'è oggi di Alesso Baldovinetti, fu posta in una cappella minor della navata sinistra di detta chiesa. Lavorando poi in fresco allo Spedale del Porcellana sul canto della via Nuova che va in Borgo Ogni Santi, nella facciata dinanzi che ha in mezzo la porta principale, da un lato la Vergine Annunziata da l'Angelo, e da l'altro Gesù Cristo con Cleofas e Luca, figure grandi quanto il naturale, levò via quella vecchiaia, facendo in quest'opra, i panni, e le vesti, e l'altre cose un poco più vive, e naturali, e più morbide che la maniera di que' Greci, tutta piena di linee e di proffili così nel musaico come nelle pitture; la qual maniera scabrosa e goffa et ordinaria avevano, non mediante lo studio, ma per una cotal usanza insegnato l'uno all'altro per molti e molti anni i pittori di que' tempi, senza pensar mai a migliorare il disegno, a bellezza di colorito, o invenzione alcuna che buona fusse. Essendo dopo quest'opera richiamato Cimabue dallo stesso guardiano che gl'aveva fatto fare l'opere di S. Croce, gli fece un Crocifisso grande in legno che ancora oggi si vede in chiesa; la quale opera fu cagione, parendo al guardiano esser stato servito bene, che lo conducesse in S. Francesco di Pisa loro convento, a fare in una tavola un S. Francesco, che fu da que' popoli tenuto cosa rarissima, conoscendosi in esso un certo che più di bontà, e nel-l'aria della testa e nelle pieghe de' panni, che nella maniera greca non era stata usata in sin allora da chi aveva alcuna cosa lavorato non pur in Pisa, ma in tutta Italia. Avendo poi Cimabue per la medesima chiesa fatto in una tavola grande l'immagine di Nostra Donna col Figliuolo in collo, e con molti Angeli intorno pur in campo d'oro, ella fu dopo non molto tempo levata di dove ell'era stata collocata la prima volta, per farvi l'altare di marmo che vi è al presente, e posta dentro alla chiesa allato alla porta a man manca; per la quale opera fu molto lodato e premiato da' Pisani. Nella medesima città di Pisa fece a richiesta dell'abbate allora di S. Paolo in Ripa d'Arno, in una tavoletta una S. Agnesa, et intorno a essa, di figure piccole, tutte le storie della vita di lei; la qual tavoletta è oggi sopra l'altare delle Vergini in detta chiesa.

Per queste opere, dunque, essendo assai chiaro per tutto il nome di Cimabue, egli fu condotto in Ascesi, città del-l'Umbria, dove in compagnia d'alcuni maestri greci dipinse nella chiesa di sotto di S. Francesco parte delle volte, e nelle facciate la vita di Gesù Cristo e quella di S. Francesco, nelle quali pitture passò di gran lunga que' pittori greci; onde cresciutogli l'animo, cominciò da sé solo a dipigner a fresco la chiesa di sopra, e nella tribuna maggiore fece sopra il coro in quattro facciate alcune storie della Nostra Donna, cioè la morte, quando è da Cristo portata l'anima di lei in cielo sopra un trono di nuvole, e quando in mezzo a un coro d'Angeli la corona, essendo da piè gran numero di Santi e Sante, oggi dal tempo e dalla polvere consumati. Nelle crociere poi delle volte di detta chiesa, che sono cinque, dipinse similmente molte storie. Nella prima sopra il coro fece i quattro Evangelisti maggiori del vivo, e così bene, che ancor oggi si conosce in loro assai del buono; e la freschezza de' colori nelle carni, mostrano che la pittura cominciò a fare, per le fatiche di Cimabue, grande acquisto nel lavoro a fresco. La seconda crociera fece piena di stelle d'oro in campo d'azzurro oltramarino. Nella terza fece in alcuni tondi Gesù Cristo, la Vergine sua madre, S. Giovanni Battista, e S. Francesco, cioè in ogni tondo una di queste figure, et in ogni quarto della volta un tondo. E fra questa e la quinta crociera dipinse la quarta di stelle d'oro, come di sopra, in azzurro d'oltramarino. Nella quinta dipinse i quattro Dottori della Chiesa, et appresso a ciascuno di loro una delle quattro prime religioni; opera certo faticosa e condotta con diligenza infinita.

Finite le volte, lavorò pure in fresco le facciate di sopra della banda manca di tutta la chiesa, facendo verso l'altar maggiore fra le finestre et insino alla volta otto storie del Testamento Vecchio, cominciandosi dal principio del Genesi, e seguitando le cose più notabili. E nello spazio che è intorno alle finestre insino a che le terminano in sul corridore che gira intorno dentro al muro della chiesa, dipinse il rimanente del Testamento Vecchio in altre otto storie. E dirimpetto a quest'opera in altre sedici storie, ribattendo quelle, dipinse i fatti di Nostra Donna e di Gesù Cristo. E nella facciata da piè sopra la porta principale e intorno all'occhio della chiesa, fece l'ascendere di lei in cielo, e lo Spirito Santo che discende sopra gl'Apostoli. La qual opera veramente grandissima e ricca e benissimo condotta dovette, per mio giudizio, fare in quei tempi stupire il mondo, essendo massimamente stata la pittura tanto tempo in tanta cecità; et a me, che l'an-no 1563 la rividi, parve bellissima, pensando come in tante tenebre potesse veder Cimabue tanto lume. Ma di tutte queste pitture (al che si deve aver considerazione) quelle delle volte, come meno dalla polvere e dagl'altri accidenti offese, si sono molto meglio che l'altre conservate. Finite queste opere, mise mano Giovanni a dipignere le facciate di sotto, cioè quelle che sono dalle finestre in giù, e vi fece alcune cose; ma essendo a Firenze da alcune sue bisogne chiamato, non seguitò altramente il lavoro, ma lo finì, come al suo luogo si dirà, Giotto molti anni dopo.

Tornato, dunque, Cimabue a Firenze, dipinse nel chiostro di S. Spirito, dove è dipinto alla greca da altri maestri tutta la banda di verso la chiesa, tre archetti di sua mano della vita di Cristo, e certo con molto disegno. E nel medesimo tempo mandò alcune cose da sé lavorate in Firenze a Empoli, le quali ancor oggi sono nella Pieve di quel castello tenute in gran venerazione. Fece poi per la chiesa di Santa Maria Novella la tavola di Nostra Donna, che è posta in alto fra la capella de' Rucellai e quella de' Bardi da Vernia; la qual opera fu di maggior grandezza, che figura che fusse stata fatta insin a quel tempo; et alcuni Angeli che le sono intorno, mostrano, ancor che egli avesse la maniera greca, che s'andò accostando in parte al lineamento e modo della moderna, onde fu questa opera di tanta maraviglia ne' popoli di quell'età, per non si esser veduto insino allora meglio, che da casa di Cimabue fu con molta festa e con le trombe, alla chiesa portata con solennissima processione, et egli perciò molto premiato et onorato. Dicesi, et in certi ricordi di vecchi pittori si legge, che mentre Cimabue la detta tavola dipigneva in certi orti appresso porta S. Piero, che passò il re Carlo il vecchio d'Angiò per Firenze, e che fra le molte accoglienze fattegli dagli uomini di questa città, e' lo condussero a vedere la tavola di Cimabue, e che per non essere ancora stata veduta da nessuno, nel mostrarsi al Re vi concorsero tutti gli uomini e tutte le donne di Firenze, con grandissima festa e con la maggior calca del mondo. Laonde per l'alle-grezza che n'ebbero i vicini, chiamarono quel luogo Borgo Allegri, il quale col tempo messo fra le mura della città, ha poi sempre ritenuto il medesimo nome.

In S. Francesco di Pisa, dove egli lavorò, come si è detto di sopra, alcune altre cose, è di mano di Cimabue nel chiostro allato alla porta che entra in chiesa in un cantone una tavolina a tempera, nella quale è un Cristo in croce con alcuni Angeli attorno, i quali piangendo pigliano con le mani certe parole che sono scritte intorno alla testa di Cristo, e le mandano all'orecchie d'una Nostra Donna che a man ritta sta piangendo, e dall'altro lato a S. Giovanni Evangelista, che è tutto dolente, a man sinistra; e sono le parole alla Vergine: Mulier, ecce filius tuus, e quelle a S. Giovanni: Ecce mater tua, e quelle che tiene in mano un altr'angelo appartato dicono: Ex illa hora accepit eam discipulus in suam. Nel che è da considerare che Cimabue cominciò a dar lume et aprire la via all'invenzione, aiutando l'arte con le parole per esprimere il suo concetto, il che certo fu cosa capricciosa e nuova.

Ora, perché mediante queste opere s'aveva acquistato Cimabue, con molto utile, grandissimo nome, egli fu messo per architetto in compagnia d'Arnolfo Lapi, uomo allora nell'architettura eccellente, alla fabrica di S. Maria del Fiore in Fiorenza. Ma finalmente, essendo vivuto sessanta anni, passò all'altra vita l'anno milletrecento, avendo poco meno che resuscitata la pittura. Lasciò molti discepoli, e fra gli altri Giotto che poi fu eccellente pittore; il quale Giotto abitò dopo Cimabue nelle proprie case del suo maestro nella via del Cocomero. Fu sotterrato Cimabue in S. Maria del Fiore, con questo epitaffio fattogli da uno de' Nini:

Credidit ut Cimabos picturae castra tenere, sic tenuit vivens; nunc tenet astra poli.

Non lascerò di dire che, se alla gloria di Cimabue non avesse contrastato la grandezza di Giotto suo discepolo, sarebbe stata la fama di lui maggiore, come ne dimostra Dante nella sua Commedia, dove alludendo nell'undecimo canto del Purgatorio alla stessa inscrizzione della sepoltura, disse:

Credette Cimabue nella pintura tener lo campo, et ora ha Giotto il grido; sì che la fama di colui oscura.

Nella dichiarazione de' quali versi, un comentatore di Dante, il quale scrisse nel tempo che Giotto vivea, e dieci o dodici anni dopo la morte d'esso Dante, cioè intorno agli anni di Cristo milletrecentotrentaquattro, dice, parlando di Cimabue, queste proprie parole precisamente: “Fu Cimabue di Firenze pintore nel tempo di l'autore, molto nobile di più che omo sapesse, e con questo fue sì arogante e sì disdegnoso, che si per alcuno li fusse a sua opera posto alcun fallo o difetto, o elli da sé l'avessi veduto, ché, come accade molte volte, l'artefice pecca per difetto della materia, in che adopra, o per mancamento ch'è nello strumento con ch'e' lavora, immantenente quell'opra disertava, fussi cara quanto volesse. Fu et è Giotto in tra li dipintori il più sommo della medesima città di Firenze, e le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a Vignone, a Firenze, a Padova et in molte parti del mondo, etc.”. Il qual comento è oggi appresso il molto reverendo don Vincenzio Borghini priore degl'Innocenti, uomo non solo per nobiltà, bontà e dottrina chiarissimo, ma anco così amatore et intendente di tutte l'arti migliori, che ha meritato esser giudiziosamente eletto dal signor duca Cosimo in suo luogotenente nella nostra Accademia del Disegno.

Ma per tornare a Cimabue, oscurò Giotto veramente la fama di lui, non altrimenti che un lume grande faccia lo splendore d'un molto minore; perciò che sebbene fu Cimabue quasi prima cagione della rinovazione dell'arte della pittura, Giotto nondimeno, suo creato, mosso da lodevole ambizione et aiutato dal cielo e dalla natura, fu quegli che andando più alto col pensiero, aperse la porta della verità a coloro che l'hanno poi ridotta a quella perfezzione e grandezza, in che la veggiamo al secolo nostro; il quale, avezzo ogni dì a vedere le maraviglie, i miracoli, e l'impossibilità degli artefici in quest'arte, è condotto oggimai a tale, che di cosa che facciano gli uomini, benché più divina che umana sia, punto non si maraviglia. E buon per coloro che lodevolmente s'affaticano, se in cambio d'essere lodati et ammirati, non ne riportassero biasimo e molte volte vergogna. Il ritratto di Cimabue si vede di mano di Simone sanese nel capitolo di

S. Maria Novella fatto in profilo nella storia della Fede, in una figura che ha il viso magro, la barba piccola, rossetta et appuntata, con un capuccio secondo l'uso di quei tempi, che lo fascia intorno intorno e sotto la gola con bella maniera. Quello che gli è a lato è l'istesso Simone maestro di quell'opera, che si ritrasse da sé con due specchi per fare la testa di profilo, ribattendo l'uno nell'altro. E quel soldato coperto d'arme che è fra loro, è, secondo si dice, il conte Guido Novel-lo, signore allora di Poppi. Restami a dire di Cimabue, che nel principio d'un nostro libro, dove ho messo insieme disegni di propria mano di tutti coloro che da lui in qua hanno disegnato, si vede di sua mano alcune cose piccole fatte a modo di minio, nelle quali, come ch'oggi forse paino anzi goffe che altrimenti, si vede quanto per sua opera acquistasse di bontà il disegno.

FINE DELLA VITA DI CIMABUE

VITA D'ARNOLFO DI LAPO ARCHITETTO FIORENTINO

Essendosi ragionato nel Proemio delle Vite d'alcune fabriche di maniera vecchia non antica, e taciuto, per non sapergli, i nomi degli architetti che le fecero fare, farò menzione nel proemio di questa vita d'Arnolfo d'alcuni altri edifizii fatti ne' tempi suoi o poco innanzi, de' quali non si sa similmente chi furono i maestri, e poi di quelli che furono fatti nei medesimi tempi, de' quali si sa chi furono gli architettori, o per riconoscersi benissimo la maniera d'essi edifizii, o per averne notizia avuto mediante gli scritti e memorie lasciate da loro nelle opere fatte. Né sarà ciò fuor di proposito, perché sebbene non sono né di bella né di buona maniera, ma solamente grandissimi e magnifici, sono degni nondimento di qualche considerazione. Furono fatti dunque al tempo di Lapo e d'Arnolfo suo figliuolo molti edifizii d'importanza in Italia e fuori, de' quali non ho potuto trovare io gli architettori, come sono la Badia di Monreale in Sicilia, il Piscopio di Napoli, la Certosa di Pavia, il Duomo di Milano, S. Piero e S. Petronio di Bologna, et altri molti che per tutta Italia fatti con incredibile spesa si veggiono; i quali tutti edificii avendo io veduti e considerati, e così molte sculture di que' tempi, e particolarmente in Ravenna, e non avendo trovato mai non che alcuna memoria de' maestri, ma né anche molte volte in che millesimo fussero fatte, non posso se non maravigliarmi della goffezza e poco desiderio di gloria degl'uomini di quell'età. Ma tornando a nostro proposito, dopo le fabriche dette di sopra, cominciarono pure a nascere alcuni di spirito più elevato, i quali se non trovarono, cercarono almeno di trovar qualche cosa di buono. Il primo fu Buono, del quale non so né la patria né il cognome, perché egli stesso, facendo memoria di sé in alcuna delle sue opere, non pose altro che semplicemente il nome. Costui, il quale fu scultore et architetto, fece primieramente in Ravenna molti palazzi e chiese, et alcune sculture negli anni di nostra salute 1152, per le quali cose venuto in cognizione, fu chiamato a Napoli dove fondò, sebbene furono finiti da altri come si dirà, Castel Capoano e Castel dell'Uovo, e dopo, al tempo di Domenico Morosini doge di Vinezia, fondò il campanile di S. Marco con molta considerazione e giudizio, avendo così bene fatto palificare e fondare la platea di quella torre, ch'ella non ha mai mosso un pelo, come aver fatto molti edifizii fabricati in quella città inanzi a lui si è veduto e si vede. E da lui forse appararono i Viniziani a fondare, nella maniera che oggi fanno, i bellissimi e ricchissimi edifizii che ogni giorno si fanno magnificamente in quella nobilissima città. Bene è vero che non ha questa torre altro di buono in sé, né maniera né ornamento, né insomma cosa alcuna che sia molto lodevole. Fu finita sotto Anastasio Quarto e Adriano Quarto pontefici l'anno 1154. Fu similmente architettura di Buono la chiesa di S. Andrea di Pistoia; e sua scultura un architrave di marmo che è sopra la porta, pieno di figure fatte alla maniera de' Gotti, nel quale architrave è il suo nome intagliato, e in che tempo fu da lui fatta quell'opera, che fu l'anno 1166. Chiamato poi a Firenze, diede il disegno di ringrandire, come si fece, la chiesa di Santa Maria Maggiore, la quale era allora fuor della città, et avuta in venerazione, per averla sagrata papa Pelagio molti anni inanzi, e per esser, quanto alla grandezza e maniera, assai ragionevole corpo di chiesa.

Condotto poi Buono dagli Aretini nella loro città, fece l'abitazione vecchia de' Signori d'Arezzo, cioè un palazzo della maniera de' Gotti, et appresso a quello una torre per la campana, il quale edificio, che di quella maniera era ragionevole, fu gettato in terra per essere dirimpetto e assai vicino alla fortezza di quella città, l'anno 1533. Pigliando poi l'arte alquanto di miglioramento per l'opere d'un Guglielmo di nazione (credo io) tedesco, furono fatti alcuni edifizii di grandissima spesa e d'un poco migliore maniera: per che questo Guglielmo, secondo che si dice, l'anno 1174 insieme con Bonanno scultore, fondò in Pisa il campanile del Duomo, dove sono alcune parole intagliate che dicono: A.D.M.C.

74 campanile hoc fuit fundatum Mense Aug. Ma non avendo questi due architetti molta pratica di fondare in Pisa, e perciò non palificando la platea come dovevano, prima che fussero al mezzo di quella fabrica, ella inchinò da un lato, e piegò in sul più debole, di maniera che il detto campanile pende sei braccia e mezzo fuor del diritto suo, secondo che da quella banda calò il fondamento; e sebbene ciò nel disotto è poco, e all'altezza si dimostra assai, con fare star altrui maravigliato, come possa essere che non sia rovinato e non abbia gettato peli, la ragione è perché questo edifizio è tondo fuori e dentro, e fatto a guisa d'un pozzo vòto e collegato di maniera con le pietre, che è quasi impossibile che rovini; e massimamente aiutato dai fondamenti, che hanno fuor della terra un getto di tre braccia, fatto, come si vede, dopo la calata del campanile per sostentamento di quello. Credo bene che non sarebbe oggi, se fusse stato quadro, in piedi, perciò che i cantoni delle inquadrature l'arebbono, come spesso si vede avvenire, di maniera spinto in fuori, che sarebbe rovinato. E se la Carisenda torre in Bologna è quadra, pende e non rovina, ciò adiviene perché ella è sottile e non pende tanto, non aggravata da tanto peso a un gran pezzo, quanto questo campanile; il quale è lodato, non perché abbia in sé disegno o bella maniera, ma solamente per la sua stravaganza, non parendo a chi lo vede che egli possa in niuna guisa sostenersi. E il sopra detto Bonanno, mentre si faceva il detto campanile, fece l'anno 1180 la porta reale di bronzo del detto Duomo di Pisa, nella quale si veggiono queste lettere: Ego Bonannus Pis. mea arte hanc portam uno anno perfeci tempore Benedicti operarii. Nelle muraglie poi, che in Roma furono fatte di spoglie antiche a S. Ianni Laterano sotto Luzio Terzo et Urbano Terzo, pontifici, quando da esso Urbano fu coronato Federigo imperatore, si vede che l'arte andava seguitando di migliorare, perché certi tempietti e capelline fatti, come s'è detto, di spoglie, hanno assai ragionevole disegno et alcune cose in sé degne di considerazione, e fra l'altre questa, che le volte furon fatte, per non caricare le spalle di quelli edifizii, di cannoni piccoli, e con certi partimenti di stucchi, secondo que' tempi assai lodevoli; e nelle cornici et altri membri si vede che gl'artefici si andavano aiutando per trovare il buono. Fece poi fare Innocenzio Terzo in sul monte Vaticano due palazzi, per quel che si è potuto vedere, di assai buona maniera; ma perché da altri papi furono rovinati, e particolarmente da Nicola Quinto che disfece e rifece la maggior parte del palazzo, non ne dirò altro, se non che si vede una parte d'essi nel torrione tondo, e parte nella sagrestia vecchia di S. Piero. Questo Innocenzio III, il quale sedette anni diciannove e si dilettò molto di fabricare, fece in Roma molti edifizii, e particolarmente col disegno di Marchionne aretino, architetto e scultore, la torre de' Conti, così nominata dal cognome di lui che era di quella famiglia. Il medesimo Marchionne finì, l'anno che Innocenzio Terzo morì, la fabrica della Pieve d'Arezzo, e similmente il campanile, facendo di scultura nella facciata di detta chiesa tre ordini di colonne l'una sopra l'altra molto variatamente, non solo nella foggia de' capitegli e delle base, ma ancora nei fusi delle colonne, essendo fra esse alcune grosse alcune sottili, altre a due a due, altre a 4 a 4 ligate insieme. Parimente alcune sono avolte a guisa di vite, ed alcune fatte diventar figure che reggono, con diversi intagli. Vi fece ancora molti animali di diverse sorti, che reggono i pesi, col mezzo della schiena, di queste colonne, e tutti con le più strane e stravaganti invenzioni che si possino imaginare, e non pur fuori del buono ordine antico, ma quasi fuor d'ogni giusta e ragionevole proporzione. Ma con tutto ciò chi va bene considerando il tutto, vede che egli andò sforzandosi di far bene, e pensò per avventura averlo trovato in quel modo di fare e in quella capricciosa varietà. Fece il medesimo di scultura ne l'arco che è sopra la porta di detta chiesa, di maniera barbara, un Dio Padre con certi Angeli di mezzo rilievo assai grandi, e nell'arco intagliò i dodici mesi, ponendovi sotto il nome suo in lettere tonde come si costumava, et il millesimo, cioè l'anno MCCXVI. Dicesi che Marchionne fece in Roma per il medesimo papa Innocenzio Terzo, in borgo Vecchio, l'edifizio antico dello spedale e chiesa di S. Spirito in Sassia, dove si vede ancora qualche cosa del vecchio; et a' giorni nostri era in piedi la chiesa antica, quando fu rifatta alla moderna con maggiore ornamento e disegno da papa Paolo Terzo di casa Farnese.

Et in S. Maria Maggiore pur di Roma, fece la capella di marmo dove è il presepio di Gesù Cristo; in essa fu ritratto da lui papa Onorio Terzo di naturale, del quale anco fece la sepoltura, con ornamenti alquanto migliori e assai diversi dalla maniera che allora si usava per tutta Italia comunemente. Fece anco Marchionne in que' medesimi tempi la porta del fianco di S. Piero di Bologna, che veramente fu opera in que' tempi di grandissima fattura, per i molti intagli che in essa si veggiono, come leoni tondi che sostengono colonne, et uomini a uso di facchini, et altri animali che reggono pesi: e nell'arco di sopra fece di tondo rilievo i dodici mesi con varie fantasie, et ad ogni mese il suo segno celeste; la qua-le opera dovette in que' tempi essere tenuta maravigliosa.

Nei medesimi tempi essendo cominciata la religione de' frati minori di S. Francesco, la quale fu dal detto Innocenzio Terzo pontefice confermata l'anno 1206, crebbe di maniera non solo in Italia, ma in tutte l'altre parti del mondo, così la divozione come il numero de' frati, che non fu quasi alcuna città di conto, che non edificasse loro chiese e conventi di grandissima spesa, e ciascuna secondo il poter suo. Laonde, avendo frate Elia due anni inanzi la morte di S. Francesco edificato, mentr'esso Santo come generale era fuori a predicare et egli guardiano in Ascesi, una chiesa col titolo di Nostra Donna, morto che fu S. Francesco, concorrendo tutta la cristianità a visitare il corpo di S. Francesco, che in mor-te e in vita era stato conosciuto tanto amico di Dio, e facendo ogni uomo al santo luogo limosina secondo il poter suo, fu ordinato che la detta chiesa cominciata da frate Elia si facesse molto maggiore e più magnifica. Ma essendo carestia di buoni architettori, et avendo l'opera che si aveva da fare bisogno d'uno eccellente, avendosi a edificar sopra un colle altissimo, alle radici del quale cammina un torrente chiamato Tescio, fu condotto in Ascesi dopo molta considerazione, come migliore di quanti allora si ritrovavano, un maestro Jacopo tedesco, il quale considerato il sito et intesa la volontà de' padri, i quali fecero perciò in Ascesi un capitolo generale, disegnò un corpo di chiesa e convento bellissimo, facendo nel modello tre ordini, uno da farsi sotto terra, e gli altri per due chiese, una delle quali sul primo piano servisse per piazza con un portico intorno assai grande, l'altra per chiesa, e che dalla prima si salisse alla seconda per un ordine commodissimo di scale, le quali girassono intorno alla capella maggiore, inginocchiandosi in due pezzi per condurre più agiatamente alla seconda chiesa, alla quale diede forma d'un T, facendola cinque volte lunga quanto ell'è larga, e dividendo l'un vano dall'altro con pilastri grandi di pietra, sopra i quali poi girò archi gagliardissimi, e fra l'uno e l'altro le volte in crociera. Con sì fatto, dunque, modello si fece questa veramente grandissima fabrica, e si seguitò in tutte le parti, eccetto che nelle spalle di sopra che avevano a mettere in mezzo la tribuna e capella maggiore, e fare le volte a crociere, perché non le fecero come si è detto, ma in mezzo tondo a botte perché fussero più forti. Misero poi dinanzi alla capella maggiore della chiesa di sotto, l'altare, e sotto quello quando fu finito collocarono con solennissima traslazione il corpo di S. Francesco. E perché la propria sepoltura che serba il corpo del glorioso Santo è nella prima, cioè nella più bassa chiesa, dove non va mai nessuno e che ha le porte murate, intorno al detto altare sono grate di ferro grandissime con ricchi ornamenti di marmo e di musaico, che laggiù riguardano. È accompagnata questa muraglia dal-l'uno dei lati da due sagrestie e da un campanile altissimo, cioè cinque volte alto quanto egli è largo. Aveva sopra una piramide altissima a otto facce, ma fu levata perché minacciava rovina. La quale opera tutta fu condotta a fine nello spazio di quattro anni e non più, dall'ingegno di maestro Jacopo tedesco e dalla sollecitudine di frate Elia, dopo la morte del quale, perché tanta macchina per alcun tempo mai non rovinasse, furono fatti intorno alla chiesa di sotto 12 gagliardissimi torrioni, et in ciascun d'essi una scala a chiocciola che saglie da terra insino in cima. E col tempo poi vi sono state fatte molte capelle et altri ricchissimi ornamenti, dei quali non fa bisogno altro raccontare, essendo questo intorno a ciò per ora a bastanza, e massimamente potendo ognuno vedere quanto a questo principio di maestro Jacopo abbiano aggiunto utilità, ornamento, e bellezza molti Sommi Pontefici, Cardinali, Principi, et altri gran personaggi di tutta Europa.

Ora per tornare a maestro Jacopo, egli mediante questa opera si acquistò tanta fama per tutta Italia, che fu da chi governava allora la città di Firenze chiamato, e poi ricevuto quanto più non si può dire volentieri, sebbene, secondo l'u-so che hanno i Fiorentini, e più avevano anticamente, d'abbreviare i nomi, non Jacopo, ma Lapo lo chiamarono in tutto il tempo di sua vita, perché abitò sempre con tutta la sua famiglia questa città. E sebbene andò in diversi tempi a fare molti edifizii per Toscana, come fu in Casentino il palazzo di Poppi a quel Conte, che aveva avuto per moglie la bella Gualdrada et in dote il Casentino, agl'Aretini il Vescovado, et il Palazzo Vecchio de' Signori di Pietramala, fu nondimeno sempre la sua stanza in Firenze, dove fondate l'anno 1218 le pile del ponte alla Carraia, che allora si chiamò il ponte Nuovo, le diede finite in due anni, et in poco tempo poi fu fatto il rimanente di legname come allora si costumava. E l'anno 1221 diede il disegno e fu cominciata con ordine suo la chiesa di S. Salvadore del Vescovado, e quella di

S. Michele a piazza Padella, dove sono alcune sculture della maniera di quei tempi. Poi, dato il disegno di scolare l'ac-que della città, fatto alzare la piazza S. Giovanni, e fatto al tempo di messer Rubaconte da Mandella milanese il ponte che dal medesimo ritiene il nome, e trovato l'utilissimo modo di lastricare le strade, che prima si mattonavano, fece il modello del palagio oggi del Podestà, che allora si fabricò per gli Anziani: e mandato finalmente il modello d'una sepoltura in Sicilia alla Badia di Monreale per Federigo imperadore, e d'ordine di Manfredi, si morì, lasciando Arnolfo suo figliuolo erede non meno della virtù che delle facultà paterne.

Il quale Arnolfo, dalla cui virtù non manco ebbe miglioramento l'architettura che da Cimabue la pittura avuto s'a-vesse, essendo nato l'anno 1232, era, quando il padre morì, di trenta anni et in grandissimo credito; perciò che avendo imparato non solo dal padre tutto quello che sapeva, ma appresso Cimabue dato opera al disegno per servirsene anco nella scultura, era intanto tenuto il migliore architetto di Toscana, che non pure fondarono i Fiorentini col parere suo l'ultimo cerchio delle mura della loro città l'anno 1284 e fecero secondo il disegno di lui, di mattoni e con un semplice tetto di sopra, la loggia et i pilastri d'Or S. Michele dove si vendeva il grano, ma deliberarono per suo consiglio il medesimo anno che rovinò il poggio de' Magnuoli dalla costa di S. Giorgio sopra S. Lucia nella via de' Bardi, mediante un decreto publico, che in detto luogo non si murasse più, né si facesse alcuno edificio già mai, atteso che per i relassi del-le pietre che hanno sotto gemiti d'acque, sarebbe sempre pericoloso qualunque edifizio vi si facesse: la qual cosa esser vera si è veduto a' giorni nostri, con rovina di molti edifizii e magnifiche case di gentiluomini. L'anno poi 1285 fondò la loggia a piazza dei Priori, e fece la capella maggiore, e le due che la mettono in mezzo della Badia di Firenze, rinovando la chiesa et il coro, che prima molto minore aveva fatto fare il conte Ugo fondatore di quella Badia, e facendo per lo cardinale Giovanni degli Orsini legato del Papa in Toscana, il campanile di detta chiesa, che fu secondo l'opere di que' tempi lodato assai, come che non avesse il suo finimento di macigni se non poi l'anno 1330.

Dopo ciò fu fondata col suo disegno l'anno 1294 la chiesa di S. Croce, dove stanno i frati minori, la quale condusse Arnolfo tanto grande nella navata del mezzo e nelle due minori, che con molto giudizio, non potendo fare sotto 'l tetto le volte per lo troppo gran spazio, fece fare archi da pilastro a pilastro, e sopra a quelli i tetti a frontespizio per mandar via l'acque piovane con docce di pietra murata sopra detti archi, dando loro tanto pendio, che fussero sicuri, come sono, i tetti dal pericolo dell'infradiciare; la qual cosa quanto fu nuova et ingegnosa, tanto fu utile e degna d'esser oggi considerata. Diede poi il disegno dei primi chiostri del convento vecchio di quella chiesa; e poco appresso fece levare d'in-torno al tempio di S. Giovanni dalla banda di fuori, tutte l'arche e sepolture che vi erano di marmo e di macigno, e metterne parte dietro al campanile nella facciata della calonaca allato alla Compagnia di S. Zanobi; e rincrostar poi di marmi neri di Prato tutte le otto facciate di fuori di detto S. Giovanni, levandone i macigni che prima erano fra que' marmi antichi.

Volendo in questo mentre i Fiorentini murare in Valdarno di sopra il castello di S. Giovanni e Castelfranco, per commodo della città e delle vettovaglie, mediante i mercati, ne fece Arnolfo il disegno l'anno 1295, e sotisfece di maniera così in questa, come aveva fatto nell'altre cose, che fu fatto cittadino fiorentino.

Dopo queste cose deliberando i Fiorentini, come racconta Giovanni Villani nelle sue Istorie, di fare una chiesa principale nella loro città, e farla tale, che per grandezza e magnificenza, non si potesse desiderare né maggiore né più bella dall'industria e potere degli uomini, fece Arnolfo il disegno et il modello del non mai abbastanza lodato tempio di S.

Maria del Fiore, ordinando che s'incrostasse di fuori tutto di marmi lavorati, con tante cornici, pilastri, colonne, intagli di fogliami, figure, et altre cose, con quante egli oggi si vede condotta, se non interamente, a una gran parte almeno del-la sua perfezzione. E quello che in ciò fu sopra tutte l'altre cose maraviglioso, fu questo, che, incorporando oltre S. Reparata altre piccole chiese e case che e' erano intorno, nel fare la pianta, che è bellissima, fece con tanta diligenza e giudizio fare i fondamenti di sì gran fabrica larghi e profondi, riempiendogli di buona materia, cioè di ghiaia e calcina, e di pietre grosse in fondo, là dove ancora la piazza si chiama lungo i fondamenti, che eglino hanno benissimo potuto, come oggi si vede, reggere il peso della gran macchina della cupola, che Filippo di ser Brunellesco le voltò sopra. Il principio dei quali fondamenti, e di tanto tempio, fu con molta solennità celebrato: perciò che il giorno della Natività di Nostra Donna del 1298 fu gettata la prima pietra dal cardinale legato del Papa, in presenza non pure di molti Vescovi e di tutto il clero, ma del Podestà ancora, Capitani, Priori, et altri magistrati della città, anzi di tutto il popolo di Firenze, chiamandola S. Maria del Fiore. E perché si stimò le spese di questa fabrica dover essere, come poi sono state, grandissime, fu posta una gabella alla camera del Comune di quattro danari per lira di tutto quello che si mettesse a uscita, e due sol-di per testa l'anno; senzaché il Papa et il legato concedettono grandissime indulgenze a coloro che per ciò le porgessino limosine.

Non tacerò ancora, che oltre ai fondamenti larghissimi e profondi quindici braccia, furono con molta considerazione fatti a ogni angolo dell'otto facce quegli sproni di muraglie, perciò che essi furono poi quelli che assicurarono l'animo del Brunellesco a porvi sopra molto maggior peso di quello che forse Arnolfo aveva pensato di porvi.

Dicesi, che cominciandosi di marmo le due prime porte de' fianchi di S. Maria del Fiore, fece Arnolfo intagliare in un fregio alcune foglie di fico, che erano l'arme sua e di maestro Lapo suo padre, e che perciò si può credere, che da costui avesse origine la famiglia dei Lapi, oggi nobile in Fiorenza. Altri dicono similmente, che dei discendenti d'Ar-nolfo discese Filippo di ser Brunellesco. Ma lasciando questo, perché altri credono che i Lapi siano venuti da Figaruolo, castello in su le foci del Po, e tornando al nostro Arnolfo, dico che per la grandezza di quest'opera egli merita infinita lode e nome eterno, avendola massimamente fatta incrostare di fuori tutta di marmo di più colori, e dentro di pietra forte, e fatte insino le minime cantonate di quella stessa pietra. Ma perché ognuno sappia la grandezza a punto di questa maravigliosa fabrica, dico che dalla porta insino all'ultimo della capella di S. Zanobi, è la lunghezza di braccia dugentosessanta; è larga nelle crociere centosessantasei, nelle tre navi braccia sessantasei; la nave sola del mezzo è alta braccia settantadue, e l'altre due navi minori braccia quarantotto; il circuito di fuori di tutta la chiesa è braccia 1280; la cupola è da terra insino al piano della lanterna braccia centocinquantaquattro; la lanterna senza la palla è alta braccia trentasei, la palla alta braccia quattro, la croce alta braccia otto; tutta la cupola da terra insino alla sommità della croce è braccia dugentodue.

Ma tornando ad Arnolfo, dico che essendo tenuto, come era, eccellente, s'era acquistato tanta fede, che niuna cosa d'importanza senza il suo consiglio si deliberava; onde, il medesimo anno essendosi finito di fondar dal comune di Firenze l'ultimo cerchio delle mura della città, come si disse di sopra essersi già cominciato, e così i torrioni delle porte, ed in gran parte tirati inanzi, diede al palazzo de' Signori principio, e disegno, a simiglianza di quello che in Casentino aveva fatto Lapo suo padre ai Conti di Poppi. Ma non potette già, come che magnifico e grande lo disegnasse, dargli quella perfezzione che l'arte ed il giudizio suo richiedevano; perciò che essendo state disfatte e mandate per terra le case degli Uberti, rubelli del popolo fiorentino e Ghibellini, e fattone piazza, potette tanto la sciocca caparbietà d'alcuni, che non ebbe forza Arnolfo, per molte ragioni che allegasse, di far sì, che gli fusse conceduto almeno mettere il palazzo in isquadra, per non aver voluto chi governava, che in modo nessuno il palazzo avesse i fondamenti in sul terreno degli Uberti rebelli; e piuttosto comportarono che si gettasse per terra la navata di verso tramontana di S. Piero Scheraggio, che lasciarlo fare in mezzo della piazza con le sue misure: oltre che volsono ancora che si unisse et accomodasse nel palazzo la torre de' Foraboschi chiamata la torre della Vacca, alta cinquanta braccia, per uso della campana grossa, et insieme con essa alcune case comperate dal Comune per cotale edifizio. Per le quali cagioni niuno maravigliare si dee, se il fondamento del palazzo è bieco e fuor di squadra, essendo stato forza, per accomodar la torre nel mezzo e renderla più forte, fasciarla intorno colle mura del palazzo, le quali da Giorgio Vasari pittore e architetto essendo state scoperte l'anno 1561 per rassettare il detto palazzo al tempo del duca Cosimo, sono state trovate bonissime.

Avendo dunque Arnolfo ripiena la detta torre di buona materia, ad altri maestri fu poi facile farvi sopra il campanile altissimo che oggi vi si vede, non avendo egli in termine di due anni finito se non il palazzo, il quale poi di tempo in tempo ha ricevuto que' miglioramenti che lo fanno esser oggi di quella grandezza e maestà che si vede.

Dopo le quali tutte cose e altre molte che fece Arnolfo, non meno commode e utili che belle, essendo d'anni settanta, morì nel 1300 nel tempo a punto che Giovanni Villani cominciò a scrivere l'istorie universali de' tempi suoi. E perché lasciò non pure fondata S. Maria del Fiore, ma voltate con sua molta gloria le tre principali tribune di quella, che sono sotto la cupola, meritò che di sé fusse fatto memoria in sul canto della chiesa dirimpetto al campanile, con questi versi intagliati in marmo con lettere tonde:

Annis millenis centum bis octonogenis venit legatus Roma bonitate dotatus, qui lapidem fixit fundo simul et benedixit, praesule Francisco gestante pontificatum. Istud ab Arnolfo templum fuit aedificatum. Hoc opus insigne decorans Florentia digne Reginae caeli construxit mente fideli, quam tu, Virgo pia, semper defende Maria.

Di questo Arnolfo avemo scritta, con quella brevità che si è potuta maggiore, la vita, perché sebbene l'opere sue non s'appressano a gran pezzo alla perfezzione delle case d'oggi, egli merita nondimeno essere con amorevole memoria celebrato, avendo egli fra tante tenebre mostrato a quelli che sono stati dopo sé, la via di caminare alla perfezzione.

Il ritratto d'Arnolfo si vede di mano di Giotto in S. Croce a lato alla capella maggiore, dove i frati piangono la morte di S. Francesco, nel principio della storia in uno d'i due uomini che parlano insieme. Et il ritratto della chiesa di S. Maria del Fiore, cioè del di fuori con la cupola, si vede di mano di Simon sanese nel capitolo di S. Maria Novella, ricavato dal proprio di legname che fece Arnolfo. Nel che si considera, che egli aveva pensato di voltare imediate la tribuna in su le spalle al finimento della prima cornice: là dove Filippo di ser Brunelesco per levarle carico e farla più svelta, vi aggiunse prima che cominciasse a voltarla, tutta quell'altezza dove oggi sono gl'occhi: la qual cosa sarebbe ancora più chiara di quello che ella è, se la poca cura e diligenza di chi ha governato l'Opera di S. Maria del Fiore negli anni addietro, non avesse lasciato andar male l'istesso modello che fece Arnolfo, e dipoi quello del Brunellesco e degli altri.

Cominciò il detto Arnolfo in Santa Maria Maggiore di Roma la sepoltura di papa Onorio Terzo di casa Savella, la quale lasciò imperfetta con il ritratto del detto Papa, il quale con il suo disegno fu posto poi nella cappella maggiore di musaico in San Paolo di Roma, con il ritratto di Giovanni Gaetano abate di quel monasterio.

E la cappella di marmo, dove è il presepio di Jesù Cristo, fu delle ultime sculture di marmo che facesse mai Arnolfo, che la fece ad istanzia di Pandolfo Ipotecorvo l'anno dodici, come ne fa fede un epitaffio che è nella facciata allato [di] detta cappella; e parimente la cappella e sepolcro di papa Bonifazio Ottavo in San Piero di Roma, dove è scolpito il medesimo nome d'Arnolfo che la lavorò.

IL FINE DELLA VITA D'ARNOLFO

VITA DI NICOLA E GIOVANNI PISANI

SCULTORI ET ARCHITETTI

Avendo noi ragionato del disegno e della pittura nella vita di Cimabue, e dell'architettura in quella d'Arnolfo Lapi, si tratterà in questa di Nicola e Giovanni Pisani della scultura, e delle fabriche ancora, che essi fecero di grandissima importanza; perché certo non solo come grandi e magnifiche, ma ancora come assai bene intese meritano l'opere di scoltura et architettura di costoro d'esser celebrate, avendo essi in gran parte levata via nel lavorare i marmi e nel fabricar quella vecchia maniera greca goffa e sproporzionata, et avendo avuto ancora migliore invenzione nelle storie, e dato alle figure migliore attitudine.

Trovandosi dunque Nicola Pisano sotto alcuni scultori greci che lavorarono le figure e gl'altri ornamenti d'intaglio del Duomo di Pisa e del tempio di S. Giovanni, e essendo fra molte spoglie di marmi, stati condotti dall'armata de' Pisani, alcuni pili antichi che sono oggi nel Camposanto di quella città, uno ve n'avea fra gl'altri bellissimo, nel quale era sculpita la caccia di Meleacro e del porco Calidonio con bellissima maniera; perché così gl'ignudi come i vestiti erano lavorati con molta pratica e con perfettissimo disegno. Questo pilo, essendo per la sua bellezza stato posto dai Pisani nella facciata del Duomo, dirimpetto a S. Rocco allato alla porta del fianco principale, servì per lo corpo della madre della contessa Matelda, se però sono vere queste parole che intagliate nel marmo si leggono:

Anno Domini M.CXVI. IXa Kalendas Augusti obiit Domina Matthilda felicis memoriae comitissa, quae pro anima genitricis suae Dominae Beatricis comitissae venerabilis in hac tumba honorabili quiescentis in multis partibus [mirifice] hanc dotavit ecclesiam. Quarum animae requiescant in pace. E poi: Anno Domini MCCCIII. sub dignissimo Operario D. Burgundio Tadi occasione graduum fiendorum per ipsum circa ecclesiam supradictam tumba superius notata bis translata fuit, nunc de sedibus primis in ecclesiam, nunc de ecclesia in hunc locum, ut cernitis, [excellentem].

Nicola, considerando la bontà di quest'opera e piacendogli fortemente, mise tanto studio e diligenza per imitare quella maniera, et alcune altre buone sculture che erano in quegl'altri pili antichi, che fu giudicato, non passò molto, il miglior scultore de' tempi suoi, non essendo stato in Toscana in que' tempi dopo Arnolfo in pregio niuno altro scultore, che Fuccio architetto e scultore fiorentino, il quale fece S. Maria sopra Arno in Firenze l'anno 1229 mettendovi sopra una porta il nome suo; e nella chiesa di S. Francesco d'Ascesi di marmo la sepoltura della regina di Cipri con molte figure, et il ritratto di lei particolarmente a sedere sopra un leone, per dimostrare la fortezza dell'animo di lei, la quale do-po la morte sua lasciò gran numero di danari, perché si desse a quella fabrica fine.

Nicola, dunque, essendosi fatto conoscere per molto miglior maestro che Fuccio non era, fu chiamato a Bologna l'anno 1225, essendo morto S. Domenico Calagora primo istitutore dell'ordine de' frati Predicatori, per fare di marmo la sepoltura del detto Santo; onde convenuto con chi aveva di ciò la cura, le fece piena di figure in quel modo ch'ella ancor oggi si vede, e la diede finita l'anno 1231 con molta sua lode, essendo tenuta cosa singulare, e la migliore di quante opere infino allora fussero di scultura state lavorate. Fece similmente il modello di quella chiesa e d'una gran parte del convento.

Dopo, ritornato Nicola in Toscana, trovò che Fuccio s'era partito di Firenze, e andato in que' giorni, che da Onorio fu coronato Federigo imperadore, a Roma, e di Roma con Federigo a Napoli, dove finì il castello di Capoana, oggi detta la Vicherìa, dove sono tutti i tribunali di quel regno, e così Castel dell'Uovo, e dove fondò similmente le torri, fece le porte sopra il fiume del Volturno alla città di Capua, un barco cinto di mura per l'uccellagioni presso a Gravina, et a Melfi un altro per le cacce di verno, oltre a molte altre cose che per brevità non si raccontano.

Nicola, intanto, trattenendosi in Firenze, andava non solo esercitandosi nella scultura, ma nell'architettura ancora, mediante le fabriche che s'andavano con un poco di buon disegno facendo per tutta Italia, e particolarmente in Toscana. Onde si adoperò non poco nella fabrica della Badia di Settimo, non stata finita dagli esecutori del conte Ugo di Andeborgo, come l'altre sei, secondo che si disse di sopra. E sebbene si legge nel campanile di detta Badia in un epitaffio di marmo: Gugliel. me fecit, si conosce nondimeno alla maniera, che si governava col consiglio di Nicola; il quale in que' medesimi tempi fece in Pisa il Palazzo degli Anziani vecchio, oggi stato disfatto dal duca Cosimo per fare nel medesimo luogo, servendosi d'una parte del vecchio, il magnifico palazzo e convento della nuova religione de' Cavaglieri di S. Stefano, col disegno e modello di Giorgio Vasari aretino pittore et architettore, il quale si è accomodato come ha potuto il meglio, sopra quella muraglia vecchia, riducendola alla moderna.

Fece similmente Nicola in Pisa molti altri palazzi e chiese, e fu il primo, essendosi smarrito il buon modo di fabricar, che mise in uso fondar gli edifizii a Pisa in sui pilastri, e sopra quelli voltare archi, avendo prima palificato sotto i detti pilastri; perché facendosi altrimenti, rotto il primo piano sodo del fondamento, le muraglie calavano sempre; dove il palificare rende sicurissimo l'edifizio, sì come la sperienza ne dimostra. Col suo disegno fu fatta ancora la chiesa di S. Michele in borgo de' monaci di Camaldoli.

Ma la più bella, la più ingegnosa e più capricciosa architettura che facesse mai Nicola, fu il campanile di S. Nicola di Pisa, dove stanno frati di S. Agostino: perciò che egli è di fuori a otto facce e dentro tondo, con scale che girando a chiocciola vanno insino in cima, e lasciano dentro il vano del mezzo libero et a guisa di pozzo, e sopra ogni quattro scaglioni sono colonne che hanno gli archi zoppi, e che girano intorno intorno; onde posando la salita della volta sopra i detti archi, si va in modo salendo insino in cima, che chi è in terra vede sempre tutti quelli che sagliono, coloro che sagliono veggion coloro che sono in terra, e quei che sono a mezzo veggono gli uni e gli altri, cioè quei che sono di sopra e quei che sono a basso. La quale capricciosa invenzione fu poi con miglior modo e più giuste misure e con più ornamento messa in opera da Bramante architetto a Roma in Belvedere per papa Giulio Secondo, e da Antonio da S. Gallo nel pozzo che è a Orvieto d'ordine di papa Clemente Settimo, come si dirà quando fia tempo.

Ma tornando a Nicola, il quale fu non meno eccellente scultore che architettore, egli fece nella facciata della chiesa di S. Martino in Lucca, sotto il portico che è sopra la porta minore a man manca entrando in chiesa, dove si vede un Cristo deposto di croce, una storia di marmo di mezzo rilievo tutta piena di figure fatte con molta diligenza, avendo traforato il marmo e finito il tutto di maniera, che diede speranza a coloro che prima facevano l'arte con stento grandissimo, che tosto doveva venire chi le porgerebbe con più facilità migliore aiuto.

Il medesimo Nicola diede l'anno 1240 il disegno della chiesa di S. Jacopo di Pistoia, e vi mise a lavorare di musaico alcuni maestri toscani i quali feciono la volta della nicchia, la quale, ancor che in que' tempi fusse tenuta così dificile e di molta spesa, noi più tosto muove oggi a riso et a compassione che a maraviglia; e tanto più che cotale disordine, il quale procedeva dal poco disegno, era non solo in Toscana, ma per tutta Italia, dove molte fabriche et altre cose che si lavoravano senza modo e senza disegno, fanno conoscere non meno la povertà degli ingegni loro, che le smisurate ricchezze male spese dagli uomini di quei tempi, per non avere avuto maestri che con buona maniera conducessino loro alcuna cosa che facessero.

Nicola, dunque, per l'opere che faceva di scultura e d'architettura andava sempre acquistando miglior nome, che non faccevano gli scultori et architetti che allora lavoravano in Romagna; come si può vedere in S. Ipolito e S. Giovanni di Faenza, nel Duomo di Ravenna, in S. Francesco, e nelle case de' Traversari e nella chiesa di Porto, et in Arimini nell'a-bitazione del Palazzo Publico, nelle case de' Malatesti, et in altre fabriche, le quali sono molto peggiori che gl'edifizii vecchi fatti ne' medesimi tempi in Toscana. E quello che si è detto di Romagna, si può dire anco con verità d'una parte di Lombardia. Veggiasi il Duomo di Ferrara e l'altre fabriche fatte dal marchese Azzo, e si conoscerà così essere il ve-ro, e quanto siano differenti dal Santo di Padova, fatto col modello di Nicola, e dalla chiesa de' frati minori in Venezia, fabriche amendue magnifiche et onorate.

Molti nel tempo di Nicola, mossi da lodevole invidia, si missero con più studio alla scultura che per avanti fatto non avevano, e particolarmente in Milano, dove concorsero alla fabrica del Duomo molti lombardi e tedeschi, che poi si sparsero per Italia per le discordie che nacquero fra i Milanesi e Federigo imperatore. E così cominciando questi artefici a gareggiare fra loro, così nei marmi come nelle fabriche, trovarono qualche poco di buono.

Il medesimo accadde in Firenze, poi che furono vedute l'opere d'Arnolfo e di Nicola, il quale, mentre che si fabrica-va col suo disegno in su la piazza di S. Giovanni la chiesetta della Misericordia, vi fece di sua mano in marmo una Nostra Donna, un S. Domenico e un altro Santo che la mettono in mezzo, sì come si può anco veder nella facciata di fuori di detta chiesa.

Avendo al tempo di Nicola cominciato i Fiorentini a gettare per terra molte torri già state fatte di maniera barbara per tutta la città, perché meno venissero i popoli, mediante quelle, offesi nelle zuffe che spesso fra Guelfi e Ghibellini si facevano, o perché fusse maggior sicurtà del pubblico, li pareva che dovesse esser molto difficile il rovinare la torre del Guardamorto, la quale era in su la piazza di S. Giovanni, per avere fatto le mura così gran presa, che non se ne poteva levare con i picconi, e tanto più essendo altissima; per che facendo Nicola tagliar la torre da' piedi da uno de' lati, e fermatala con puntelli corti un braccio e mezzo, e poi dato lor fuoco, consumati che furono i puntelli, rovinò e si disfece da sé quasi tutta: il che fu tenuto cosa tanto ingegnosa et utile per cotali affari, che è poi passata di maniera in uso, che quando bisogna, con questo facilissimo modo si rovina in poco tempo ogni edifizio.

Si trovò Nicola alla prima fondazione del Duomo di Siena, e disegnò il tempio di S. Giovanni nella medesima città; poi tornato in Firenze l'anno medesimo che tornarono i Guelfi, disegnò la chiesa di S. Trinita, et il monasterio delle donne di Faenza oggi rovinato per fare la Cittadella. Essendo poi richiamato a Napoli, per non lasciar le faccende di Toscana, vi mandò Maglione suo creato, scultore et architetto, il quale fece poi al tempo di Currado la chiesa di S. Lorenzo di Napoli, finì parte del Piscopio, e vi fece alcune sepolture, nelle quali immitò forte la maniera di Nicola suo maestro.

Nicola, intanto, essendo chiamato dai Volterrani l'anno 1254 che vennono sotto i Fiorentini, perché accrescesse il Duomo loro che era piccolo, egli lo ridusse, ancor che storto molto, a miglior forma e lo fece più magnifico che non era prima. Poi ritornato finalmente a Pisa, fece il pergamo di S. Giovanni di marmo, ponendovi ogni diligenza per lasciare di sé memoria alla patria; e fra l'altre cose intagliando in essa il Giudicio Universale, vi fece molte figure, se non con perfetto disegno, almeno con pacienza e diligenza infinita, come si può vedere; e perché gli parve, come era vero, aver fatto opera degna di lode, v'intagliò a' piè questi versi:

Anno milleno bis centum bisque trideno hoc opus insigne sculpsit Nicola Pisanus.

I Sanesi mossi dalla fama di quest'opera, che piacque molto non solo a' Pisani ma a chiunque la vide, allogarono a Nicola il pergamo del loro Duomo, dove si canta l'Evangelio, essendo pretore Guglielmo Mariscotti: nel quale fece Ni-cola molte storie di Gesù Cristo con molta sua lode, per le figure che vi sono lavorate e con molta difficultà spiccate intorno intorno dal marmo.

Fece similmente Nicola il disegno della chiesa e convento di S. Domenico d'Arezzo ai signori di Pietramala che lo edificarono, et ai preghi del vescovo degli Ubertini restaurò la Pieve di Cortona, e fondò la chiesa di S. Margherita pe' frati di S. Francesco in sul più alto luogo di quella città.

Onde crescendo per tante opere sempre più la fama di Nicola, fu l'anno 1267 chiamato da papa Clemente Quarto a Viterbo, dove, oltre a molte altre cose, restaurò la chiesa e convento de' frati Predicatori. Da Viterbo andò a Napoli al re Carlo Primo, il quale avendo rotto e morto nel pian di Tagliacozzo Curradino, fece far in quel luogo una chiesa e Badia ricchissima, e sepellire in essa l'infinito numero de' corpi morti in quella giornata, ordinando appresso che da molti monaci fusse giorno e notte pregato per l'anime loro. Nella qual fabrica restò in modo sodisfatto il re Carlo dell'opera di Nicola, che l'onorò e premiò grandemente.

Da Napoli tornando in Toscana si fermò Nicola alla fabbrica di S. Maria d'Orvieto, e lavorandovi in compagnia d'alcuni tedeschi, vi fece di marmo per la facciata dinanzi di quella chiesa alcune figure tonde, e particolarmente due storie del Giudizio Universale, et in esse il Paradiso e l'Inferno. E sì come si forzò di fare nel Paradiso, della maggior bellezza che seppe, l'anime de' beati ne' loro corpi ritornate, così nell'Inferno fece le più strane forme di diavoli che si possino vedere, intentissime al tormentar l'anime dannate. Nella quale opera non che i tedeschi che quivi lavoravano, ma superò se stesso con molta sua lode. E perché vi fece gran numero di figure, e vi durò molta fatica, è stato, non che altro, lodato insino a' tempi nostri da chi non ha avuto più giudicio che tanto nella scultura.

Ebbe fra gli altri Nicola un figliuolo chiamato Giovanni, il quale perché seguitò sempre il padre e sotto la disciplina di lui attese alla scultura et all'architettura, in pochi anni divenne non solo eguale al padre, ma in alcuna cosa superiore; onde, essendo già vecchio Nicola, si ritirò in Pisa, e lì vivendo quietamente, lasciava d'ogni cosa il governo al figliuolo. Essendo dunque morto in Perugia papa Urbano Quarto fu mandato per Giovanni, il quale andato là fece la sepoltura di quel Pontefice, di marmo, la quale insieme con quella di papa Martino IIII fu poi gettata per terra, quando i Perugini aggrandirono il loro Vescovado, di modo che se ne veggiono solamente alcune reliquie sparse per la chiesa.

E avendo nel medesimo tempo i Perugini dal monte di Pacciano, lontano due miglia dalla città, condotto per canali di piombo un'acqua grossissima, mediante l'ingegno et industria d'un frate de' Silvestrini, fu dato a far a Giovanni Pisa-no tutti gli ornamenti della fonte, così di bronzo come di marmi, onde egli vi mise mano; fece tre ordini di vasi, due di marmo et uno di bronzo: il primo è posto sopra dodici gradi di scalee a dodici facce, l'altro sopra alcune colonne che posano in sul piano del primo vaso, cioè nel mezzo, et il terzo che è di bronzo, posa sopra tre figure et ha nel mezzo alcuni grifoni pur di bronzo che versano acqua da tutte le bande. E perché a Giovanni parve avere molto bene in quel lavoro operato, vi pose il nome suo. Circa l'anno 1560 essendo gli archi e i condotti di questa fonte, la quale costò centosessantamila ducati d'oro, guasti in gran parte e rovinati, Vincenzio Danti perugino scultore, e con sua non piccola lode, senza rifar gli archi, il che sarebbe stato di grandissima spesa, ricondusse molto ingegnosamente l'acqua alla detta fonte nel modo che era prima.

Finita quest'opera, desideroso Giovanni di riveder il padre vecchio et indisposto, si partì di Perugia per tornarsene a Pisa; ma passando per Firenze, gli fu forza fermarsi, per adoperarsi insieme con altri all'opera delle mulina d'Arno, che si facevano da S. Gregorio appresso la piazza de' Mozzi. Ma finalmente avendo avuto nuove che Nicola suo padre era morto, se n'andò a Pisa, dove fu per la virtù sua da tutta la città con molto onore ricevuto, rallegrandosi ognuno che do-po la perdita di Nicola, fusse di lui rimaso Giovanni erede così delle virtù, come delle facultà sue.

E venuta occasione di far pruova di lui, non fu punto ingannata la loro opinione; perché avendosi a fare alcune cose nella picciola ma ornatissima chiesa di Santa Maria della Spina, furono date a fare a Giovanni, il quale messovi mano, con l'aiuto di alcuni suoi giovani, condusse i molti ornamenti di quell'oratorio a quella perfezzione che oggi si vede; la quale opera, per quello che si può giudicare, dovette esser in que' tempi tenuta miracolosa, e tanto più avendovi fatto in una figura il ritratto di Nicola, di naturale, come seppe meglio. Veduto ciò i Pisani, i quali molto inanzi avevano avuto ragionamento e voglia di fare un luogo per le sepolture di tutti gli abitatori della città, così nobili come plebei, o per non empiere il Duomo di sepolture o per altra cagione, diedero cura a Giovanni di fare l'edifizio di Camposanto, che è in su la piazza del Duomo verso le mura. Onde egli con buon disegno e con molto giudizio, lo fece in quella maniera e con quelli ornamenti di marmo e di quella grandezza che si vede. E perché non si guardò a spesa nessuna, fu fatta la coperta di piombo; e fuori della porta principale si veggiono nel marmo intagliate queste parole: Anno Domini MCCLXXVIII. tempore Domini Federigi Archiepiscopi Pisani, et Domini Terlatti potestatis, Operario Orlando Sardella, Ioanne magistro aedificante.

Finita quest'opera, l'anno medesimo 1283 andò Giovanni a Napoli, dove per lo re Carlo fece il Castel Nuovo di Napoli; e per allargarsi e farlo più forte, fu forzato a rovinare molte case e chiese, e particolarmente un convento di frati di

S. Francesco, che poi fu rifatto maggiore e più magnifico assai che non era prima, lontano dal castello e col titolo di Santa Maria della Nuova.

Le quali fabriche cominciate e tirate assai bene inanzi, si partì Giovanni di Napoli per tornarsene in Toscana; ma giunto a Siena, senza esser lasciato passare più oltre, gli fu fatto fare il modello della facciata del Duomo di quella città, e poi con esso fu fatta la detta facciata ricca e magnifica molto.

L'anno poi 1286, fabbricandosi il Vescovado d'Arezzo col disegno di Margaritone architetto aretino, fu condotto da Siena in Arezzo Giovanni da Guglielmino Ubertini vescovo di quella città, dove fece di marmo la tavola dell'altar maggiore, tutta piena d'intagli di figure, di fogliami et altri ornamenti, scompartendo per tutta l'opera alcune cose di musaico sottile e smalti posti sopra piastre d'argento commesse nel marmo con molta diligenza. Nel mezzo è una Nostra Donna col Figliuolo in collo, e dall'uno de' lati S. Gregorio papa (il cui volto è il ritratto al naturale di papa Onorio Quarto) e dall'altro un S. Donato vescovo di quella città e protettore, il cui corpo con quelli di S. Antilia e d'altri Santi è sotto l'istesso altare riposto. E perché il detto altare è isolato, intorno e dagli lati sono storie picciole di basso rilievo della vita di S. Donato, et il finimento di tutta l'opera sono alcuni tabernacoli pieni di figure tonde di marmo, lavorate molto sottilmente. Nel petto della Madonna detta, è la forma d'un castone d'oro, dentro al quale, secondo che si dice, erano gioie di molta valuta, le quali sono state per le guerre, come si crede, dai soldati, - che non hanno molte volte né anco rispetto al Santissimo Sagramento - portate via insieme con alcune figurine tonde che erano in cima e intorno a quell'opera: nella quale tutta spesero gl'Aretini, secondo che si truova in alcuni ricordi, trentamilia fiorini d'oro. Né paia ciò gran fatto, perciò che ella fu in quel tempo cosa quanto potesse essere preziosa e rara; onde tornando Federigo Barbarossa da Roma dove si era incoronato, e passando per Arezzo molti anni dopo ch'era stata fatta, la lodò, anzi ammirò infinitamente; et invero a gran ragione, perché oltre all'altre cose, sono le comettiture di quel lavoro fatto d'infiniti pezzi, murate e commesse tanto bene, che tutta l'opra a chi non ha gran pratica delle cose dell'arte, la giudica agevolmente tutta d'un pezzo.

Fece Giovanni nella medesima chiesa la cappella degl'Ubertini, nobilissima famiglia e Signori, come sono ancora oggi e più già furono, di castella, con molti ornamenti di marmo, che oggi sono ricoperti da altri molti e grandi ornamenti di macigno, che in quel luogo col disegno di Giorgio Vasari l'anno 1535 furono posti, per sostenimento d'un organo che vi è sopra di straordinaria bontà e bellezza.

Fece similmente Giovanni Pisano il disegno della chiesa di S. Maria de' Servi, che oggi è rovinata insieme con molti palazzi delle più nobili famiglie della città, per le cagioni dette di sopra. Non tacerò che essendosi servito Giovanni, nel fare il detto altare di marmo, d'alcuni tedeschi, che più per imparare che per guadagnare s'acconciarono con esso lui, eglino divennero tali sotto la disciplina sua, che andati dopo quell'opera a Roma, servirono Bonifazio Ottavo in molte opere di scultura per San Piero, et in architettura quando fece Civita Castellana. Furono oltre ciò mandati dal medesimo a Santa Maria d'Orvieto, dove per quella facciata fecero molte figure di marmo, che secondo que' tempi furono ragionevoli. Ma fra gli altri che aiutarono Giovanni nelle cose del Vescovado d'Arezzo, Agostino et Agnolo scultori et architetti sanesi, avanzarono col tempo di gran lunga tutti gli altri, come al suo luogo si dirà.

Ma tornando a Giovanni, partito che egli fu d'Orvieto, venne a Firenze per vedere la fabrica che Arnolfo faceva di Santa Maria del Fiore, e per vedere similmente Giotto, del quale aveva sentito fuori gran cose ragionare; ma non fu sì tosto arivato a Firenze, che dagli Operai della detta fabrica di S. Maria del Fiore, gli fu data a fare la Madonna che in mezzo a due Angioli piccoli è sopra la porta di detta chiesa che va in Canonica, la quale opera fu allora molto lodata. Dopo fece il battesimo piccolo di S. Giovanni, dove sono alcune storie di mezzo rilievo della vita di quel Santo.

Andato poi a Bologna, ordinò la cappella maggiore della chiesa di S. Domenico, nella quale gli fu fatto fare di marmo l'altare da Teodorigo Borgognoni lucchese, vescovo e frate di quell'ordine; nel qual luogo medesimo fece poi l'anno 1298 la tavola di marmo, dove sono la Nostra Donna et altre otto figure assai ragionevoli. E l'anno 1300 essendo Nicola da Prato cardinale legato del Papa a Firenze, per accomodare le discordie de' Fiorentini, gli fece fare un monasterio di donne in Prato, che dal suo nome si chiama S. Nicola, e restaurare nella medesima terra il convento di S. Domenico, e così anco quel di Pistoia, nell'uno e nell'altro de' quali si vede ancora l'arme di detto cardinale.

E perché i Pistolesi avevano in venerazione il nome di Nicola padre di Giovanni, per quello che colla sua virtù ave-va in quella città adoprato, fecion fare a esso Giovanni un pergamo di marmo per la chiesa di S. Andrea, simile a quello che egli aveva fatto nel Duomo di Siena; e ciò per concorrenza d'uno, che poco inanzi n'era stato fatto nella chiesa di S. Giovanni Evangelista da un tedesco, che ne fu molto lodato. Giovanni dunque diede finito il suo in quattro anni, avendo l'opera di quello divisa in cinque storie della vita di Gesù Cristo, e fattovi oltre ciò un Giudizio Universale con quella maggior diligenza che seppe, per pareggiare o forse passare quello allora tanto nominato d'Orvieto. E intorno a detto pergamo sopra alcune colonne che lo reggono, intagliò nell'architrave, parendogli, come fu in vero, per quanto sapeva quella età, aver fatto una grande e bell'opera, questi versi:

Hoc opus sculpsit Joannes, qui res non egit inanes, Nicoli natus... meliora beatus, quem genuit Pisa, doctum super omnia visa.

Fece Giovanni in quel medesimo tempo la pila dell'acqua santa di marmo della chiesa di S. Giovanni Evangelista nella medesima città, con tre figure che la reggono, la Temperanza, la Prudenza e la Iustizia; la quale opera, per essere allora stata tenuta molto bella, fu posta nel mezzo di quella chiesa come cosa singolare. E prima che partisse di Pistoia, sebben non fu così allora cominciata l'opera, fece il modello del campanile di S. Jacopo, principale chiesa di quella città, nel quale campanile che è in su la piazza di detto S. Jacopo et a canto alla chiesa, è questo millesimo: A.D. 1301.

Essendo poi morto in Perugia papa Benedetto IX fu mandato per Giovanni, il quale, andato a Perugia, fece nella chiesa vecchia di S. Domenico de' frati Predicatori una sepoltura di marmo per quel Pontefice, il quale ritratto di naturale et in abito pontificale pose intorno sopra la cassa con due Angeli, uno da ciascun lato, che tengono una cortina; e di sopra una Nostra Donna con due Santi di rilievo che la mettono in mezzo, e molti altri ornamenti intorno a quella sepoltura intagliati. Parimente nella chiesa nuova de' detti frati Predicatori, fece il sepolcro di messer Niccolò Guidalotti perugino e vescovo di Recanati, il quale fu institutore della Sapienza nuova di Perugia; nella quale chiesa nuova, dico, che prima era stata fondata da altri, condusse la navata del mezzo, che fu con molto migliore ordine fondata da lui, che il rimanente della chiesa non era stato fatto, la quale da un lato pende, e minaccia, per essere stata male fondata, rovina. E nel vero, chi mette mano a fabricare et a far cose d'importanza, non da chi sa poco, ma dai migliori dovrebbe sempre pigliar consiglio, per non avere, dopo il fatto, con danno e vergogna a pentirsi d'essersi, dove più bisognava, mal consigliato.

Voleva Giovanni, speditosi delle cose di Perugia, andare a Roma per imparare da quelle poche cose antiche che vi si vedevano, sì come aveva fatto il padre; ma, da giuste cagioni impedito, non ebbe effetto questo suo disiderio, e massimamente sentendo la corte essere di poco ita in Avignone. Tornato adunque a Pisa, Nello di Giovanni Falconi operaio gli diede a fare il pergamo grande del Duomo, che è a man ritta andando verso l'altar maggiore, appiccato al coro; al quel dato principio, et a molte figure tonde alte braccia tre che a quello avevano a servire, a poco a poco lo condusse a quella forma che oggi si vede, posato parte sopra le dette figure, parte sopra alcune colonne sostenute da leoni, e nelle sponde fece alcune storie della vita di Gesù Cristo. È un peccato veramente, che tanta spesa, tanta diligenza e tanta fati-ca, non fusse accompagnata da buon disegno e non avesse la sua perfezzione, né invenzione, né grazia, né maniera che buona fusse, come averebbe a' tempi nostri ogni opera che fusse fatta anco con molto minore spesa e fatica. Nondimeno dovette recare agli uomini di que' tempi, avvezzi a vedere solamente cose goffissime, non piccola maraviglia.

Fu finita quest'opera l'anno 1320, come appare in certi versi che sono intorno al detto pergamo, che dicono così:

Laudo Deum verum, per quem sunt optima rerum, qui dedit has puras hominem formare figuras; hoc opus, his annis Domini sculpsere Johannis arte manus sole quondam natique Nicole, cursis undenis tercentum milleque plenis.

con altri tredici versi, i quali non si scrivono per meno essere noiosi a chi legge, e perché questi bastano non solo a far fede che il detto pergamo è di mano di Giovanni, ma che gl'uomini di que' tempi erano in tutte le cose così fatti.

Una Nostra Donna ancora, che in mezzo a S. Giovanni Batista et un altro Santo si vede in marmo sopra la porta principale del Duomo, è di mano di Giovanni, e quegli che a' piedi della Madonna sta in ginocchioni, si dice essere Pie-ro Gambacorti Operaio. Comunque sia, nella base dove posa l'imagine di Nostra Donna sono queste parole intagliate:

Sub Petri cura haec pia fuit sculpta figura: Nicoli nato sculptore Joanne vocato.

Similmente sopra la porta del fianco che è dirimpetto al campanile, è di mano di Giovanni una Nostra Donna di marmo, che ha da un lato una donna inginocchioni con due bambini figurata per Pisa, e dall'altro l'imperadore Enrico. Nella base dove posa la Nostra Donna sono queste parole: Ave gratia plena, Dominus tecum; e appresso:

Nobilis arte manus sculpsit Joannes Pisanus sculpsit sub Burgundio Tadi benigno...

et intorno alla basa di Pisa:

Virginis ancilla sum Pisa quieta sub illa;

et intorno alla basa d'Enrico:

Imperat Henricus qui Christo fertur amicus.

Essendo stata già molti anni nella Pieve vecchia della terra di Prato, sotto l'altare della cappella maggiore, la cintola di Nostra Donna, che Michele da Prato tornando di Terra Santa aveva recato nella patria l'anno 1141, e consegnatala a Uberto proposto di quella Pieve, che la pose dove si è detto, e dove era stata sempre con gran venerazione tenuta, l'anno 1312 fu voluta rubare da un pratese, uomo di malissima vita e quasi un altro ser Ciapelletto; ma essendo stato scoperto, fu per mano della Justizia come sacrilego fatto morire. Da che mossi i Pratesi deliberarono di fare, per tenere più sicuramente la detta cintola, un sito forte e bene accomodato; onde, mandato per Giovanni che già era vecchio, feciono col consiglio suo nella chiesa maggiore, la cappella dove ora sta riposta la detta cintola di Nostra Donna. E poi col disegno del medesimo feciono la detta chiesa molto maggiore di quello ch'ella era, e la incrostarono di fuori di marmi bianchi e neri, e similmente il campanile, come si può vedere.

Finalmente essendo Giovanni già vecchissimo, si morì l'anno 1320, dopo aver fatto oltre a quelle che dette si sono, molte altre opere di scultura et architettura. E nel vero, si deve molto a lui et a Nicola suo padre, poiché in tempi privi d'ogni bontà di disegno, diedero in tante tenebre non piccolo lume alle cose di quest'arti, nelle quali furono in quell'età veramente eccellenti. Fu sotterrato Giovanni in Camposanto onoratamente, nella stessa arca dove era stato posto Nicola suo padre.

Furono discepoli di Giovanni molti che dopo lui fiorirono, ma particolarmente Lino scultore et architetto sanese, il quale fece in Pisa la capella dove è il corpo di S. Ranieri, in Duomo, tutta ornata di marmi, e similmente il vaso del battesimo ch'è in detto Duomo, col nome suo.

Né si maravigli alcuno che facessero Nicola e Giovanni tante opere, perché, oltre che vissono assai, essendo i primi maestri in quel tempo che fussono in Europa, non si fece alcuna cosa d'importanza alla quale non intervenissono, come, oltre a quelle che dette si sono, in molte iscrizzioni si può vedere. E poiché con l'occasione di questi due scultori et architetti si è delle cose di Pisa ragionato, non tacerò, che in su le scalee di verso lo Spedale Nuovo intorno alla base che sostiene un leone et il vaso che è sopra la colonna di porfido, sono queste parole:

Questo è 'l talento che Cesare Imperadore diede a Pisa, con lo quale si misurava lo censo che a lui era dato: lo quale è edificato sopra questa colonna e leone nel tempo di Giovanni Rosso Operaio dell'opera di S. Maria Maggiore di Pisa Anno Domini MCCCXIII. Indictione secunda di Marso.

IL FINE DELLA VITA DI NICOLA E GIOVANNI PISANI

VITA D'ANDREA TAFI PITTORE FIORENTINO

Sì come recarono non piccola maraviglia le cose di Cimabue, avendo egli dato all'arte della pittura migliore disegno e forma, agl'uomini di que' tempi, avezzi a non veder se non cose fatte alla maniera greca, così l'opere di musaico d'An-drea Tafi, che fu nei medesimi tempi, furono ammirate, et egli perciò tenuto eccellente anzi divino, non pensando que' popoli, non usi a veder altro, che in cotale arte meglio operar si potesse. Ma di vero, non essendo egli il più valente uomo del mondo, considerato che il musaico per la lunga vita era più che tutte l'altre pitture stimato, se n'andò da Firenze a Vinezia, dove alcuni pittori greci lavoravano in S. Marco di musaico, e con essi pigliando dimestichezza, con preghi, con danari e con promesse, operò di maniera che a Firenze condusse maestro Apollonio pittore greco, il quale gl'insegnò a cuocere i vetri del musaico e far lo stucco per commetterlo, et in sua compagnia lavorò nella tribuna di S. Giovanni la parte di sopra dove sono le Potestà, i Troni e le Dominazioni: nel qual luogo poi Andrea fatto più dotto, fece, come si dirà di sotto, il Cristo che è sopra la banda della capella maggiore.

Ma avendo fatto menzione di S. Giovanni, non passerò con silenzio che quel tempio antico è tutto di fuori e di dentro lavorato di marmi d'opera corinta, e che egli è non pure in tutte le sue parti misurato e condotto perfettamente, e con tutte le sue proporzioni, ma benissimo ornato di porte e di finestre, et accompagnato da due colonne di granito per faccia di braccia undici l'una, per fare i tre vani, sopra i quali sono gl'architravi che posano in su le dette colonne, per reggere tutta la machina della volta doppia; la quale è dagl'architetti moderni come cosa singolare lodata; e meritamente, perciò che ella ha mostrato il buono che già aveva in sé quell'arte a Filippo di ser Brunellesco, a Donatello, et agl'altri maestri di que' tempi; i quali impararono l'arte col mezzo di quell'opera e della chiesa di S. Apostolo di Firenze; opera di tanta buona maniera che tira alla vera bontà antica, avendo, come si è detto di sopra, tutte le colonne di pezzi misurate e commesse con tanta diligenza, che si può molto imparare a considerarle in tutte le sue parti. Ma per tacere molte cose che della buona architettura di questa chiesa si potrebbono dire, dirò solamente che molto si diviò da questo segno e da questo buon modo di fare, quando si rifece di marmo la facciata della chiesa di S. Miniato sul Monte fuor di Firenze, per la conversione del beato S. Giovanni Gualberto cittadino di Firenze, e fondator della congregazione de' monaci di Vall'Ombrosa: perché quella e molte altre opere che furono fatte poi, non furono punto in bontà a quelle dette somiglianti. Il che medesimamente avvenne nelle cose della scultura, perché tutte quelle che fecero in Italia i maestri di quell'età, come si è detto nel Proemio delle Vite, furono molto goffe, come si può vedere in molti luoghi, e particolarmente in Pistoia in S. Bartolomeo de' Canonici regolari, dove in un pergamo fatto goffissimamente da Guido da Como, è il principio della vita di Gesù Cristo con queste parole fattevi dall'artefice medesimo l'anno 1199:

Sculptor laudatur, quod doctus in arte probatur, Guido de Como me cunctis carmine promo.

Ma per tornare al tempio di S. Giovanni, lasciando di raccontare l'origine sua per essere stata scritta da Giovanni Villani e da altri scrittori, avendo già detto che da quel tempio s'ebbe la buona architettura che oggi è in uso, aggiugnerò che per quel che si vede, la tribuna fu fatta poi, e che al tempo che Alesso Baldovinetti dopo Lippo pittore fiorentino racconciò quel musaico, si vide ch'ell'era stata anticamente dipinta e dissegnata di rosso, e lavorata tutta sullo stucco.

Andrea Tafi dunque e Apollonio greco fecero in quella tribuna per farlo di musaico uno spartimento, che stringendo da capo accanto alla lanterna, si veniva allargando insino sul piano della cornice di sotto, dividendo la parte più alta in cerchi di varie storie. Nel primo sono tutti i ministri et esecutori della volontà divina, cioè gli Angeli, gli Arcangeli, i Cherubini, i Serafini, le Potestati, i Troni, e le Dominazioni; nel secondo grado sono pur di musaico alla maniera greca le principali cose fatte da Dio, da che fece la luce insino al Diluvio; nel giro che è sotto questi, il quale viene allargando le otto facce di quella tribuna, sono tutti i fatti di Ioseffo e de' suoi dodici fratelli. Seguitano poi sotto questi altri tanti vani della medesima grandezza che girano similmente inanzi, nei quali è pur di musaico la vita di Gesù Cristo, da che fu concetto nel ventre di Maria insino all'Ascensione in cielo; poi ripigliando il medesimo ordine, sotto i tre fregi è la vita di S. Giovanni Battista, cominciando dall'apparizione dell'Angelo a Zaccheria sacerdote, insino alla decollazione e sepoltura che gli danno i suoi discepoli; le quali tutte cose essendo goffe senza disegno e senza arte, e non avendo in sé altro che la maniera greca di que' tempi, io non lodo semplicemente, ma sì bene [ho] avuto rispetto al modo di fare di quell'età e all'imperfetto che allora aveva l'arte della pittura: senza che il lavoro è saldo, e sono i pezzi del musaico molto bene commessi; insomma il fine di quell'opera è molto migliore, o, per dir meglio, manco cattivo che non è il principio; sebbene il tutto, rispetto alle cose d'oggi, muove più tosto a riso che a piacer o maraviglia.

Andrea finalmente fece con molta sua lode da per sé e senza l'aiuto d'Apollonio, nella detta tribuna sopra la banda della capella maggiore, il Cristo che ancor oggi vi si vede, di braccia sette. Per le quali opere famoso per tutta l'Italia divenuto, e nella patria sua eccellente reputato, meritò d'essere onorato e premiato largamente. Fu veramente felicità grandissima quella d'Andrea, nascer in tempo che goffamente operandosi, si stimasse assai quello che pochissimo o più tosto nulla stimare si doveva. La qual cosa medesima avvenne a fra Jacopo da Turrita dell'ordine di S. Francesco, perché avendo fatto l'opere di musaico che sono nella scarsella dopo l'altare di detto S. Giovanni, nonostante che fussero poco lodevoli, ne fu con premii straordinarii remunerato, e poi come eccellente maestro condotto a Roma, dove lavorò alcune cose nella capella dell'altar maggiore di S. Giovanni Laterano, e in quella di S. Maria Maggiore. Poi, condotto a Pisa, fece nella tribuna principale del Duomo colla medesima maniera che aveva fatto l'altre cose sue, aiutato nondimeno da Andrea Tafi e da Gaddo Gaddi, gl'Evangelisti et altre cose che vi sono, le quali poi furono finite da Vicino, avendole egli lasciate poco meno che imperfette del tutto.

Furono dunque in pregio per qualche tempo l'opere di costoro: ma poi che l'opere di Giotto furono, come si dirà al luogo suo, poste in paragone di quelle d'Andrea, di Cimabue e degl'altri, conobbero i popoli in parte la perfezione del-l'arte, vedendo la differenza ch'era dalla maniera prima di Cimabue a quella di Giotto nelle figure degl'uni e degl'altri, et in quelle che fecero i discepoli et immitatori loro. Dal qual principio cercando di mano in mano gl'altri di seguire l'orme de' maestri migliori, e sopravanzando l'un l'altro felicemente più l'un giorno che l'altro, da tanta bassezza sono state queste arti al colpo della loro perfezzione, come si vede, inalzate.

Visse Andrea anni ottantuno, e morì innanzi a Cimabue nel 1294. E per la reputazione e onore che si guadagnò col musaico, per averlo egli prima d'ogni altro arrecato et insegnato agl'uomini di Toscana in miglior maniera, fu cagione che Gaddo Gaddi, Giotto e gl'altri fecero poi l'eccellentissime opere di quel magisterio, che hanno acquistato loro fama e nome perpetuo. Non mancò chi dopo la morte d'Andrea lo magnificasse con questa iscrizzione:

Qui giace Andrea, ch'opre leggiadre e belle fece in tutta Toscana, et ora è ito a far vago lo regno delle stelle.

Fu discepolo d'Andrea Buonamico Buffalmacco, che gli fece, essendo giovanetto, molte burle, e il quale ebbe da lui il ritratto di papa Celestino IIII milanese, e quello d'Innocenzo Quarto, l'uno e l'altro de' quali ritrasse poi nelle pitture sue che fece a Pisa in S. Paolo a ripa d'Arno. Fu discepolo, e forse figliuolo del medesimo, Antonio d'Andrea Tafi, il quale fu ragionevole dipintore; ma non ho potuto trovare alcun'opera di sua mano; solo si fa menzione di lui nel vecchio libro della Compagnia degli uomini del disegno.

Merita dunque d'essere molto lodato fra gli antichi maestri Andrea Tafi, perciò che sebbene imparò i principii del musaico da coloro che egli condusse da Vinezia a Firenze, aggiunse nondimeno tanto di buono all'arte, commettendo i pezzi con molta diligenza insieme, e conducendo il lavoro piano come una tavola (il che è nel musaico di grandissima importanza), che egli aperse la via di far bene, oltre gl'altri, a Giotto, come si dirà nella vita sua; e non solo a Giotto, ma a tutti quelli che dopo a lui insino ai tempi nostri si sono in questa sorte di pittura essercitati. Onde si può con verità affermare, che quelle opere che oggi si fanno maravigliose di musaico in S. Marco di Vinezia et in altri luoghi, avessero da Andrea Tafi il loro primo principio.

FINE DELLA VITA D'ANDREA TAFI

VITA DI GADDO GADDI

PITTORE FIORENTINO

Dimostrò Gaddo pittore fiorentino in questo medesimo tempo più disegno nell'opere sue lavorate alla greca e con grandissima diligenza condotte, che non fece Andrea Tafi e gl'altri pittori che furono inanzi a lui; e nacque forse questo dall'amicizia e dalla pratica che dimesticamente tenne con Cimabue; perché, o per la conformità de' sangui o per la bontà degl'animi, ritrovandosi tra loro congiunti d'una stretta benivolenza, nella frequente conversazione che avevano insieme e nel discorrere bene spesso amorevolmente sopra le difficultà dell'arti, nascevano ne' loro animi concetti bellissimi e grandi. E ciò veniva loro tanto più agevolmente fatto, quanto erano aiutati dalla sottigliezza dell'aria di Firenze, la quale produce ordinariamente spiriti ingegnosi e sottili, levando loro continuamente d'attorno quel poco di ruggine e grossezza, che il più delle volte la natura non puote, con l'emulazione e coi precetti che d'ogni tempo porgono i buoni artefici. E vedesi apertamente, che le cose conferite fra coloro che nell'amicizia non sono di doppia scorza coperti, come che pochi così fatti se ne ritrovino, si riducono a molta perfezzione. Et i medesimi nelle scienze che imparano, conferendo, le difficultà di quelle, le purgano e le rendono così chiare e facili, che grandissima lode se ne trae. Là dove per lo contrario alcuni diabolicamente nella professione dell'amicizia praticando, sotto spezie di verità e d'amorevolezza, e per invidia e malizia i concetti loro defraudano; di maniera che l'arti non così tosto a quell'eccellenza pervengono che farebbono se la carità abbracciasse gl'ingegni degli spiriti gentili, come veramente strinse Gaddo e Cimabue, e similmente Andrea Tafi e Gaddo, che in compagnia fu preso da Andrea a finire il musaico di S. Giovanni. Dove esso Gaddo imparò tanto che poi fece da sé i Profeti che si veggiono intorno a quel tempio nei quadri sotto le finestre; i quali avendo egli lavorato da sé solo e con molto miglior maniera, gli arrecarono fama grandissima. Laonde, cresciutogli l'animo e dispostosi a lavorare da sé solo, attese continuamente a studiar la maniera greca accompagnata con quella di Cimabue. Onde fra non molto tempo essendo venuto eccellente nell'arte, gli fu dagli Operai di S. Maria del Fiore allogato il mezzo tondo dentro la chiesa sopra la porta principale, dove egli lavorò di musaico l'incoronazione di Nostra Donna: la qual opera finita, fu da tutti i maestri, e forestieri e nostrali, giudicata la più bella che fusse stata veduta ancora in tutta Italia di quel mestiero, conoscendosi in essa più disegno, più giudicio e più diligenza, che in tutto il rimanente dell'ope-re che di musaico allora in Italia si ritrovavano. Onde spartasi la fama di quest'opera, fu chiamato Gaddo a Roma l'anno 1308, che fu l'anno dopo l'incendio che abbruciò la chiesa e i palazzi di Laterano, da Clemente V al quale finì di musaico alcune cose lasciate imperfette da fra Jacopo da Turrita.

Dopo lavorò nella chiesa di S. Piero, pur di musaico, alcune cose nella capella maggiore e per la chiesa, ma particolarmente nella facciata dinanzi un Dio Padre grande con molte figure; et aiutando a finire alcune storie che sono nella facciata di S. Maria Maggiore di musaico, migliorò alquanto la maniera, e si partì pur un poco da quella greca che non aveva in sé punto di buono.

Poi ritornato in Toscana, lavorò nel Duomo vecchio fuor della città d'Arezzo per i Tarlati, signori di Pietramala, alcune cose di musaico in una volta la quale era tutta di spugne, e copriva la parte di mezzo di quel tempio: il quale essendo troppo aggravato dalla volta antica di pietre, rovinò al tempo del vescovo Gentile Urbinate, che la fece poi rifar tutta di mattoni. Partito d'Arezzo, se n'andò Gaddo a Pisa, dove nel Duomo sopra la capella dell'Incoronata fece nella nicchia una Nostra Donna che va in cielo, e di sopra un Gesù Cristo che l'aspetta e le ha per suo seggio una ricca sedia apparecchiata: la quale opera, secondo que' tempi, fu sì bene e con tanta diligenza lavorata, ch'ella si è insino a oggi conservata benissimo.

Dopo ciò ritornò Gaddo a Firenze con animo di riposarsi; per che datosi a fare piccole tavolette di musaico, ne condusse alcune di guscia d'uova con diligenza e pacienza incredibile; come si può fra l'altro vedere in alcune, che ancor oggi sono nel tempio di S. Giovanni di Firenze. Si legge anco che ne fece due per il re Ruberto, ma non se ne sa altro. E questo basti aver detto di Gaddo Gaddi, quanto alle cose di musaico.

Di pittura poi fece molte tavole, e fra l'altre quella che è in S. Maria Novella nel tramezzo della chiesa alla capella dei Minerbetti, e molte altre che furono in diversi luoghi di Toscana mandate. E così lavorando quando di musaico e quando di pittura, fece nell'uno e nell'altro esercizio molte opere ragionevoli, le quali lo mantennero sempre in buon credito e reputazione. Io potrei qui distendermi più oltre in ragionare di Gaddo, ma perché le maniere dei pittori di que' tempi non possono agl'artefici per lo più gran giovamento arrecare, le passerò con silenzio, serbandomi a essere più lungo nelle vite di coloro, che avendo migliorate l'arti, possono in qualche parte giovare.

Visse Gaddo anni settantatré, e morì nel 1312 e fu in S. Croce da Taddeo suo figliuolo onorevolmente sepelito. E sebbene ebbe altri figliuoli, Taddeo solo, il quale fu alle fonti tenuto a battesimo da Giotto, attese alla pittura, imparando primamente i principii da suo padre, e poi il rimanente da Giotto. Fu discepolo di Gaddo, oltre a Taddeo suo figliuolo, come s'è detto, Vicino pittor pisano, il quale benissimo lavorò di musaico alcune cose nella tribuna maggiore del Duomo di Pisa, come ne dimostrano queste parole che ancora in essa tribuna si veggiono: Tempore Domini Johannis Rossi Operarii istius ecclesiae, Vicinus pictor incepit et perfecit hanc imaginem Beatae Mariae; sed Majestatis, et Evangelistae, per alios inceptae, ipse complevit et perfecit, Anno Domini 1321, de mense Septembris. Benedictum sit nomen Domini Dei nostri Jesu Christi. Amen.

Il ritratto di Gaddo è di mano di Taddeo suo figliuolo nella chiesa medesima di S. Croce nella capella de' Baroncelli in uno sposalizio di Nostra Donna, e accanto gli è Andrea Tafi. E nel nostro libro detto di sopra, è una carta di mano di Gaddo fatta a uso di minio come quella di Cimabue, nella quale si vede quanto valesse nel disegno.

Ora perché in un libretto antico, dal quale ho tratto queste poche cose che di Gaddo Gaddi si sono raccontate, si ragiona anco della edificazione di S. Maria Novella, chiesa in Firenze de' frati Predicatori, e veramente magnifica e onoratissima, non passerò con silenzio da chi e quando fusse edificata. Dico dunque, che essendo il beato Domenico in Bologna, et essendogli conceduto il luogo di Ripoli fuor di Firenze, egli vi mandò sotto la cura del beato Giovanni da Salerno dodici frati: i quali non molti anni dopo vennero in Fiorenza nella chiesa e luogo di S. Pancrazio, e lì stavano, quando venuto esso Domenico in Fiorenza, n'uscirono e, come piacque a lui, andarono a stare nella chiesa di S. Paolo. Poi essendo conceduto al detto beato Giovanni il luogo di S. Maria Novella con tutti i suoi beni dal legato del Papa e dal vescovo della città, furono messi in possesso e cominciarono ad abitare il detto luogo il dì ultimo d'ottobre 1221. E perché la detta chiesa era assai piccola, e risguardando verso occidente aveva l'entrata dalla piazza vecchia, cominciarono i frati, essendo già cresciuti in buon numero e avendo gran credito nella città, a pensare d'accrescer la detta chiesa e convento. Onde, avendo messo insieme grandissima somma di danari, e avendo molti nella città che promettevano ogni aiuto, cominciarono la fabbrica della nuova chiesa il dì di S. Luca nel 1278, mettendo solennissimamente la prima pietra de' fondamenti il cardinale Latino degli Orsini legato di papa Nicola III appresso i Fiorentini. Furono architettori di detta chiesa fra' Giovanni fiorentino e fra' Ristoro da Campi conversi del medesimo ordine, i quali rifeciono il ponte alla Carraia e quello di S. Trinita, rovinati pel diluvio del 1264 il primo dì d'ottobre. La maggior parte del sito di detta chiesa e convento fu donato ai frati dagli eredi di messer Jacopo cavaliere de' Tornaquinci. La spesa, come si è detto, fu fatta parte di limosine, parte de' danari di diverse persone che aiutarono gagliardamente, e particolarmente con l'aiuto di frat'Aldobrandino Cavalcanti, il quale fu poi vescovo d'Arezzo, et è sepolto sopra la porta della Vergine. Costui, dicono che, oltre all'altre cose, messe insieme con l'industria sua tutto il lavoro e materia che andò in detta chiesa, la quale fu finita, essendo priore di quel convento fra' Jacopo Passavanti, che perciò meritò aver un sepolcro di marmo inanzi alla capella maggiore a man sinistra. Fu consecrata questa chiesa l'anno 1420 da papa Martino V come si vede in un epitaffio di marmo nel pilastro destro della capella maggiore, che dice così:

Anno Domini 1420 die septima Septembris Dominus Martinus divina providentia Papa V personaliter hanc ecclesiam consecravit, et magnas indulgentias contulit visitantibus eamdem. Delle quali tutte cose e molte altre si ragiona in una cronaca dell'edificazione di detta chiesa, la quale è appresso i padri di S. Maria Novella, e nelle istorie di Giovanni Villani similmente. Et io non ho voluto tacere di questa chiesa e convento queste poche cose, sì perché ell'è delle principali e delle più belle di Firenze, e sì anco perché hanno in essa, come si dirà di sotto, molte eccellenti opere fatte da' più famosi artefici che siano stati negl'anni addietro.

FINE DELLA VITA DI GADDO GADDI

VITA DI MARGARITONE

PITTORE, SCULTORE ET ARCHITETTO ARETINO

Fra gl'altri vecchi pittori, ne' quali misero molto spavento le lodi che dagl'uomini meritamente si davano a Cimabue ed a Giotto suo discepolo, de' quali il buono operare nella pittura faceva chiaro il grido per tutta Italia, fu un Margaritone aretino pittore, il quale con gl'altri, che in quell'infelice secolo tenevano il supremo grado nella pittura, conobbe che l'opere di coloro oscuravano poco meno che del tutto la fama sua. Essendo dunque Margaritone, fra gl'altri pittori di que' tempi che lavoravano alla greca, tenuto eccellente, lavorò a tempera in Arezzo molte tavole; et a fresco, ma in molto tempo e con molta fatica, in più quadri quasi tutta la chiesa di S. Clemente, badia dell'ordine di Camaldoli, oggi rovinata e spianata tutta, insieme con molti altri edifizii, e con una rocca forte chiamata S. Chimenti: per avere il duca Cosimo de' Medici non solo in quel luogo, ma intorno intorno a quella città disfatto con molti edifizii le mura vecchie, che da Guido Pietramalesco, già vescovo e padrone di quella città, furono rifatte, per rifarle con fianchi e baluardi in-torno intorno molto più gagliarde e minori di quello che erano, e per conseguente più atte a guardarsi, e da poca gente. Erano ne' detti quadri molte figure piccole e grandi, e come che fussero lavorate alla greca, si conosceva nondimeno ch'ell'erano state fatte con buon giudizio e con amore, come possono far fede l'opere che di mano del medesimo sono rimase in quella città, e massimamente una tavola che è ora in S. Francesco, con un ornamento moderno, nella capella della Concezzione: dove è una Madonna tenuta da que' frati in gran venerazione. Fece nella medesima chiesa pure alla greca un Crucifisso grande, oggi posto in quella capella dove è la stanza degli Operai, il quale è in su l'asse, dintornata la croce, e di questa sorte ne fece molti in quella città.

Lavorò nelle monache di S. Margherita un'opera che oggi è appoggiata al tramezzo della chiesa, cioè una tela confitta sopra una tavola, dove sono storie di figure piccole della vita di Nostra Donna e di S. Giovanni Batista, d'assai migliore maniera che le grandi, e con più diligenza e grazia condotte; della quale opera è da tener conto, non solo perché le dette figure piccole sono tanto ben fatte che paiono di minio, ma ancora per essere una maraviglia vedere un lavoro in tela lina essersi trecento anni conservato.

Fece per tutta la città pitture infinite, et a Sargiano, convento de' frati de' Zoccoli, in una tavola un S. Francesco ritratto di naturale, ponendovi il nome suo, come in opera, a giudizio suo, da lui più del solito ben lavorata. Avendo poi fatto in legno un Crucifisso grande dipinto alla greca, lo mandò in Firenze a messer Farinata degl'Uberti famosissimo cittadino, per avere, fra molte altre opere egregie, da soprastante rovina e pericolo la sua patria liberato. Questo Crucifisso è oggi in S. Croce tra la capella de' Peruzzi e quella de' Giugni.

In S. Domenico d'Arezzo, chiesa e convento fabricato da' Signori di Pietramala l'anno 1275, come dimostrano ancora l'insegne loro, lavorò molte cose prima ch'e' tornasse a Roma, (dove già era stato molto grato a papa Urbano Quarto) per fare alcune cose a fresco di commessione sua nel portico di S. Piero, che di maniera greca, secondo que' tempi, furono ragionevoli. Avendo poi fatto a Ganghereto luogo sopra Terranuova di Valdarno una tavola di S. Francesco, si diede, avendo lo spirito elevato, alla scultura, e ciò con tanto studio, che riuscì molto meglio che non aveva fatto nella pittura. Perché, sebbene furono le sue prime sculture alla greca, come ne mostrano quattro figure di legno che sono nella Pieve in un Deposto di croce, et alcune altre figure tonde poste nella capella di S. Francesco sopra il battesimo, egli prese nondimeno miglior maniera, poi che ebbe in Firenze veduto l'opere d'Arnolfo e degl'altri allora più famosi scultori.

Onde tornato in Arezzo l'anno 1275 dietro alla corte di papa Gregorio, che tornando d'Avignone a Roma passò per Firenze, se gli porse occasione di farsi maggiormente conoscere, perché essendo quel Papa morto in Arezzo, dopo l'a-ver donato al comune trentamila scudi perché finisse la fabrica del Vescovado, già stata cominciata da maestro Lapo e poco tirata inanzi, ordinarono gli Aretini, oltre all'aver fatto per memoria di detto Pontefice in Vescovado la capella di

S. Gregorio, dove col tempo Margaritone fece una tavola, che dal medesimo gli fusse fatta di marmo una sepultura nel detto Vescovado: alla quale messo mano, la condusse in modo a fine, col farvi il ritratto del Papa di naturale di marmo e di pittura, ch'ella fu tenuta la migliore opera che avesse ancora fatto mai.

Dopo, rimettendosi mano alla fabrica del Vescovado, la condusse Margaritone molto inanzi, seguitando il disegno di Lapo, ma non però se le diede fine, perché rinovandosi pochi anni poi la guerra tra i Fiorentini e gl'Aretini, il che fu l'anno 1289, per colpa di Guglielmino Ubertini vescovo e signore d'Arezzo, aiutato dai Tarlati da Pietramala e da' Pazzi di Valdarno, come che male glien'avvenisse, essendo stati rotti e morti a Campaldino, furono spesi in quella guerra tutti i danari lasciati dal Papa alla fabrica del Vescovado. E perciò fu ordinato poi dagl'Aretini, che in quel cambio servisse il Danno dato del contado (così chiamano un dazio) per entrata particolare di quell'opera; il che è durato sino a oggi e dura ancora.

Ora tornando a Margaritone, per quello che si vede nelle sue opere, quanto alla pittura, egli fu il primo che considerasse quello che bisogna fare quando si lavora in tavole di legno, perché stiano ferme nelle commettiture e non mostrino aprendosi, poi che sono dipinte, fessure o squarti, avendo egli usato di mettere sempre sopra le tavole per tutto una tela di panno lino, apiccata con forte colla fatta con ritagli di cartapecora e bollita al fuoco, e poi sopra detta tela dato di gesso, come in molte sue tavole e d'altri si vede.

Lavorò ancora sopra il gesso stemperato con la medesima colla, fregi e diademe di rilievo et altri ornamenti tondi; e fu egli inventore del modo di dare di bolo e mettervi sopra l'oro in foglie e brunirlo. Le quali tutte cose, non essendo mai prima state vedute, si veggiono in molte opere sue, e particolarmente nella Pieve d'Arezzo in un dossale, dove sono storie di S. Donato, e in S. Agnesa e in S. Niccolò della medesima città.

Lavorò finalmente molte opere nella sua patria che andarono fuori, parte delle quali sono a Roma in S. Ianni et in S. Piero, e parte in Pisa in S. Caterina, dove nel tramezzo della chiesa è appoggiata sopra un altare una tavola dentrovi S. Caterina e molte storie in figure piccole della sua vita, et in una tavoletta un S. Francesco con molte storie in campo d'oro. E nella chiesa di sopra di S. Francesco d'Ascesi, è un Crucifisso di sua mano dipinto alla greca, sopra un legno che attraversa la chiesa; le quali tutte opere furono in gran pregio appresso i popoli di quell'età, sebbene oggi da noi non sono stimate, se non come cose vecchie e buone quando l'arte non era, come è oggi, nel suo colmo.

E perché attese Margaritone anco all'architettura, sebbene non ho fatto menzione d'alcune cose fatte col suo disegno, perché non sono d'importanza, non tacerò già, che egli, secondo ch'io truovo, fece il disegno e modello del palazzo de' Governatori della città d'Ancona alla maniera greca l'anno 1270, e, che è più, fece di scultura nella facciata principale otto finestre, delle quali ha ciascuna nel vano del mezzo due colonne che a mezzo sostengono due archi, sopra i quali ha ciascuna finestra una storia di mezzo rilievo, che tiene dai detti piccioli archi insino al sommo della finestra: una storia, dico, del Testamento Vecchio intagliata in una sorte di pietra ch'è in quel paese. Sotto le dette finestre sono nella facciata alcune lettere, che s'intendono più per discrezione, che perché siano o in buona forma o rettamente scritte, nelle quali si legge il millesimo et al tempo di chi fu fatta questa opera. Fu anco di mano del medesimo il disegno della chiesa di S. Ciriaco d'Ancona.

Morì Margaritone d'anni LXXVII, infastidito, per quel che si disse, d'esser tanto vivuto, vedendo variata l'età e gl'o-nori negl'artefici nuovi. Fu sepolto nel Duomo vecchio fuor d'Arezzo in una cassa di trevertino, oggi andata a male nelle rovine di quel tempio; e gli fu fatto questo epitaffio:

Hic jacet ille bonus pictura Margaritonus, cui requiem Dominus tradat ubique pius.

Il ritratto di Margaritone era nel detto Duomo vecchio di mano di Spinello nell'istoria de' Magi, e fu da me ricavato prima che fusse quel tempio rovinato.

FINE DELLA VITA DI MARGARITONE

VITA DI GIOTTO

PITTORE, SCULTORE ET ARCHITETTO FIORENTINO

Quell'obligo stesso che hanno gl'artefici pittori alla natura, la qual serve continuamente per essempio a coloro, che cavando il buono dalle parti di lei migliori e più belle, di contrafarla et imitarla s'ingegnano sempre, avere per mio credere si deve a Giotto pittore fiorentino; perciò che essendo stati sotterrati tanti anni dalle rovine delle guerre i modi del-le buone pitture e i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, per dono di Dio, quella che era per mala via risuscitò, et a tale forma ridusse, che si potette chiamar buona. E veramente fu miracolo grandissimo, che quella età e grossa et inetta avesse forza d'operare in Giotto sì dottamente, che il disegno, del quale poca o niuna cognizione avevano gl'uomini di que' tempi, mediante lui ritornasse del tutto in vita. E nientedimeno i principii di sì gran-d'uomo furono l'anno 1276 nel contado di Firenze, vicino alla città quattordici miglia, nella villa di Vespignano, e di padre detto Bondone lavoratore di terra e naturale persona. Costui avuto questo figliuolo, al quale pose nome Giotto, l'allevò secondo lo stato suo costumatamente. E quando fu all'età di dieci anni pervenuto, mostrando in tutti gli atti ancora fanciulleschi una vivacità e prontezza d'ingegno straordinario, che lo rendea grato non pure al padre, ma a tutti quelli ancora che nella villa e fuori lo conoscevano, gli diede Bondone in guardia alcune pecore, le quali egli andando pel podere quando in un luogo e quando in un altro pasturando, spinto dall'inclinazione della natura all'arte del disegno, per le lastre et in terra o in su l'arena del continuo disegnava alcuna cosa di naturale, o vero che gli venisse in fantasia. Onde, andando un giorno Cimabue per sue bisogne da Fiorenza a Vespignano, trovò Giotto che, mentre le sue pecore pascevano, sopra una lastra piana e pulita con un sasso un poco appuntato ritraeva una pecora di naturale, senza avere imparato modo nessuno di ciò fare da altri che dalla natura; per che fermatosi Cimabue tutto maraviglioso, lo domandò se voleva andar a star seco. Rispose il fanciullo, che contentandosene il padre, anderebbe volentieri. Dimandandolo dunque Cimabue a Bondone, egli amorevolmente glielo concedette, e si contentò che seco lo menasse a Firenze; là do-ve venuto, in poco tempo, aiutato dalla natura et ammaestrato da Cimabue, non solo pareggiò il fanciullo la maniera del maestro suo, ma divenne così buono imitatore della natura, che sbandì affatto quella goffa maniera greca, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, introducendo il ritrarre bene di naturale le persone vive, il che più di dugento anni non s'era usato: e se pure si era provato qualcuno, come si è detto di sopra, non gli era ciò riuscito molto felicemente, né così bene a un pezzo, come a Giotto. Il quale fra gl'altri ritrasse, come ancor oggi si vede, nella capella del palagio del podestà di Firenze, Dante Alighieri coetaneo et amico suo grandissimo, e non meno famoso poeta, che si fusse ne' medesimi tempi Giotto pittore, tanto lodato da messer Giovanni Boccaccio nel proemio della novella di messer Forese da Rabatta e di esso Giotto dipintore. Nella medesima capella è il ritratto, similmente di mano del medesimo, di ser Brunetto Latini maestro di Dante, e di messer Corso Donati gran cittadino di que' tempi.

Furono le prime pitture di Giotto nella capella dell'altar maggiore della Badia di Firenze, nella quale fece molte cose tenute belle, ma particolarmente una Nostra Donna quando è annunziata; perché in essa espresse vivamente la paura e lo spavento che nel salutarla Gabriello mise in Maria Vergine, la qual pare che tutta piena di grandissimo timore voglia quasi mettersi in fuga.

È di mano di Giotto parimente la tavola dell'altar maggiore di detta cappella, la quale vi si è tenuta insino a oggi et anco vi si tiene, più per una certa reverenza che s'ha all'opera di tanto uomo, che per altro. E in S. Croce sono quattro cappelle di mano del medesimo, tre fra la sagrestia e la capella grande, et una dall'altra banda. Nella prima delle tre, la quale è di messer Ridolfo de' Bardi, che è quella dove sono le funi delle campane, è la vita di S. Francesco, nella morte del quale un buon numero di frati mostrano assai acconciamente l'effetto del piangere. Nell'altra, che è della famiglia de' Peruzzi, sono due storie della vita di S. Giovanni Battista al quale è dedicata la capella: dove si vede molto vivamente il ballare e saltare d'Erodiade, e la prontezza d'alcuni serventi presti ai servigi della mensa. Nella medesima sono due storie di S. Giovanni Evangelista maravigliose, cioè quando risuscita Drusiana, e quando è rapito in cielo. Nella terza, ch'è de' Giugni, intitolata agl'Apostoli, sono di mano di Giotto dipinte le storie del martirio di molti di loro. Nella quarta che è dall'altra parte della chiesa verso tramontana, la quale è de' Tosinghi e degli Spinelli, e dedicata all'Assun-zione di Nostra Donna, Giotto dipinse la natività, lo sposalizio, l'essere annunziata, l'adorazione de' Magi e quando ella porge Cristo piccol fanciullo a Simeone, che è cosa bellissima: perché oltre a un grande affetto che si conosce in quel vecchio ricevente Cristo, l'atto del Fanciullo, che avendo paura di lui porge le braccia e si rivolge tutto timorosetto verso la madre, non può essere né più affettuoso né più bello. Nella morte poi di essa Nostra Donna sono gli Apostoli, et un buon numero d'Angeli con torchi in mano, molto belli.

Nella capella de' Baroncelli in detta chiesa è una tavola a tempera di man di Giotto, dove è condotta con molta diligenza l'incoronazione di Nostra Donna, et un grandissimo numero di figure piccole, et un coro di Angeli e di Santi molto diligentemente lavorati. E perché in questa opera è scritto a lettere d'oro il nome suo et il millesimo, gl'artefici che considereranno in che tempo Giotto senza alcun lume della buona maniera diede principio al buon modo di disegnare e di colorire, saranno forzati averlo in somma venerazione.

Nella medesima chiesa di S. Croce sono ancora sopra il sepolcro di marmo di Carlo Marzupini aretino un Crucifisso, una Nostra Donna, un S. Giovanni e la Madalena a' piè della croce; e dall'altra banda della chiesa a punto dirimpetto a questa, sopra la sepoltura di Lionardo aretino è una Nunziata verso l'altar maggiore, la qual è stata da pittori moderni,

- conpoco giudizio di chi ciò ha fatto fare -, ricolorita. Nel refettorio è, in un albero di croce, istorie di S. Lodovico, e un cenacolo di mano del medesimo; e negli armarii della sagrestia storie di figure piccole della vita di Cristo e di S. Francesco.

Lavorò anco nella chiesa del Carmine alla cappella di S. Giovanni Batista tutta la vita di quel Santo divisa in più quadri: e nel palazzo della Parte Guelfa di Firenze, è di sua mano una storia della fede cristiana in fresco dipinta perfettamente; et in essa è il ritratto di papa Clemente Quarto il quale creò quel magistrato, donandogli l'arme sua, la qual egli ha tenuto sempre e tiene ancora. Dopo queste cose, partendosi di Firenze per andare a finir in Ascesi l'opere cominciate da Cimabue, nel passar per Arezzo dipinse nella Pieve la capella di S. Francesco ch'è sopra il battesimo, e in una colonna tonda vicino a un capitello corintio et antico e bellissimo, un S. Francesco e un S. Domenico ritratti di naturale, e nel Duomo fuor d'Arezzo una capelluccia, dentrovi la lapidazione di S. Stefano, con bel componimento di figure.

Finite queste cose, si condusse in Ascesi città dell'Umbria, essendovi chiamato da fra' Giovanni di Muro della Marca allora Generale de' frati di S. Francesco, dove nella chiesa di sopra dipinse a fresco sotto il corridore che attraversa le finestre, dai due lati della chiesa, trentadue storie della vita e fatti di S. Francesco, cioè sedici per facciata, tanto perfettamente, che ne acquistò grandissima fama. E nel vero, si vede in quell'opera gran varietà non solamente nei gesti et attitudini di ciascuna figura, ma nella composizione ancora di tutte le storie; senzaché fa bellissimo vedere la diversità degli abiti di que' tempi, e certe imitazioni et oservazioni delle cose della natura. E fra l'altre è bellissima una storia, dove uno assetato, nel quale si vede vivo il desiderio dell'acque, bee stando chinato in terra a una fonte, con grandissimo e veramente maraviglioso affetto, in tanto che par quasi una persona viva che bea. Vi sono anco molte altre cose dignissime di considerazione, nelle quali per non esser lungo non mi distendo altrimenti. Basti che tutta questa opera acquistò a Giotto fama grandissima, per la bontà delle figure, e per l'ordine, proporzione, vivezza e facilità che egli aveva dalla natura e che aveva mediante lo studio fatto molto maggiore e sapeva in tutte le cose chiaramente dimostrare. E perché, oltre quello che aveva Giotto da natura, fu studiosissimo, et andò sempre nuove cose pensando e dalla natura cavando, meritò d'esser chiamato discepolo della natura, e non d'altri.

Finite le sopra dette storie, dipinse nel medesimo luogo, ma nella chiesa di sotto, le facciate di sopra dalle bande dell'altar maggiore, e tutti quattro gl'angoli della volta di sopra, dove è il corpo di S. Francesco, e tutte con invenzioni capricciose e belle: nella prima è S. Francesco glorificato in cielo con quelle virtù intorno, che a voler esser perfettamente nella grazia di Dio sono richieste; da un lato l'Ubidienza mette al collo d'un frate, che le sta inanzi ginocchioni, un giogo, i legami del quale sono tirati da certe mani al cielo, e mostrando, con un dito alla bocca, silenzio, ha gl'occhi a Gesù Cristo che versa sangue dal costato; et in compagnia di questa virtù sono la Prudenza e l'Umiltà, per dimostrare che dove è veramente l'ubidienza, è sempre l'umiltà e la prudenza che fa bene operare ogni cosa. Nel secondo angolo è la Castità, la quale standosi in una fortissima ròcca, non si lascia vincere né da regni, né da corone, né da palme che alcuni le presentano; a' piedi di costei è la Mondizia che lava persone nude, e la Fortezza va conducendo genti a lavarsi e mondarsi. Appresso alla Castità è da un lato la Penitenza che caccia Amore alato con una disciplina, e fa fuggire la Imondizia. Nel terzo luogo è la Povertà, la quale va coi piedi scalzi calpestando le spine; ha un cane che le abbaia dietro, e intorno un putto che le tira sassi, et un altro che le va accostando con un bastone certe spine alle gambe; e questa Povertà si vede esser quivi sposata a S. Francesco, mentre Gesù Cristo le tiene la mano, essendo presenti non senza misterio la Speranza e la Castità. Nel quarto et ultimo dei detti luoghi è un S. Francesco pur glorificato, vestito con una tonicella bianca da diacono, e come trionfante in cielo in mezzo a una multitudine d'Angeli che intorno gli fanno coro, con uno stendardo nel quale è una croce con sette stelle, e in alto è lo Spirito Santo. Dentro a ciascuno di questi angoli sono alcune parole latine che dichiarano le storie.

Similmente oltre i detti quattro angoli, sono nelle facciate dalle bande pitture bellissime e da essere veramente tenute in pregio, sì per la perfezzione che si vede in loro, e sì per essere state con tanta diligenza lavorate, che si sono insino a oggi conservate fresche. In queste storie è il ritratto d'esso Giotto molto ben fatto, e sopra la porta della sagrestia è di mano del medesimo pur a fresco un S. Francesco che riceve le stimate, tanto affettuoso e divoto, che a me pare la più eccellente pittura che Giotto facesse in quell'opere, che sono tutte veramente belle e lodevoli.

Finito dunque che ebbe per ultimo il detto S. Francesco, se ne tornò a Firenze, dove giunto dipinse per mandare a Pisa in una tavola un S. Francesco ne l'orribile sasso della Vernia, con straordinaria diligenza: perché oltre a certi paesi pieni di alberi e di scogli, che fu cosa nuova in que' tempi, si vede nell'attitudini di S. Francesco, che con molta prontezza riceve ginocchioni le stimate, un ardentissimo desiderio di riceverle et infinito amore verso Gesù Cristo, che in aria circondato di Serafini gliele concede, con sì vivi affetti, che meglio non è possibile immaginarsi. Nel disotto poi della medesima tavola, sono tre storie della vita del medesimo, molto belle.

Questa tavola, la quale oggi si vede in S. Francesco di Pisa in un pilastro accanto all'altar maggiore, tenuta in molta venerazione per memoria di tanto uomo, fu cagione che i Pisani, essendosi finita appunto la fabbrica di Camposanto, secondo il disegno di Giovanni di Nicola Pisano, come si disse di sopra, diedero a dipignere a Giotto parte delle facciate di dentro, acciò che, come tanta fabrica era tutta di fuori incrostata di marmi e d'intagli fatti con grandissima spesa, coperto di piombo il tetto, e dentro piena di pile e sepolture antiche, state de' Gentili e recate in quella città di varie parti del mondo, così fusse ornata dentro nelle facciate di nobilissime pitture. Perciò, dunque, andato Giotto a Pisa, fece nel principio d'una facciata di quel Camposanto sei storie grandi in fresco del pazientissimo Iobbe; e perché giudiziosamente considerò che i marmi da quella parte della fabrica dove aveva a lavorare erano volti verso la marina, e che tutti essendo saligni per gli scilocchi, sempre sono umidi e gettano una certa salsedine, sì come i mattoni di Pisa fanno per lo più, e che perciò acciecano e si mangiano i colori e le pitture; fece fare, perché si conservasse quanto potesse il più l'o-pera sua, per tutto dove voleva lavorare in fresco, in arricciato o vero intonaco o incrostatura che vogliam dire, con calcina, gesso e matton pesto mescolati così a proposito, che le pitture che egli poi sopra vi fece, si sono insino a questo giorno conservate. E meglio, starebbono, se la stracurataggine di chi ne doveva aver cura non l'avesse lasciate molto offendere dall'umido; perché il non avere a ciò, come si poteva agevolmente, proveduto, è stato cagione che, avendo quelle pitture patito umido, si sono guaste in certi luoghi, e l'incarnazioni fatte nere, e l'intonaco scortecciato; senzaché la natura del gesso, quando è con la calcina mescolato, è d'infracidare col tempo e corrompersi; onde nasce che poi per forza guasta i colori, sebben pare che da principio faccia gran presa e buona.

Sono in queste storie, oltre al ritratto di messer Farinata degl'Uberti, molte belle figure, e massimamente certi villa-ni, i quali nel portare le dolorose nuove a Iobbe, non potrebbono essere più sensati, né meglio mostrare il dolore che avevano per i perduti bestiami e per l'altre disaventure, di quello che fanno. Parimente ha grazia stupenda la figura d'un servo, che con una rosta sta intorno a Iobbe piagato e quasi abbandonato da ognuno; e come che ben fatto sia in tutte le parti, è maraviglioso nell'attitudine che fa, cacciando con una delle mani le mosche al lebroso padrone e puzzolente, e con l'altra tutto schifo turandosi il naso per non sentire il puzzo.

Sono similmente l'altre figure di queste storie e le teste, così de' maschi come delle femmine, molto belle, et i panni in modo lavorati morbidamente, che non è maraviglia se quell'opera gl'acquistò in quella città e fuori tanta fama, che papa Benedetto IX da Trevisi mandasse in Toscana un suo cortigiano, a vedere che uomo fusse Giotto e quali fussero l'opere sue, avendo disegnato far in S. Piero alcune pitture. Il quale cortigiano venendo per veder Giotto, e intendere che altri maestri fussero in Firenze eccellenti nella pittura e nel musaico, parlò in Siena a molti maestri. Poi avuti disegni da loro, venne a Firenze, e andato una mattina in bottega di Giotto che lavorava, gli espose la mente del Papa e in che modo si voleva valere dell'opera sua, et in ultimo gli chiese un poco di disegno per mandarlo a Sua Santità. Giotto, che garbatissimo era, prese un foglio, et in quello con un pennello tinto di rosso, fermato il braccio al fianco per farne compasso e girato la mano, fece un tondo sì pari di sesto e di profilo, che fu a vederlo una maraviglia. Ciò fatto, ghignando, disse al cortigiano: “Eccovi il disegno”. Colui come beffato disse: “Ho io avere altro disegno che questo?”. “Assai e pur troppo è questo”, rispose Giotto, “mandatelo insieme con gli altri, e vedrete se sarà conosciuto.” Il mandato, vedendo non potere altro avere, si partì da lui assai male sodisfatto, dubitando non essere ucellato. Tuttavia mandando al Papa gli altri disegni e i nomi di chi li aveva fatti, mandò anco quel di Giotto, raccontando il modo che aveva tenuto nel fare il suo tondo senza muovere il braccio e senza seste. Onde il Papa e molti cortigiani intendenti conobbero per ciò quanto Giotto avanzasse d'eccellenza tutti gli altri pittori del suo tempo. Divolgatasi poi questa cosa, ne nacque il proverbio che ancora è in uso dirsi agli uomini di grossa pasta: “Tu sei più tondo che l'O di Giotto”: il qual proverbio non solo per lo caso donde nacque si può dir bello, ma molto più per lo suo significato, che consiste nell'ambiguo, pigliandosi “tondo” in Toscana, oltre alla figura circolare perfetta, per tardità e grossezza d'ingegno.

Fecelo dunque il predetto Papa andare a Roma, dove onorando molto e riconoscendo la virtù di lui, gli fece nella tribuna di S. Piero dipignere cinque storie della vita di Cristo, e nella sagrestia la tavola principale, che furono da lui con tanta diligenza condotte, che non uscì mai a tempera delle sue mani il più pulito lavoro; onde meritò che il Papa, tenendosi ben servito, facesse dargli per premio secento ducati d'oro, oltre avergli fatto tanti favori, che ne fu detto per tutta Italia.

Fu in questo tempo a Roma molto amico di Giotto (per non tacere cosa degna di memoria che appartenga all'arte) Oderigi d'Agobbio eccellente miniatore in que' tempi, il quale condotto perciò dal Papa miniò molti libri per la libreria di palazzo, che sono in gran parte oggi consumati dal tempo. E nel mio libro de' disegni antichi sono alcune reliquie di man propria di costui, che invero fu valente uomo; sebbene fu molto miglior maestro di lui Franco Bolognese miniatore, che per lo stesso Papa e per la stessa libreria ne' medesimi tempi lavorò assai cose eccellentemente in quella maniera, come si può vedere nel detto libro, dove ho di sua mano disegni di pitture e di minio, e fra essi un'aquila molto ben fatta, et un lione che rompe un albero, bellissimo. Di questi due miniatori eccellenti fa menzione Dante nell'undecimo capitolo del Purgatorio, dove si ragiona de' vanagloriosi, con questi versi:

O, dissi lui, non se' tu Oderigi, l'onor d'Agobbio e l'onor di quell'arte, ch'alluminare è chiamata in Parigi? Frate, diss'egli, più ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese: l'onor è tutto or suo, e mio in parte.

Il Papa avendo veduto queste opere, e piacendogli la maniera di Giotto infinitamente, ordinò che facesse intorno in-torno a S. Piero istorie del Testamento Vecchio e Nuovo: onde cominciando, fece Giotto a fresco l'Angelo, di sette braccia, che è sopra l'organo e molte altre pitture, delle quali parte sono da altri state restaurate a' dì nostri, e parte nel rifondare le mura nuove, o state disfatte o trasportate dall'edifizio vecchio di S. Piero fin sotto l'organo: come una Nostra Donna in muro, la quale perché non andasse per terra, fu tagliato attorno il muro et allacciato con travi e ferri, e così levata, e murata poi, per la sua bellezza, dove volle la pietà et amore che porta alle cose eccellenti dell'arte messer Niccolò Acciaiuoli, dottore fiorentino, il quale di stucchi e d'altre moderne pitture adornò riccamente quest'opera di Giotto. Di mano del quale ancora fu la nave di musaico ch'è sopra le tre porte del portico nel cortile di S. Piero, la quale è veramente miracolosa e meritamente lodata da tutti i belli ingegni, perché in essa, oltre al disegno, vi è la disposizione degli Apostoli, che in diverse maniere travagliano per la tempesta del mare, mentre soffiano i venti in una vela, la quale ha tanto rilievo, che non farebbe altrettanto una vera; e pure è difficile avere a fare di que' pezzi di vetri una unione, come quella che si vede ne' bianchi e nell'ombre di sì gran vela, la quale col pennello, quando si facesse ogni sforzo, a fatica si pareggerebbe; senzaché in un pescatore, il quale pesca in sur uno scoglio a lenza, si conosce nell'attitudine una pacienza estrema propria di quell'arte, e nel volto la speranza e la voglia di pigliare. Sotto questa opera sono tre archetti in fresco, de' quali, essendo per la maggior parte guasti, non dirò altro. Le lodi dunque, date universalmente dagli artefici a quest'opera, se le convengono.

Avendo poi Giotto nella Minerva, chiesa de' frati Predicatori, dipinto in una tavola un Crucifisso grande colorito a tempera, che fu allora molto lodato, se ne tornò, essendone stato fuori sei anni, alla patria. Ma essendo non molto dopo creato papa Clemente Quinto in Perugia, per esser morto papa Benedetto Nono, fu forzato Giotto andarsene con quel Papa là dove condusse la corte, in Avignone, per farvi alcune opere; per che andato, fece, non solo in Avignone, ma in molti altri luoghi di Francia, molte tavole e pitture a fresco bellissime, le quali piacquero infinitamente al Pontefice e a tutta la corte. Laonde, spedito che fu, lo licenziò amorevolmente e con molti doni; onde se ne tornò a casa non meno ricco che onorato e famoso, e fra l'altre cose recò il ritratto di quel Papa, il quale diede poi a Taddeo Gaddi suo discepolo: e questa tornata di Giotto in Firenze fu l'anno 1316. Ma non però gli fu conceduto fermarsi molto in Firenze; perché condotto a Padoa per opera de' Signori della Scala, dipinse nel Santo, chiesa stata fabricata in que' tempi, una capella bellissima. Di lì andò a Verona, dove a messer Cane fece nel suo palazzo alcune pitture e particolarmente il ritratto di quel Signore; e ne' frati di S. Francesco una tavola. Compiute queste opere, nel tornarsene in Toscana gli fu forza fermarsi in Ferrara, e dipignere in servigio di que' Signori Estensi in palazzo, et in S. Agostino alcune cose che ancora oggi vi si veggiono.

Intanto venendo agli orecchi di Dante poeta fiorentino che Giotto era in Ferrara, operò di maniera che lo condusse a Ravenna, dove egli si stava in esilio, e gli fece fare in S. Francesco per i Signori da Polenta alcune storie in fresco in-torno alla chiesa, che sono ragionevoli. Andato poi da Ravenna a Urbino, ancor quivi lavorò alcune cose. Poi occorrendogli passar per Arezzo, non potette non compiacere Piero Saccone che molto l'aveva carezzato, onde gli fece in un pilastro della capella maggiore del Vescovado in fresco un S. Martino, che tagliatosi il mantello nel mezzo, ne dà una parte a un povero che gli è inanzi quasi tutto ignudo. Avendo poi fatto nella Badia di Santa Fiora, in legno, un Crucifisso grande a tempera, che è oggi nel mezzo di quella chiesa, se ne ritornò finalmente in Firenze, dove fra l'altre cose, che furono molte, fece nel monasterio delle Donne di Faenza alcune pitture et in fresco et a tempera, che oggi non sono in essere per esser rovinato quel monasterio.

Similmente l'anno 1322, essendo l'anno innanzi con suo molto dispiacere morto Dante suo amicissimo, andò a Lucca, et a richiesta di Castruccio, Signore allora di quella città sua patria, fece una tavola in S. Martino, drentovi un Cristo in aria e quattro Santi protettori di quella città, cioè S. Piero, S. Regolo, S. Martino e S. Paulino, i quali mostrano di raccomandare un Papa et un Imperator: i quali, secondo che per molti si crede, sono Federigo Bavaro e Nicola Quinto antipapa. Credono parimente alcuni che Giotto disegnasse a S. Fridiano nella medesima città di Lucca il castello e fortezza della Giusta, che è inespugnabile.

Dopo, essendo Giotto ritornato in Firenze, Ruberto re di Napoli scrisse a Carlo duca di Calavria suo primogenito, il quale si trovava in Firenze, che per ogni modo gli mandasse Giotto a Napoli, perciò che avendo finito di fabricare S. Chiara monasterio di donne e chiesa reale, voleva che da lui fusse di nobile pittura adornata. Giotto adunque sentendosi da un re tanto lodato e famoso chiamare, andò più che volentieri a servirlo, e giunto, dipinse in alcune capelle del detto monasterio molte storie del Vecchio Testamento e Nuovo. E le storie de l'Apocalisse che fece in una di dette capelle, furono, per quanto si dice, invenzione di Dante, come per avventura furono anco quelle tanto lodate d'Ascesi, delle quali si è di sopra a bastanza favellato; e sebbene Dante in questo tempo era morto, potevano averne avuto, come spesso avviene fra gli amici, ragionamento. Ma per tornare a Napoli, fece Giotto nel Castello dell'Uovo molte opere, e particolarmente la capella che molto piacque a quel re, dal quale fu tanto amato, che Giotto molte volte lavorando si trovò essere trattenuto da esso re, che si pigliava a piacere di vederlo lavorare e d'udire i suoi ragionamenti; e Giotto, che aveva sempre qualche motto alle mani e qualche risposta arguta in pronto, lo tratteneva con la mano dipignendo, e con ragionamenti piacevoli motteggiando. Onde dicendogli un giorno il re, che voleva farlo il primo uomo di Napoli, rispose Giotto: “E perciò sono io alloggiato a Porta Reale: per esser il primo di Napoli”. Un'altra volta dicendogli il re: “Giotto, se io fussi in te, ora che fa caldo, tralascerei un poco il dipignere”, rispose: “Et io certo, s'io fussi voi”.

Essendo dunque al re molto grato, gli fece, in una sala che il re Alfonso Primo rovinò per fare il castello, e così nel-l'Incoronata, buon numero di pitture, e fra l'altre della detta sala vi erano i ritratti di molti uomini famosi, e fra essi quello di esso Giotto; al quale avendo un giorno per capriccio chiesto il re, che gli dipignesse il suo reame, Giotto, secondo che si dice, gli dipinse un asino imbastato che teneva ai piedi un altro basto nuovo, e fiutandolo facea sembiante di desiderarlo, et in su l'uno e l'altro basto nuovo era la corona reale e lo scettro della podestà: onde dimandato Giotto dal re, quello che cotale pittura significasse, rispose, tale i sudditi suoi essere e tale il regno, nel quale ogni giorno nuovo Signore si desidera.

Partito Giotto da Napoli per andare a Roma, si fermò a Gaeta, dove gli fu forza nella Nunziata far di pittura alcune storie del Testamento Nuovo, oggi guaste dal tempo, ma non però in modo che non vi si veggia benissimo il ritratto d'esso Giotto appresso a un Crucifisso grande molto bello. Finita quest'opera, non potendo ciò negare al signor Malatesta, prima si trattenne per servigio di lui alcuni giorni in Roma, e di poi se n'andò a Rimini, della qual città era il detto Malatesta signore, e lì nella chiesa di S. Francesco fece moltissime pitture, le quali poi da Gismondo figliuolo di Pandolfo Malatesti, che rifece tutta la detta chiesa di nuovo, furono gettate per terra e rovinate.

Fece ancora nel chiostro di detto luogo all'incontro della facciata della chiesa in fresco l'istoria della beata Michelina, che fu una delle più belle ed eccellenti cose che Giotto facesse già mai, per le molte e belle considerazioni che egli ebbe nel lavorarla; perché oltr'alla bellezza de' panni e la grazia e vivezza delle teste che sono miracolose, vi è, quanto può donna esser bella, una giovane, la qual per liberarsi dalla calunnia dell'adulterio, giura sopra un libro in atto stupendissimo, tenendo fissi gl'occhi suoi in quelli del marito, che giurare la facea per diffidenza d'un figliuolo nero parto-rito da lei, il quale in nessun modo poteva acconciarsi a credere che fusse suo. Costei, sì come il marito mostra lo sdegno e la diffidenza nel viso, fa conoscere con la pietà della fronte e degli occhi a coloro che intentissimamente la contemplano, la innocenza e semplicità sua, et il torto che se le fa, facendola giurare, e publicandola a torto per meretrice. Medesimamente grandissimo affetto fu quello ch'egli espresse in un infermo di certe piaghe: perché tutte le femmine che gli sono intorno, offese dal puzzo, fanno certi storcimenti schifi i più graziati del mondo. Li scorti poi, che in un altro quadro si veggiono fra una quantità di poveri rattratti, sono molto lodevoli e deono essere, appresso gl'artefici, in pregio, perché da essi si è avuto il primo principio e modo di farli; senzaché non si può dire che siano, come primi, se non ragionevoli. Ma sopra tutte l'altre cose che sono in questa opera, è maravigliosissimo l'atto che fa la sopra detta beata verso certi usurai che le sborsano i danari dalla vendita delle sue possessioni per dargli a' poveri; perché in lei si dimostra il dispregio de' danari e dell'altre cose terrene, le quali pare che le putino; et in quelli il ritratto stesso dell'avari-zia e ingordigia umana. Parimente la figura d'uno che annoverandole i danari, pare che accenni al notaio che scriva, è molto bella; considerato, che sebbene ha gli occhi al notaio, tenendo nondimeno le mani sopra i danari, fa conoscere l'affezione, l'avarizia sua e la diffidenza. Similmente le tre figure che in aria sostengono l'abito di S. Francesco, figurate per l'Ubbidienza, Pacienza e Povertà sono degne d'infinita lode, per essere massimamente nella maniera de' panni un naturale andar di pieghe, che fa conoscere che Giotto nacque per dar luce alla pittura. Ritrasse oltre ciò tanto naturale il signor Malatesta in una nave di questa opera, che pare vivissimo: et alcuni marinari et altre genti nella prontezza, nel-l'affetto e nell'attitudini, e particolarmente una figura, che parlando con alcuni, e mettendosi una mano al viso, sputa in mare, fa conoscere l'eccellenza di Giotto. E certamente fra tutte le cose di pittura fatte da questo maestro, questa si può dire che sia una delle migliori; perché non è figura in sì gran numero, che non abbia in sé grandissimo artifizio e che non sia posta con capricciosa attitudine. E però non è maraviglia, se non mancò il signor Malatesta di premiarlo magnificamente e lodarlo.

Finiti i lavori di quel Signore, fece, pregato da un priore fiorentino che allora era in S. Cataldo d'Arimini, fuor della porta della chiesa, un S. Tommaso d'Aquino che legge a' suoi frati. Di quivi partito, tornò a Ravenna, et in S. Giovanni Evangelista fece una capella a fresco lodata molto. Essendo poi tornato a Firenze con grandissimo onor e con buone facultà, fece in S. Marco a tempera un Crucifisso in legno maggiore che il naturale e in campo d'oro, il quale fu messo a man destra in chiesa; et un altro simile ne fece in S. Maria Novella, in sul quale Puccio Capanna, suo creato, lavorò in sua compagnia: e quest'è ancor oggi sopra la porta maggiore nell'entrare in chiesa a man destra sopra la sepoltura de' Gaddi. E nella medesima chiesa fece sopra il tramezzo un S. Lodovico e Paulo di Lotto Ardinghelli, et a' piedi il ritratto di lui e della moglie, di naturale.

L'anno poi 1327 essendo Guido Tarlati da Pietramala, vescovo e signore d'Arezzo, morto a Massa di Maremma nel tornare da Lucca, dove era stato a visitare l'Imperatore, poi che fu portato in Arezzo il suo corpo, e lì ebbe avuta l'ono-ranza del mortorio onoratissima, deliberarono Piero Saccone e Dolfo da Pietramala, fratello del vescovo, che gli fosse fatto un sepolcro di marmo degno della grandezza di tanto uomo, stato signore spirituale e temporale, e capo di Parte ghibellina in Toscana. Per che, scritto a Giotto che facesse il disegno d'una sepoltura ricchissima, e quanto più si potes-se onorata, e mandatogli le misure, lo pregarono appresso, che mettesse loro per le mani uno scultore il più eccellente, secondo il parer suo, di quanti ne erano in Italia, perché si rimettevano di tutto al giudizio di lui. Giotto, che cortese era, fece il disegno e lo mandò loro; e secondo quello, come al suo luogo si dirà, fu fatta la detta sepoltura. E perché il detto Piero Saccone amava infinitamente la virtù di questo uomo, avendo preso, non molto dopo che ebbe avuto il detto disegno, il Borgo a S. Sepolcro, di là condusse in Arezzo una tavola di man di Giotto di figure piccole, che poi se n'è ita in pezzi; e Baccio Gondi gentiluomo fiorentino, amatore di queste nobili arti e di tutte le virtù, essendo commessario d'A-rezzo, ricercò con gran diligenza i pezzi di questa tavola, e trovatone alcuni, gli condusse a Firenze, dove gli tiene in gran venerazione insieme con alcune altre cose che ha di mano del medesimo Giotto; il quale lavorò tante cose che raccontandole non si crederebbe.

E non sono molti anni, che trovandomi io all'eremo di Camaldoli, dove ho molte cose lavorato a que' reverendi padri, vidi in una cella (e vi era stato portato dal molto reverendo don Antonio da Pisa, allora Generale della congregazione di Camaldoli) un Crucifisso piccolo in campo d'oro, e col nome di Giotto di sua mano, molto bello: il quale Crucifisso si tiene oggi, secondo che mi dice il reverendo don Silvano Razzi, monaco camaldolese, nel monasterio degl'Angeli di Firenze, nella cella del maggiore, come cosa rarissima per essere di mano di Giotto, et in compagnia d'un bellissimo quadretto di mano di Raffaello da Urbino.

Dipinse Giotto ai frati Umiliati d'Ognissanti di Firenze una cappella e quattro tavole, e fra l'altre in una la Nostra Donna con molti angeli intorno e col Figliuolo in braccio, et un Crucifisso grande in legno; dal quale Puccio Capanna pigliando il disegno, ne lavorò poi molti per tutta Italia, avendo molto in pratica la maniera di Giotto. Nel tramezzo di detta chiesa era, quando questo libro delle Vite de' pittori, scultori e architetti si stampò la prima volta, una tavolina a tempera stata dipinta da Giotto con infinita diligenza, dentro la quale era la morte di Nostra Donna con gl'Apostoli in-torno, e con un Cristo che in braccio l'anima di lei riceveva. Questa opera dagl'artefici pittori era molto lodata, e particolarmente da Michelagnolo Buonarroti, il quale affermava, come si disse altra volta, la proprietà di questa istoria di-pinta non potere essere più simile al vero di quello ch'ell'era. Questa tavoletta, dico, essendo venuta in considerazione, da che si diede fuora la prima volta il libro di queste Vite, è stata poi levata via da chi che sia: che forse per amor del-l'arte e per pietà, parendogli che fusse poco stimata, si è fatto, come disse il nostro poeta, spietato. E veramente fu in que' tempi un miracolo, che Giotto avesse tanta vaghezza nel dipignere, considerando massimamente che egli imparò l'arte, in un certo modo, senza maestro.

Dopo queste cose mise mano l'anno 1334 a dì 9 di luglio al campanile di S. Maria del Fiore; il fondamento del quale fu, essendo stato cavato venti braccia a dentro, una platea di pietre forti, in quella parte donde si era cavata acqua e ghiaia; sopra la quale platea, fatto poi un buon getto che venne alto dodici braccia dal primo fondamento, fece fare il rimanente, cioè l'altre otto braccia di muro a mano. E a questo principio e fondamento intervenne il vescovo della città, il quale, presente tutto il clero e tutti i magistrati, mise solennemente la prima pietra. Continuandosi poi questa opera col detto modello, che fu di quella maniera tedesca che in quel tempo s'usava, disegnò Giotto tutte le storie che andavano nell'ornamento, e scompartì di colori bianchi, neri e rossi il modello in tutti que' luoghi dove avevano a andare le pietre e i fregi, con molta diligenza. Fu il circuito da basso in giro largo braccia cento, cioè braccia venticinque per ciascuna faccia, e l'altezza braccia centoquarantaquattro. E se è vero, che tengo per verissimo, quello che lasciò scritto Lorenzo di Cione Ghiberti, fece Giotto non solo il modello di questo campanile, ma di scultura ancora e di rilievo parte di quelle storie di marmo, dove sono i principii di tutte l'arti. E Lorenzo detto afferma aver veduto modelli di rilievo di man di Giotto, e particolarmente quelli di queste opere; la qual cosa si può creder agevolmente, essendo il disegno e l'invenzione il padre e la madre di tutte quest'arti e non d'una sola.

Doveva questo campanile, secondo il modello di Giotto, avere per finimento, sopra quello che si vede, una punta ovvero piramide quadra alta braccia cinquanta, ma per essere cosa tedesca e di maniera vecchia, gli architettori moderni non hanno mai se non consigliato che non si faccia, parendo che stia meglio così. Per le quali tutte cose fu Giotto non pure fatto cittadino fiorentino, ma provisionato di cento fiorini d'oro l'anno dal Comune di Firenze, ch'era in que' tempi gran cosa, e fatto proveditore sopra questa opera; che fu seguitata dopo lui da Taddeo Gaddi, non essendo egli tanto vivuto che la potesse vedere finita.

Ora mentre che quest'opera si andava tirando inanzi, fece alle monache di S. Giorgio una tavola, e nella Badia di Firenze in un arco sopra la porta di dentro la chiesa tre mezze figure, oggi coperte di bianco per illuminare la chiesa. E nella sala grande del Podestà di Firenze dipinse il Comune rubato da molti, dove in forma di giudice con lo scettro in mano lo figurò a sedere, e sopra la testa gli pose le bilance pari per le giuste ragioni ministrate da esso, aiutato da quattro virtù, che sono la Fortezza con l'animo, la Prudenza con le leggi, la Giustizia con l'armi e la Temperanza con le parole: pittura bella et invenzione propria e verissimile.

Appresso, andato di nuovo a Padoa, oltre a molte altre cose e cappelle ch'egli vi dipinse, fece nel luogo dell'Arena una Gloria mondana, che gl'arrecò molto onore e utile. Lavorò anco in Milano alcune cose che sono sparse per quella città, e che insino a oggi sono tenute bellissime.

Finalmente tornato da Milano, non passò molto che, avendo in vita fatto tante e tanto bell'opere, et essendo stato non meno buon cristiano che eccellente pittore, rendé l'anima a Dio l'anno 1336, con molto dispiacere di tutti i suoi cittadini, anzi di tutti coloro che non pure l'avevano conosciuto, ma udito nominare: e fu sepellito, sì come le sue virtù meritavano, onoratamente, essendo stato in vita amato da ognuno, e particolarmente dagli uomini eccellenti in tutte le professioni; perché oltre a Dante, di cui avemo di sopra favellato, fu molto onorato dal Petrarca, egli e l'opere sue: in-tanto che si legge nel testamento suo ch'egli lascia al signor Francesco da Carrara signor di Padoa, fra l'altre cose da lui tenute in somma venerazione, un quadro di man di Giotto drentovi una Nostra Donna, come cosa rara e stata a lui gratissima. E le parole di quel capitolo del testamento dicono così: “Transeo ad dispositionem aliarum rerum; et praedicto igitur domino meo Paduano, quia et ipse per Dei gratiam non eget, et ego nihil aliud habeo dignum se, mitto tabulam meam sive historiam Beatae Virginis Mariae operis Jocti pictoris egregii, quae mihi ab amico meo Michaele Vannis de Florentia missa est, in cuius pulchritudinem ignorantes non intelligunt, magistri autem artis stupent: hanc iconam ipsi

domino lego, ut ipsa Virgo benedicta sibi sit propitia apud filium suum Jesum Christum etc.”. Et il medesimo Petrarca, in una sua epistola latina nel quinto libro delle Familiari, dice queste parole: “Atque (ut a veteribus ad nova, ab externis ad nostra transgrediar), duos ego novi pictores egregios, nec formosos, Iottum Florentinum civem, cuius inter modernos fama ingens est, et Simonem Senensem. Novi sculptores aliquot etc.”.

Fu sotterrato in S. Maria del Fiore dalla banda sinistra entrando in chiesa, dove è un matton di marmo bianco per memoria di tanto uomo. E come si disse nella vita di Cimabue, un comentator di Dante, che fu nel tempo che Giotto viveva, disse: “Fu et è Giotto tra i pittori il più sommo della medesima città di Firenze, e le sue opere il testimoniano a Roma, a Napoli, a Vignone, a Fiorenza, Padoa, e in molte altre parti del mondo”.

I discepoli suoi furono Taddeo Gaddi, stato tenuto da lui a battesimo, come s'è detto, e Puccio Capanna fiorentino, che in Rimini nella chiesa di S. Cataldo de' frati Predicatori dipinse perfettamente in fresco un voto d'una nave che pare che affoghi nel mare, con uomini che gettano robbe nell'acqua, de' quali è uno esso Puccio, ritratto di naturale, fra un buon numero di marinari. Dipinse il medesimo in Ascesi nella chiesa di S. Francesco molte opere dopo la morte di Giotto, et in Fiorenza nella chiesa di S. Trinita, fece allato alla porta del fianco verso il fiume la cappella degli Strozzi, dove è in fresco la coronazione della Madonna con un coro d'Angeli, che tirano assai alla maniera di Giotto; e dalle bande sono storie di S. Lucia molto ben lavorate. Nella Badia di Firenze dipinse la cappella di S. Giovanni Evangelista della famiglia de' Covoni allato alla sagrestia. Et in Pistoia fece a fresco la cappella maggiore della chiesa di S. Francesco, e la cappella di S. Lodovico, con le storie loro, che sono ragionevoli. Nel mezzo della chiesa di S. Domenico della medesima città è un Crucifisso, una Madonna, et un S. Giovanni con molta dolcezza lavorati, e ai piedi un'ossatura di morto intera, nella quale, che fu cosa inusitata in que' tempi, mostrò Puccio aver tentato di vedere i fondamenti dell'ar-te; in questa opera si legge il suo nome fatto da lui stesso in questo modo: PUCCIO DI FIORENZA ME FECE; e di sua mano ancora in detta chiesa sopra la porta di S. Maria Nuova nell'arco, tre mezze figure, la Nostra Donna col Figliuolo in braccio e S. Piero da una banda e dall'altra S. Francesco.

Dipinse ancora nella già detta città d'Ascesi, nella chiesa di sotto S. Francesco, alcune storie della Passione di Gesù Cristo in fresco con buona pratica e molto risoluta, e nella cappella della chiesa di S. Maria degl'Angeli, lavorata a fresco, un Cristo in gloria con la Vergine che lo priega pel popolo cristiano, la quale opera, che è assai buona, è tutta affumicata dalle lampane e dalla cera che in gran copia vi si arde continuamente. E di vero, per quello che si può giudicare, avendo Puccio la maniera e tutto il modo di fare di Giotto suo maestro, egli se ne seppe servire assai nell'opere che fece, ancor che, come vogliono alcuni, egli non vivesse molto, essendosi infermato e morto per troppo lavorare in fresco. È di sua mano, per quello che si conosce, nella medesima chiesa la cappella di S. Martino e le storie di quel Santo lavorate in fresco per lo cardinal Gentile. Vedesi ancora a mezza la strada nominata Portica un Cristo alla colonna, ed in un quadro la Nostra Donna e S. Caterina e S. Chiara che la mettono in mezzo.

Sono sparte in molti altri luoghi opere di costui, come in Bologna una tavola nel tramezzo della chiesa con la Passione di Cristo e storie di S. Francesco; e insomma altre che si lasciano per brevità. Dirò bene che in Ascesi, dove sono il più dell'opere sue, e dove mi pare che egli aiutasse a Giotto a dipignere, ho trovato che lo tengono per loro cittadino, e che ancora oggi sono in quella città alcuni della famiglia de' Capanni. Onde facilmente si può credere che nascesse in Firenze, avendolo scritto egli, e che fusse discepolo di Giotto, ma che poi togliesse moglie in Ascesi, che quivi avesse figliuoli, e ora vi siano descendenti. Ma perché ciò sapere a punto non importa più che tanto, basta che egli fu buon maestro.

Fu similmente discepolo di Giotto e molto pratico dipintore Ottaviano da Faenza, che in S. Giorgio di Ferrara, luogo de' monaci di Monte Oliveto, dipinse molte cose; et in Faenza, dove egli visse e morì, dipinse nell'arco sopra la porta di

S. Francesco una Nostra Donna, e S. Piero e S. Paulo, e molte altre cose in detta sua patria et in Bologna.

Fu anche discepolo di Giotto Pace da Faenza, che stette seco assai e l'aiutò in molte cose; et in Bologna sono di sua mano nella facciata di fuori di S. Giovanni Decollato alcune storie in fresco. Fu questo Pace valente uomo, ma particolarmente in fare figure piccole, come si può insino a oggi veder nella chiesa di S. Francesco di Forlì in un albero di croce e in una tavoletta a tempera, dove è la vita di Cristo e quattro storiette della vita di Nostra Donna, che tutte sono molto ben lavorate. Dicesi che costui lavorò in Ascesi in fresco nella capella di S. Antonio alcune istorie della vita di quel Santo, per un Duca di Spoleti ch'è sotterrato in quel luogo con un suo figliuolo, essendo stati morti in certi sobborghi d'Ascesi combattendo, secondo che si vede in una lunga inscrizione che è nella cassa del detto sepolcro. Nel vecchio libro della Compagnia de' Dipintori si trova essere stato discepolo del medesimo un Francesco detto di maestro Giotto, del quale non so altro ragionare.

Guglielmo da Forlì fu anche egli discepolo di Giotto, et oltre a molte altre opere, fece in S. Domenico di Forlì sua patria la capella dell'altar maggiore. Furono anco discepoli di Giotto, Pietro Laurati, Simon Memmi sanesi, Stefano fiorentino, e Pietro Cavallini romano. Ma perché di tutti questi si ragiona nella vita di ciascun di loro, basti in questo luogo aver detto che furono discepoli di Giotto: il quale disegnò molto bene nel suo tempo, e di quella maniera, come ne fanno fede molte carte pecore disegnate di sua mano di acquerello e profilate di penna, e di chiaro e scuro, e lumeggiate di bianco, le quali sono nel nostro libro de' disegni, e sono, a petto a quelli de' maestri stati innanzi a lui, veramente una maraviglia.

Fu, come si è detto, Giotto ingegnoso e piacevole molto e ne' motti argutissimo, de' quali n'è anco viva memoria in questa città; perché oltre a quello che ne scrisse messer Giovanni Boccaccio, Franco Sacchetti nelle sue trecento Novel-le ne racconta molti e bellissimi, de' quali non mi parrà fatica scriverne alcuni con le proprie parole appunto di esso Franco, acciò con la narrazione della novella si vegghino anco alcuni modi di favellare e locuzioni di que' tempi. Dice dunque in una, per mettere la rubrìca:

A Giotto gran dipintore è dato un palvese a dipignere da un uomo di picciol affare. Egli facendosene scherne, lo dipigne per forma che colui rimane confuso.

NOVELLA

“Ciascuno può avere già udito chi fu Giotto, e quando fu gran dipintore sopra ogn'altro. Sentendo la fama sua un grossolano, et avendo bisogno, forse per andare in castellaneria, di far dipignere un suo palvese, subito n'andò alla bottega di Giotto avendo chi gli portava il palvese drieto; e giunto dove trovò Giotto, disse: "Dio ti salvi, maestro: io vorrei che mi dipignessi l'arme mia in questo palvese". Giotto considerando e l'uomo e 'l modo, non disse altro se non: "Quando il vuo' tu?" e quel glielo disse. Disse Giotto: "Lascia far me". E partissi. E Giotto essendo rimaso, pensa fra se medesimo: "Che vuol dir questo? sarebbemi stato mandato costui per ischerne? sia che vuole; mai non mi fu recato palvese a dipignere. E costui che 'l reca è un omiciatto semplice, e dice ch'io gli facci l'arme sua, come se fosse de' Reali di Francia. Per certo io gli debbo fare una nuova arme". E così pensando fra se medesimo, si recò inanzi il detto palvese, e disegnato quello gli parea, disse a un suo discepolo desse fine alla dipintura; e così fece. La quale dipintura fu una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti di ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello, et una lancia.

Giunto il valente uomo, che non sapea chi si fusse, fassi innanzi e dice: "Maestro, è dipinto quel palvese?". Disse Giotto: "Sì bene: va, recalo giù". Venuto il palvese, e quel gentiluomo per procuratore il comincia a guardare, e dice a Giotto: "Oh che imbratto è questo che tu m'hai dipinto?". Disse Giotto: "E' ti parrà ben imbratto al pagare". Disse quegli: "Io non ne pagherei quattro danari". Disse Giotto: "E che mi dicestù ch'io dipignessi?". E quel rispose: "L'arme mia". Disse Giotto: "Non è ella qui? mancacene niuna?". Disse costui: "Ben istà". Disse Giotto: "Anzi sta male, che Dio ti dia, e déi essere una gran bestia, che chi ti dicesse, 'chi se' tu', appena lo sapresti dire; e giugni qui, e di': 'dipignimi l'arme mia'. Se tu fussi stato de' Bardi, sarebbe basto. Che arme porti tu? di qua' se' tu? chi furono gl'antichi tuoi? Deh, che non ti vergogni? Comincia prima a venire al mondo, che tu ragioni d'arma, come stu fussi Dusnan di Baviera. Io t'ho fatta tutta armadura sul tuo palvese: se ce n'è più alcuna, dillo, et io la farò dipignere". Disse quello: "Tu mi di' villania, e m'hai guasto un palvese". E partesi, e vassene alla Grascia, e fa richieder Giotto. Giotto compare, e fa richieder lui, adomandando fiorini dua della dipintura: e quello domandava a lui. Udite le ragioni, gli ufficiali, ché molto meglio le dicea Giotto, giudicarono che colui si togliesse il palvese suo così dipinto, e desse lire sei a Giotto, però che gl'aveva ragione. Onde convenne togliesse il palvese e pagasse, e fu prosciolto.

Così costui, non misurandosi, fu misurato.”

Dicesi che stando Giotto ancor giovinetto con Cimabue, dipinse una volta, in sul naso d'una figura che esso Cimabue avea fatta, una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si rimise più d'una volta a cacciarla con mano, pensando che fusse vera, prima che s'accorgesse dell'errore. Potrei molte altre burle fatte da Giotto e molte argute risposte raccontare, ma voglio che queste, le quali sono di cose pertinenti all'arte, mi basti avere detto in questo luogo, rimettendo il resto al detto Franco et altri.

Finalmente, perché restò memoria di Giotto non pure nell'opere che uscirono delle sue mani, ma in quelle ancora che uscirono di mano degli scrittori di que' tempi, essendo egli stato quello che ritrovò il vero modo di dipignere, stato perduto inanzi a lui molti anni, onde per publico decreto, e per opera et affezzione particolare del Magnifico Lorenzo vecchio de' Medici, ammirate le virtù di tanto uomo, fu posta in S. Maria del Fiore l'effigie sua scolpita di marmo da Benedetto da Maiano scultore eccellente, con gl'infrascritti versi fatti dal divino uomo messer Angelo Poliziano, acciò che quelli che venissero eccellenti in qualsivoglia professione, potessero sperare d'avere a conseguire da altri di queste memorie, che meritò e conseguì Giotto dalla bontà sua largamente:

Ille ego sum, per quem pictura extinta revixit, cui quam recta manus, tam fuit et facilis. Naturae deerat nostrae quod defuit arti: plus licuit nulli pingere, nec melius. Miraris turrim egregiam sacro aere sonantem? Haee quoque de modulo crevit ad astra meo. Denique sum Jottus, quid opus fuit illa referre? Hoc nomen longi carminis instar erit.

E perché possino coloro che verranno vedere dei disegni di man propria di Giotto, e da quelli conoscere maggiormente l'eccellenza di tanto uomo, nel nostro già detto libro ne sono alcuni maravigliosi, stati da me ritrovati con non minore diligenza che fatica e spesa.

FINE DELLA VITA DI GIOTTO

VITA DI AGOSTINO ET AGNOLO

SCULTORI ET ARCHITETTI SANESI

Fra gl'altri che nella scuola di Giovanni e Nicola scultori pisani si esercitarono, Agostino et Agnolo scultori sanesi, de' quali al presente scriviamo la vita, riuscirono secondo que' tempi eccellentissimi. Questi, secondo che io trovo, nacquero di padre e madre sanesi, e gli antenati loro furono architetti: conciò sia che l'anno 1190 sotto il reggimento de' tre Consoli, fusse da loro condotta a perfezzione Fontebranda, e poi l'anno seguente, sotto il medesimo consolato, la Dogana di quella città et altre fabriche. E nel vero si vede che i semi della virtù, molte volte, nelle case dove sono stati per alcun tempo, germogliano e fanno rampolli, che poi producono maggiori e migliori frutti, che le prime piante fatto non avevano.

Agostino, dunque, et Agnolo aggiugnendo molto miglioramento alla maniera di Giovanni e Nicola Pisani, arricchirono l'arte di miglior disegno et invenzione, come l'opere loro chiaramente ne dimostrano.

Dicesi che tornando Giovanni sopra detto da Napoli a Pisa l'anno 1284, si fermò in Siena a fare il disegno e fondare la facciata del Duomo, dinanzi dove sono le tre porte principali, perché si adornasse tutta di marmi riccamente; e che allora non avendo più che quindici anni, andò a star seco Agostino per attendere alla scultura, della quale aveva imparato i primi principii, essendo a quell'arte non meno inclinato, che alle cose d'architettura. E così sotto la disciplina di Giovanni, mediante un continuo studio, trapassò in disegno, grazia e maniera tutti i condiscepoli suoi, intanto che si diceva per ognuno che egli era l'occhio diritto del suo maestro. E perché nelle persone che si amano si disiderano, sopra tutti gli altri beni o di natura o d'animo o di fortuna, la virtù che sola rende gli uomini grandi e nobili, e, più, in questa vita e nell'altra felicissimi, tirò Agostino, con questa occasione di Giovanni, Agnolo suo fratello minore al medesimo esercizio. Né gli fu il ciò fare molta fatica; perché il praticar d'Agnolo con Agostino e con gli altri scultori, gl'aveva di già, vedendo l'onore e utili che traevano di cotal arte, l'animo acceso d'estrema voglia e disiderio d'attendere alla scultura: anzi prima che Agostino a ciò avesse pensato, aveva fatto Agnolo nascosamente alcune cose.

Trovandosi dunque Agostino a lavorare con Giovanni la tavola di marmo dell'altar maggiore del Vescovado d'Arez-zo, della quale si è favellato di sopra, fece tanto, che vi condusse il detto Agnolo suo fratello, il quale si portò di maniera in quell'opera, che finita ch'ella fu, si trovò avere nell'eccellenza dell'arte raggiunto Agostino. La qual cosa conosciuta da Giovanni, fu cagione che dopo questa opera si servì dell'uno e dell'altro in molti altri suoi lavori, che fece in Pistoia, in Pisa, et in altri luoghi. E perché attesero non solamente alla scultura ma all'architettura ancora, non passò molto tempo che reggendo in Siena i Nove, fece Agostino il disegno del loro palazzo in Malborghetto, che fu l'anno 1308. Nel che fare si acquistò tanto nome nella patria, che, ritornati in Siena dopo la morte di Giovanni, furono l'uno e l'altro fatti architetti del publico; onde poi l'anno 1317 fu fatta per loro ordine la facciata del Duomo che è volta a settentrione, e l'anno 1321, col disegno de' medesimi, si cominciò a murare la porta Romana in quel modo che ell'è oggi, e fu finita l'anno 1326; la qual porta si chiamava prima porta S. Martino. Rifeciono anco la porta a Tufi, che prima si chiamava la porta di S. Agata all'arco.

Il medesimo anno fu cominciata col disegno degli stessi Agostino et Agnolo la chiesa e convento di S. Francesco, intervenendovi il cardinale di Gaeta legato apostolico. Né molto dopo per mezzo d'alcuni de' Tolomei, che come esuli si stavano a Orvieto, furono chiamati Agostino et Agnolo a fare alcune sculture per l'opera di S. Maria di quella città.

Per che andati là, fecero di scultura in marmo alcuni profeti, che sono oggi, fra l'altre opere di quella facciata, le migliori e più proporzionate di quell'opera tanto nominata.

Ora, avvenne l'anno 1326, come si è detto nella sua vita, che Giotto fu chiamato per mezzo di Carlo duca di Calavria, che allora dimorava in Fiorenza, a Napoli, per fare al re Ruberto alcune cose in S. Chiara et altri luoghi di quella città: onde passando Giotto nell'andar là da Orvieto per veder l'opere, che da tanti uomini vi si erano fatte e facevano tuttavia, che egli volle veder minutamente ogni cosa. E perché più che tutte l'altre sculture gli piacquero i profeti d'Ago-stino e d'Agnolo sanesi, di qui venne che Giotto non solamente gli commendò, e gli ebbe con molto loro contento nel numero degli amici suoi, ma che ancora gli mise per le mani a Piero Saccone da Pietramala, come migliori di quanti allora fussero scultori, per fare, come si è detto nella vita d'esso Giotto, la sepoltura del vescovo Guido, signore e vescovo d'Arezzo. E così, adunque, avendo Giotto veduto in Orvieto l'opere di molti scultori, e giudicate le migliori quelle d'Agostino et Agnolo sanesi, fu cagione che fu loro data a fare la detta sepoltura, in quel modo però che egli l'aveva disegnata, e secondo il modello che esso aveva al detto Piero Saccone mandato.

Finirono questa sepoltura Agostino et Agnolo in ispazio di tre anni, e con molta diligenza la condussono e murarono nella chiesa del Vescovado di Arezzo nella capella del Sagramento; sopra la cassa, la quale posa in su certi mensoloni intagliati più che ragionevolmente, è disteso di marmo il corpo di quel vescovo, e dalle bande sono alcuni Angeli che tirano certe cortine assai acconciamente. Sono poi intagliate di mezzo rilievo in quadri dodici storie della vita e fatti di quel vescovo, con un numero infinito di figure piccole; il contenuto delle quali storie, acciò si veggia con quanta pacienza furono lavorate, e che questi scultori studiando cercarono la buona maniera, non mi parrà fatica di raccontare.

Nella prima è quando aiutato dalla parte ghibellina di Milano, che gli mandò quattrocento muratori e danari, egli rifà le mura d'Arezzo tutte di nuovo, allungandole tanto più che non erano, che dà loro forma d'una galea; nella seconda è la presa di Lucignano di Valdichiana; nella terza quella di Chiusi; nella quarta quella di Fronzoli, castello allora forte sopra Poppi, e posseduto dai figliuoli del conte di Battifolle; nella quinta è quando il castello di Rondine, dopo essere stato molti mesi assediato dagl'Aretini, si arrende finalmente al vescovo; nella sesta è la presa del castello del Bucine in Valdarno; nella settima è quando piglia per forza la Rocca di Caprese, che era del conte di Romena, dopo averle tenuto l'assedio intorno più mesi; nell'ottava è il vescovo che fa disfare il castello di Laterino e tagliare in croce il poggio che gli è sopra posto, acciò non vi si possa far più fortezza; nella nona si vede che rovina e mette a fuoco e fiamma il Monte Sansavino, cacciandone tutti gli abitatori; nell'undecima è la sua incoronazione, nella quale sono considerabili molti begli abiti di soldati a piè et a cavallo e d'altre genti; nella duodecima finalmente si vede gli uomini suoi portarlo da Montenero, dove ammalò, a Massa, e di lì poi, essendo morto, in Arezzo. Sono anco intorno a questa sepoltura in molti luoghi l'insegne ghibelline e l'arme del vescovo, che sono sei pietre quadre d'oro in campo azzurro, con quell'ordine che stanno le sei palle nell'arme de' Medici. La quale arme della casata del vescovo fu descritta da frate Guittone cavaliere e poeta aretino, quando scrivendo il sito del castello di Pietramala, onde ebbe quella famiglia origine, disse:

Dove si scontra il Giglion con la Chiassa, ivi furono i miei antecessori, che in campo azzurro d'or portan sei sassa.

Agnolo dunque e Agostino sanesi condussono questa opera con miglior arte et invenzione e con più diligenza, che fusse in alcuna cosa stata condotta mai a' tempi loro. E nel vero non deono se non essere infinitamente lodati, avendo in essa fatte tante figure, tante varietà di siti, luoghi, torri, cavalli, uomini et altre cose, che è proprio una maraviglia. Et ancora che questa sepoltura fusse in gran parte guasta dai Franzesi del duca d'Angiò, i quali per vendicarsi con la parte nimica d'alcune ingiurie ricevute, messono la maggior parte di quella città a sacco, ella nondimeno mostra che fu lavo-rata con bonissimo giudizio da Agostino et Agnolo detti, i quali v'intagliarono in lettere assai grandi queste parole: Hoc opus fecit magister Augustinus et magister Angelus de Senis.

Dopo questo, lavorarono in Bologna una tavola di marmo per la chiesa di S. Francesco l'anno 1329, con assai bella maniera, et in essa oltre all'ornamento d'intaglio che è ricchissimo, feciono di figure alte un braccio e mezzo un Cristo che corona la Nostra Donna, e da ciascuna banda tre figure simili, S. Francesco, S. Jacopo, S. Domenico, S. Antonio da Padoa, S. Petronio e S. Giovanni Evangelista; e sotto ciascuna delle dette figure è intagliata una storia di basso rilievo della vita del Santo che è sopra; e in tutte queste istorie è un numero infinito di mezze figure, che secondo il costume di que' tempi fanno ricco e bello ornamento. Si vede chiaramente che durarono Agostino et Agnolo in quest'opera grandissima fatica, e che posero in essa ogni diligenza e studio per farla, come fu veramente, opera lodevole; et ancor che siano mezzi consumati, pur vi si leggono i nomi loro et il millesimo, mediante il quale, sapendosi quando la cominciarono, si vede che penassono a fornirla otto anni interi; ben è vero che in quel medesimo tempo fecero anco molte altre cosette in diversi luoghi et a varie persone.

Ora, mentre che costoro lavoravono in Bologna, quella città mediante un legato del Papa si diede liberamente alla chiesa, e il Papa all'incontro promise che anderebbe ad abitar con la corte a Bologna, ma che per sicurtà sua voleva edificarvi un castello o vero fortezza. La qual cosa essendogli conceduta dai bolognesi, fu con ordine e disegno di Agostino e d'Agnolo tostamente fatta; ma ebbe pochissima vita; perciò che, conosciuto i bolognesi che le molte promesse del Papa erano del tutto vane, con molto maggior prestezza che non era stata fatta, disfecero e rovinarono la detta fortezza.

Dicesi che mentre dimoravano questi due scultori in Bologna, il Po con danno incredibile del territorio mantoano e ferrarese, e con la morte di più che diecimila persone che vi perirono, uscì impetuoso del letto, e rovinò tutto il paese all'intorno per molte miglia, e che perciò chiamati essi, come ingegnosi e valenti uomini, trovarono modo di rimettere quel terribile fiume nel luogo suo, serrandolo con argini et altri ripari utilissimi; il che fu con molta loro lode et utile: perché oltre che n'acquistarono fama, furono dai Signori di Mantoa e dagl'Estensi con onoratissimi premii riconosciuti. Essendo poi tornati a Siena l'anno 1338, fu fatta con ordine e disegno loro la chiesa nuova di S. Maria, appresso al Duomo vecchio verso piazza Manetti; e non molto dopo, restando molto sodisfatti i Sanesi di tutte l'opere che costoro facevano, deliberarono con sì fatta occasione di mettere ad effetto quello di che si era molte volte ma invano insino al-lora ragionato, cioè di fare una fonte publica in su la piazza principale e dirimpetto al palagio della Signoria. Per che, datone cura ad Agostino et Agnolo, eglino condussono per canali di piombo e di terra, ancor che molto difficile fusse, l'acqua di quella fonte, la quale cominciò a gettare l'anno 1343 a dì primo di giugno, con molto piacere e contento di tutta la città, che restò per ciò molto obligata alla virtù di questi due suoi cittadini. Nel medesimo tempo si fece la sala del consiglio maggiore nel palazzo del publico; e così fu con ordine e col disegno dei medesimi condotta al suo fine la torre del detto palazzo l'anno 1344, e postovi sopra due campane grandi, delle quali una ebbono da Grosseto e l'altra fu fatta in Siena.

Trovandosi finalmente Agnolo nella città d'Ascesi, dove nella chiesa di sotto di S. Francesco fece una capella e una sepoltura di marmo per un fratello di Napoleone Orsino, il quale essendo cardinale e frate di S. Francesco, s'era morto in quel luogo; Agostino, che a Siena era rimaso per servigio del publico, si morì mentre andava facendo il disegno de-gl'ornamenti della detta fonte di piazza, e fu in Duomo orrevolmente sepellito. Non ho già trovato, e però non posso alcuna cosa dirne, né come né quando morisse Agnolo, né manco altre opere d'importanza di mano di costoro, e però sia questo il fine della vita loro.

Ora, perché sarebbe senza dubbio errore, seguendo l'ordine de' tempi, non fare menzione d'alcuni, che sebbene non hanno tante cose adoperato che si possa scrivere tutta la vita loro, hanno nondimeno in qualche cosa aggiunto commodo e bellezza all'arte e al mondo, pigliando occasione da quello che di sopra si è detto del Vescovado d'Arezzo e della Pieve, dico che Pietro e Paolo orefici aretini, i quali impararono a disegnare da Agnolo et Agostino sanesi, furono i primi che di cesello lavorarono opere grande di qualche bontà; perciò che per un arciprete della Pieve d'Arezzo condussono una testa d'argento grande quanto il vivo, nella quale fu messa la testa di S. Donato vescovo e protettore di quella città: la quale opera non fu se non lodevole, sì perché in essa feciono alcune figure smaltate assai belle et altri ornamenti, e sì perché fu delle prime cose che fussero, come si è detto, lavorate di cesello.

Quasi ne' medesimi tempi o poco inanzi, l'Arte di Calimara di Firenze fece fare a maestro Cione orefice eccellente, se non tutto, la maggior parte dell'altare d'argento di S. Giovanni Batista, nel quale sono molte storie della vita di quel Santo, cavate d'una piastra d'argento in figure di mezzo rilievo, ragionevoli; la quale opera fu, e per grandezza e per essere cosa nuova, tenuta da chiunche la vide maravigliosa. Il medesimo maestro Cione l'anno 1330, essendosi sotto le volte di S. Reparata trovato il corpo di S. Zanobi, legò in una testa d'argento grande quanto il naturale quel pezzo della testa di quel Santo, che ancora oggi si serba nella medesima d'argento e si porta a processione: la quale testa fu allora tenuta cosa bellissima, e diede gran nome all'artefice suo, che non molto dopo, essendo ricco et in gran reputazione, si morì.

Lasciò maestro Cione molti discepoli, e fra gli altri Forzore di Spinello aretino, che lavorò d'ogni cesellamento benissimo, ma in particolare fu eccellente in fare storie d'argento a fuoco smaltate, come ne fanno fede nel Vescovado d'Arezzo una mitera con fregiature bellissime di smalti et un pasturale d'argento molto bello. Lavorò il medesimo al cardinale Galeotto da Pietramala molte argenterie, le quali dopo la morte sua rimasero ai frati della Vernia, dove egli volle essere sepolto e dove, oltre la muraglia che in quel luogo il conte Orlando signor di Chiusi, picciol castello sotto la Vernia, avea fatto fare, edificò egli la chiesa e molte stanze nel convento, e per tutto quel luogo, senza farvi l'insegna sua o lasciarvi altra memoria.

Fu discepolo ancora di maestro Cione, Lionardo di ser Giovanni fiorentino, il quale di cesello e di saldature, e con miglior disegno che non avevano fatto gl'altri inanzi a lui, lavorò molte opere, e particolarmente l'altare e tavola d'ar-gento di S. Iacopo di Pistoia; nella quale opera, oltre le storie che sono assai, fu molto lodata la figura che fece in mezzo, alta più d'un braccio, d'un S. Iacopo, tonda e lavorata tanto pulitamente, che par più tosto fatta di getto che di cesello; la qual figura è collocata in mezzo alle dette storie nella tavola dell'altare, intorno al quale è un fregio di lettere smaltate che dicono così: Ad honorem Dei et Sancti Jacobi Apostoli hoc opus factum fuit tempore Domini Franc. Pagni dictae operae operarii sub anno 1371, per me Leonardum Ser Io. de Floren. aurific.

Ora, tornando a Agostino e Agnolo, furono loro discepoli molti che dopo loro feciono molte cose d'architettura e di scultura in Lombardia et altri luoghi d'Italia, e fra gl'altri maestro Iacopo Lanfrani da Vinezia, il quale fondò S. Francesco d'Imola e fece la porta principale di scultura, dove intagliò il nome suo et il millesimo, che fu l'anno 1343; et in Bologna nella chiesa di S. Domenico, il medesimo maestro Iacopo fece una sepoltura di marmo per Giovanni Andrea Calduino dottore di legge e segretario di papa Clemente Sesto, et un'altra, pur di marmo e nella detta chiesa molto ben lavorata, per Taddeo Peppoli conservator del popolo e della Iustizia di Bologna; et il medesimo anno, che fu l'anno 1347, finita questa sepoltura, o poco inanzi, andando maestro Iacopo a Vinezia sua patria, fondò la chiesa di S. Antonio che prima era di legname, a richiesta d'uno abate fiorentino dell'antica famiglia degl'Abati, essendo doge messer Andrea Dandolo: la quale chiesa fu finita l'anno milletrecentoquarantanove.

Iacobello ancora e Pietro Paulo viniziani, che furono discepoli d'Agostino e d'Agnolo, feciono in S. Domenico di Bologna una sepoltura di marmo per messer Giovanni da Lignano, dottore di legge, l'anno 1383. I quali tutti e molti altri scultori andarono per lungo spazio di tempo seguitando in modo una stessa maniera, che n'empierono tutta l'Italia. Si crede anco che quel pesarese, che oltre a molte altre cose fece nella patria la chiesa di S. Domenico, e di scultura la porta di marmo con le tre figure tonde, Dio Padre, S. Giovanni Batista, e S. Marco, fusse discepolo d'Agostino e d'A-gnolo, e la maniera ne fa fede. Fu finita questa opera l'anno 1385.

Ma perché troppo sarei lungo se io volessi minutamente far menzione dell'opere che furono da molti maestri di que' tempi fatte di questa maniera, voglio che quello che n'ho detto così in generale per ora mi basti; e massimamente non si avendo da cotali opere alcun giovamento, che molto faccia per le nostre arti.

De' sopra detti mi è paruto far menzione, perché, se non meritano che di loro si ragioni a lungo, non sono anco dal-l'altro lato stati tali, che si debba passarli del tutto con silenzio.

FINE DELLA VITA D'AGOSTINO ET AGNOLO

VITA DI STEFANO PITTOR FIORENTINO E D'UGOLINO SANESE

Fu in modo eccellente Stefano, pittore fiorentino e discepolo di Giotto, che non pure superò tutti gl'altri che inanzi a lui si erano affaticati nell'arte, ma avanzò di tanto il suo maestro stesso che fu, e meritamente, tenuto il miglior di quanti pittori erano stati infino a quel tempo, come chiaramente dimostrano l'opere sue.

Dipinse costui in fresco la Nostra Donna del Camposanto di Pisa, che è alquanto meglio di disegno e di colorito che l'opera di Giotto; et in Fiorenza, nel chiostro di Santo Spirito, tre archetti a fresco, nel primo de' quali, dove è la Trasfigurazione di Cristo con Moisè et Elia, figurò, imaginandosi quanto dovette essere lo splendore che gli abagliò, i tre discepoli con straordinarie e belle attitudini, e in modo avviluppati ne' panni, che si vede che egli andò con nuove pieghe, il che non era stato fatto insino allora, tentando di ricercar, sotto, l'ignudo delle figure: il che, come ho detto, non era stato considerato né anche da Giotto stesso. Sotto questo arco, nel quale fece un Cristo che libera la indemoniata, tirò in prospettiva uno edifizio, perfettamente, di maniera allora poco nota, a buona forma e migliore cognizione riducendolo; et in esso con giudizio grandissimo modernamente operando, mostrò tanta arte e tanta invenzione e proporzione nelle colonne, nelle porte, nelle finestre e nelle cornici, e tanto diverso modo di fare dagl'altri maestri, che pare che cominciasse a vedere un certo lume della buona e perfetta maniera de' moderni. Imaginossi costui fra l'altre cose ingegnose una salita di scale molto difficile, le quali in pittura e di rilievo murate et in ciascun modo fatte, hanno disegno, varietà et invenzione utilissima e comoda tanto, che se ne servì il Magnifico Lorenzo vecchio de' Medici nel fare le scale di fuori del palazzo del Poggio a Caiano, oggi principal villa dell'illustrissimo signor Duca. Nell'altro archetto è una storia di Cristo quando libera S. Piero dal naufragio, tanto ben fatta, che pare che s'oda la voce di Pietro che dica: Domine salva nos, perimus. Questa opera è giudicata molto più bella dell'altre, perché oltre la morbidezza de' panni, si vede dolcezza nell'aria delle teste, spavento nella fortuna del mare, e gl'Apostoli percossi da diversi moti e da fantasmi mari-ni, essere figurati con attitudini molto proprie e tutte bellissime. E benché il tempo abbia consumato in parte le fatiche che Stefano fece in questa opera, si conosce, abagliatamente però, che i detti Apostoli si difendono dalla furia de' venti e dall'onde del mare vivamente: la quale cosa, essendo appresso i moderni lodatissima, dovette certo ne' tempi di chi la fece parere un miracolo in tutta Toscana.

Dipinse dopo nel primo chiostro di S. Maria Novella un S. Tomaso d'Aquino allato a una porta, dove fece ancora un Crucifisso, il quale è stato poi da altri pittori, per rinovarlo, in mala maniera condotto. Lasciò similmente una cappella in chiesa cominciata e non finita, che è molto consumata dal tempo, nella quale si vede, quando gl'angeli per la superbia di Lucifero piovvero giù in forme diverse: dove è da considerare che le figure, scortando le braccia, il torso e le gambe - molto meglio che scorci che fussero stati fatti prima - ci danno ad intendere che Stefano cominciò a conoscere e mostrare in parte le difficultà che avevano a far tenere eccellenti coloro, che poi con maggiore studio ce gli mostrassono, come hanno fatto, perfettamente; laonde scimia della natura fu dagli artefici per sopranome chiamato.

Condotto poi Stefano a Milano, diede per Matteo Visconti principio a molte cose; ma non le potette finire, perché, essendosi per la mutazione dell'aria ammalato, fu forzato tornarsene a Firenze: dove avendo riavuto la sanità, fece nel tramezzo della chiesa di Santa Croce nella cappella degl'Asini, a fresco, la storia del martirio di S. Marco quando fu strascinato, con molte figure che hanno del buono. Essendo poi condotto per essere stato discepolo di Giotto, fece a fresco in S. Piero di Roma nella cappella maggiore dove è l'altare di detto Santo, alcune storie di Cristo fra le finestre che sono nella nicchia grande, con tanta diligenza, che si vede che tirò forte alla maniera moderna, trapassando d'assai, nel disegno e nell'altre cose, Giotto suo maestro. Dopo questo fece in Araceli in un pilastro accanto alla cappella maggiore, a man sinistra, un S. Lodovico in fresco che è molto lodato, per avere in sé una vivacità non stata insino a quel tempo né anche da Giotto messa in opera. E nel vero, aveva Stefano gran facilità nel disegno, come si può vedere nel detto nostro libro in una carta di sua mano, nella quale è disegnata la Trasfigurazione che fece nel chiostro di S. Spirito, in modo che, per mio giudizio, disegnò molto meglio che Giotto.

Andato poi ad Ascesi, cominciò a fresco una storia della gloria celeste nella nicchia della cappella maggiore nella chiesa di sotto di S. Francesco, dove è il coro; e sebbene non la finì, si vede in quello che fece usata tanta diligenza, quanta più non si potrebbe disiderare. Si vede in questa opra cominciato un giro di Santi e Sante con tanta bella varietà ne' volti de' giovani, degl'uomini di mezza età e de' vecchi, che non si potrebbe meglio disiderare; e si conosce in quegli spiriti beati una maniera dolcissima e tanto unita, che pare quasi impossibile che in que' tempi fusse fatta da Stefano, che pur la fece, sebbene non sono delle figure di questo giro finite se non le teste, sopra le quali è un coro d'Angeli che vanno scherzando in varie attitudini, et acconciamente portando in mano figure teologiche: sono tutti volti verso un Cristo crucifisso, il quale è in mezzo di questa opera sopra la testa d'un S. Francesco, che è in mezzo a una infinità di Santi. Oltre ciò, fece nel fregio di tutta l'opera alcuni Angeli, de' quali ciascuno tiene in mano una di quelle chiese che scrive S. Giovanni Evangelista ne l'Apocalisse: e sono questi Angeli con tanta grazia condotti, che io stupisco come in quella età si trovasse chi ne sapesse tanto. Cominciò Stefano questa opera per farla di tutta perfezzione e gli sarebbe riuscito, ma fu forzato lasciarla imperfetta e tornarsene a Firenze da alcuni suoi negocii d'importanza. In quel mentre, dunque, che per ciò si stava in Firenze, dipinse, per non perder tempo, ai Gianfigliazzi, lung'Arno fra le case loro et il ponte alla Carraia, un tabernacolo piccolo in un canto che vi è, dove figurò con tal diligenzia una Nostra Donna, alla quale, mentre ella cuce, un fanciullo vestito e che siede porge un ucello, che per piccolo che sia il lavoro non manco merita esser lodato, che si facciano l'opere maggiori e da lui più maestrevolmente lavorate.

Finito questo tabernacolo e speditosi de' suoi negozii, essendo chiamato a Pistoia da que' signori, gli fu fatto dipignere l'anno 1346 la cappella di S. Iacopo, nella volta della quale fece un Dio Padre con alcuni Apostoli, e nelle facciate le storie di quel Santo, e particolarmente quando la madre, moglie di Zebedeo, dimanda a Gesù Cristo che voglia i due suoi figliuoli collocare uno a man destra, l'altro a man sinistra sua nel regno del Padre. Appresso a questo è la decollazione di detto Santo, molto bella.

Stimasi che Maso detto Giottino, del quale si parlerà di sotto, fusse figliuolo di questo Stefano; e sebbene molti per l'allusione del nome lo tengono figliuolo di Giotto, io, per alcuni stratti che ho veduti, e per certi ricordi di buona fede scritti da Lorenzo Ghiberti e da Domenico del Grillandaio, tengo per fermo che fusse più presto figliuolo di Stefano che di Giotto. Comunche sia, tornando a Stefano, se gli può attribuire che dopo Giotto ponesse la pittura in grandissimo miglioramento, perché oltre all'essere stato più vario nell'invenzioni, fu ancora più unito nei colori e più sfumato che tutti gl'altri, e sopra tutto non ebbe paragone in essere diligente. E quegli scorci che fece, ancora che, come ho detto, cattiva maniera in essi per la difficultà di fargli mostrasse, che è nondimeno investigatore delle prime difficultà negli essercizii merita molto più nome, che coloro che seguono con qualche più ordinata e regolata maniera. Onde certo grande obligo avere si dee a Stefano perché chi camina al buio, e mostrando la via rincuora gl'altri, è cagione che scoprendosi i passi difficili di quella, dal cattivo camino con spazio di tempo si pervenga al disiderato fine. In Perugia ancora nella chiesa di S. Domenico cominciò a fresco la cappella di S. Caterina, che rimase imperfetta.

Visse ne' medesimi tempi di Stefano con assai buon nome Ugolino pittore sanese suo amicissimo, il quale fece molte tavole e cappelle per tutta Italia; sebbene tenne sempre in gran parte la maniera greca, come quello che invecchiato in essa, aveva voluto sempre per una certa sua caparbietà tenere piuttosto la maniera di Cimabue, che quella di Giotto, la quale era in tanta venerazione. È opera, dunque, d'Ugolino la tavola dell'altar maggiore di Santa Croce, in campo tutto d'oro, et una tavola ancora che stette molti anni all'altar maggiore di S. Maria Novella, e che oggi è nel capitolo, dove la nazione spagnola fa ogni anno solennissima festa al dì di S. Iacopo, et altri suoi uffizii e mortorii. Oltre a queste fece molte altre cose con bella pratica, senza uscire però punto della maniera del suo maestro. Il medesimo fece, in un pilastro di mattoni della loggia che Lapo avea fatto alla piazza d'Orsanmichele, la Nostra Donna, che non molti anni poi fece tanti miracoli, che la loggia stette gran tempo piena d'imagini, e che ancora oggi è in grandissima venerazione. Finalmente nella capella di messer Ridolfo de' Bardi che è in Santa Croce, dove Giotto dipinse la vita di S. Francesco, fece nella tavola dell'altare a tempera un Crucifisso e una Madalena et un S. Giovanni che piangono con due frati da ogni banda che gli mettono in mezzo. Passò Ugolino di questa vita, essendo vecchio, l'anno 1349, e fu sepolto in Siena sua patria orrevolmente.

Ma tornando a Stefano, il quale dicono che fu anco buono architettore, e quello che se n'è detto di sopra ne fa fede, egli morì, per quanto si dice, l'anno che cominciò il giubileo del 1350, d'età d'anni 49, e fu riposto in S. Spirito nella sepoltura de' suoi maggiori con questo epitafio: Stefano Florentino pictori, (in) faciundis imaginibus ac colorandis figuris nulli unquam inferiori; affines moestiss. pos. Vix. an. XXXXIX.

FINE DELLA VITA DI STEFANO PITTOR FIORENTINO E D'UGOLINO SANESE

VITA DI PIETRO LAURATI

PITTORE SANESE

Pietro Laurati, eccellente pittor sanese, provò, vivendo, quanto gran contento sia quello dei veramente virtuosi, che sentono l'opere loro essere nella patria e fuori in pregio, e che si veggiono essere da tutti gli uomini disiderati; perciò che nel corso della vita sua fu per tutta Toscana chiamato e carezzato, avendolo fatto conoscere primieramente le storie che dipinse a fresco nella Scala, spedale di Siena, nelle quali imitò di sorte la maniera di Giotto divolgata per tutta Toscana, che si credette a gran ragione che dovesse, come poi avvenne, divenire miglior maestro che Cimabue e Giotto e gli altri stati non erano: perciò che le figure che rappresentano la Vergine quando ella saglie i gradi del tempio, accompagnata da Giovacchino e da Anna e ricevuta dal sacerdote, e poi lo sponsalizio, sono con bell'ornamento così ben panneggiate e ne' loro abiti semplicemente avvolte, ch'elle dimostrano nell'arie delle teste maestà, e nella disposizione delle figure bellissima maniera.

Mediante dunque questa opera, la quale fu principio d'introdurre in Siena il buon modo della pittura, facendo lume a tanti belli ingegni che in quella patria sono in ogni età fioriti, fu chiamato Pietro a Monte Oliveto di Chiusuri, dove dipinse una tavola a tempera che oggi è posta nel paradiso sotto la chiesa. In Fiorenza, poi, dipinse dirimpetto alla porta sinistra della chiesa di Santo Spirito, in sul canto dove oggi sta un beccaio, un tabernacolo, che per la morbidezza delle teste e per la dolcezza che in esso si vede, merita di essere sommamente da ogni intendente artefice lodato. Da Fiorenza andato a Pisa, lavorò in Camposanto, nella facciata che è accanto alla porta principale, tutta la vita de' Santi Padri con sì vivi affetti e con sì belle attitudini, che paragonando Giotto, ne riportò grandissima lode, avendo espresso in alcune teste col disegno e con i colori tutta quella vivacità che poteva mostrare la maniera di que' tempi.

Da Pisa trasferitosi a Pistoia, fece in S. Francesco in una tavola a tempera una Nostra Donna con alcuni Angeli in-torno molto bene accomodati; e nella predella che andava sotto questa tavola, in alcune storie fece certe figure piccole tanto pronte e tanto vive, che in que' tempi fu cosa maravigliosa; onde sodisfacendo non meno a sé che agl'altri, volle porvi il nome suo con queste parole: Petrus Laurati de Senis. Essendo, poi, chiamato Pietro l'anno 1355 da messer Guglielmo arciprete e dagli Operai della Pieve d'Arezzo, che allora erano Margarito Boschi et altri, in quella chiesa stata molto inanzi condotta con migliore disegno e maniera, che altra che fosse stata fatta in Toscana insino a quel tempo, et ornata tutta di pietre quadrate e d'intagli, come si è detto, di mano di Margaritone, dipinse a fresco la tribuna e tutta la nicchia grande della capella dell'altar maggiore, facendovi a fresco dodici storie della vita di Nostra Donna, con figure grandi quanto sono le naturali: e cominciando dalla cacciata di Giovacchino del tempio fino alla natività di Gesù Cristo. Nelle quali storie lavorate a fresco si riconoscono quasi le medesime invenzioni, i lineamenti, l'arie delle teste e l'attitu-dini delle figure che erano state proprie e particolari di Giotto suo maestro. E sebbene tutta questa opera è bella, è senza dubbio molto migliore che tutto il resto quello che dipinse nella volta di questa nicchia; perché dove figurò la Nostra Donna andare in cielo, oltre al far gl'Apostoli di quattro braccia l'uno, nel che mostrò grandezza d'animo, e fu primo a tentare di rigrandire la maniera, diede tanto bella aria alle teste e tanta vaghezza ai vestimenti, che più non si sarebbe a que' tempi potuto disiderare. Similmente nei volti d'un coro d'Angeli che volano in aria intorno alla Madonna, e con leggiadri movimenti ballando fanno sembiante di cantare, dipinse una letizia veramente angelica e divina, avendo massimamente fatto gl'occhi degl'Angeli, mentre suonano diversi istrumenti, tutti fissi et intenti in un altro coro d'Angeli, che sostenuti da una nube in forma di mandorla portano la Madonna in cielo, con belle attitudini e da celesti archi tutti circondati. La quale opera, perché piacque, e meritamente, fu cagione che gli fu data a fare a tempera la tavola dell'altar maggiore della detta Pieve; dove in cinque quadri di figure grandi quanto il vivo fino al ginocchio, fece la Nostra Donna col Figliuolo in braccio, e S. Giovanni Batista e S. Matteo dall'uno de' lati, e dall'altro il Vangelista e S. Donato, con molte figure piccole nella predella e di sopra nel fornimento della tavola, tutte veramente belle e condotte con bonissima maniera.

Questa tavola, avendo io rifatto tutto di nuovo a mie spese e di mia mano l'altar maggiore di detta Pieve, è stata posta sopra l'altar di S. Cristofano a' piè della chiesa. Né voglio che mi paia fatica di dire in questo luogo, con questa occasione e non fuor di proposito, che mosso io da pietà cristiana e dall'affezzione che io porto a questa venerabile chiesa collegiata et antica, e per avere io in quella apparato nella mia prima fanciullezza i primi documenti, e perché in essa sono le reliquie de' miei passati, che mosso, dico, da queste cagioni, e dal parermi che ella fusse quasi derelitta, l'ho di maniera restaurata, che si può dire ch'ella sia da morte tornata a vita; perché oltre all'averla illuminata, essendo oscurissima, con avere accresciuto le finestre che prima vi erano e fattone dell'altre, ho levato anco il coro, che essendo dinanzi occupava gran parte della chiesa, e, con molta sodisfazione di que' signori Canonici, postolo dietro l'altar maggiore. Il quale altare nuovo essendo isolato, nella tavola dinanzi ha un Cristo che chiama Pietro et Andrea dalle reti, e dalla parte del coro è in un'altra tavola S. Giorgio che occide il serpente. Dagli lati sono quattro quadri, et in ciascuno d'essi due Santi grandi quanto il naturale. Sopra, poi, e da basso nelle predelle è una infinità d'altre figure, che per brevità non si raccontano. L'ornamento di questo altare è alto braccia tredici, e la predella alta braccia due. E perché dentro è vòto e vi si va con una scala per uno uscetto di ferro molto bene accommodato, vi si serbano molte venerande reliquie, che di fuori si possono vedere per due grate che sono dalla parte dinanzi; e fra l'altre vi è la testa di S. Donato vescovo e protettor di quella città; e in una cassa di mischio di braccia tre, la quale ho fatta fare di nuovo, sono l'ossa di quattro Santi; e la predella dell'altare, che a proporzione lo cinge tutto intorno intorno, ha dinanzi il tabernacolo o vero ciborio del Sagramento di legname intagliato e tutto dorato alto braccia tre in circa, il quale tabernacolo è tutto tondo, e si vede così dalla parte del coro come dinanzi. E perché non ho perdonato né a fatica né a spesa nessuna, parendomi esser tenuto a così fare in onor di Dio, questa opera, per mio giudizio, ha tutti quegli ornamenti d'oro, d'intagli, di pitture, di marmi, di trevertini, di mischi e di porfidi e d'altre pietre, che per me si sono in quel luogo potuti maggiori.

Ma tornando oramai a Pietro Laurati, finita la tavola di cui si è di sopra ragionato, lavorò in S. Piero di Roma molte cose, che poi sono state rovinate per fare la fabrica nuova di S. Piero. Fece ancora alcune opere in Cortona et in Arezzo oltre quelle che si son dette; alcun'altre nella chiesa di S. Fiora e Lucilla, monasterio de' monaci Neri, e in particolare in una capella un S. Tommaso che pone a Cristo nella piaga del petto la mano.

Fu discepolo di Pietro, Bartolomeo Bologhini sanese, il quale in Siena et in altri luoghi d'Italia lavorò molte tavole; et in Fiorenza è di sua mano quella che è in sull'altare della capella di S. Silvestro in S. Croce. Furono le pitture di costoro intorno agli anni di nostra salute 1350; e nel mio libro tante volte citato si vede un disegno di mano di Pietro, dove un calzolaio che cuce, con semplici ma naturalissimi lineamenti, mostra grandissimo affetto e qual fusse la propria maniera di Pietro, il ritratto del quale era di mano di Bartolomeo Bologhini in una tavola in Siena, quando non sono molti anni lo ricavai da quello nella maniera che di sopra si vede.

FINE DELLA VITA DI PIETRO LAURATI

VITA DI ANDREA PISANO

SCULTORE ET ARCHITETTO

Non fiorì mai, per tempo nessuno, l'arte della pittura, che gli scultori non facessino il loro esercizio con eccellenza: e di ciò ne sono testimonii, a chi ben riguarda, l'opere di tutte l'età; perché veramente queste due arti sono sorelle, nate in un medesimo tempo e nutrite e governate da una medesima anima.

Questo si vede in Andrea Pisano, il quale, esercitando la scultura nel tempo di Giotto, fece tanto miglioramento in tal arte, che e per pratica e per studio fu stimato in quella professione il maggior uomo che avessino avuto insino ai tempi suoi i Toscani, e massimamente nel gettar di bronzo. Per lo che da chiunque lo conobbe furono in modo onorate e premiate l'opere sue, e massimamente da' Fiorentini, che non gl'increbbe cambiare patria, parenti, facultà et amici. A costui giovò molto quella difficultà che avevano avuto nella scultura i maestri che erano stati avanti a lui, le sculture de' quali erano sì rozze e sì dozinali, che chi le vedeva a paragone di quelle di quest'uomo le giudicava un miracolo. E che quelle prime fussero goffe, ne fanno fede, come s'è detto altrove, alcune che sono sopra la porta principale di S. Paulo di Firenze, et alcune che di pietra sono nella chiesa d'Ognissanti, le quali sono così fatte, che piuttosto muovono a riso coloro che le mirano, che ad alcuna maraviglia o piacere. E certo è che l'arte della scultura si può molto meglio ritrovare, quando si perdesse l'essere delle statue, avendo gli uomini il vivo et il naturale che è tutto tondo, come vuol ella, che non può l'arte della pittura, non essendo così presto e facile il ritrovare i bei dintorni e la maniera buona per metterla in luce. Le quali cose nell'opere che fanno i pittori arrecano maiestà, bellezza, grazia e ornamento.

Fu in una cosa alle fatiche d'Andrea favorevole la fortuna, perché essendo state condotte in Pisa, come si è altrove detto, mediante le molte vittorie che per mare ebbero i Pisani, molte anticaglie e pili che ancora sono intorno al Duomo et al Camposanto, elle gli fecero tanto giovamento e diedero tanto lume, che tale non lo potette aver Giotto, per non si essere conservate le pitture antiche tanto quanto le sculture. E sebbene sono spesso le statue destrutte da' fuochi, dalle rovine e dal furor delle guerre, e sotterrate e trasportate in diversi luoghi, si riconosce nondimeno da chi intende la differenza delle maniere di tutti i paesi, come per esempio la egizzia è sottile e lunga nelle figure, la greca è artifiziosa e di molto studio negl'ignudi, e le teste hanno quasi un'aria medesima, e l'antichissima toscana difficile nei capelli et alquanto rozza. De' Romani (chiamo Romani per la maggior parte quelli che, poi che fu soggiogata la Grecia, si condussono a Roma, dove ciò che era di buono e di bello nel mondo fu portato), questa, dico, è tanto bella per l'arie, per l'attitudini, pe' moti, per gl'ignudi e per i panni, che si può dire che egl'abbiano cavato il bello da tutte l'altre provincie, e raccoltolo in una sola maniera, perché ella sia, com'è, la migliore, anzi la più divina di tutte l'altre. Le quali tutte belle maniere et arti essendo spente al tempo d'Andrea, quella era solamente in uso, che dai Gotti e da' Greci goffi era stata recata in Toscana. Onde egli, considerato il nuovo disegno di Giotto e quelle poche anticaglie che gl'erano note, in modo assottigliò gran parte della grossezza di sì sciaurata maniera col suo giudizio, che cominciò a operar meglio e a dare molto maggior bellezza alle cose, che non aveva fatto ancora nessun altro in quell'arte insino ai tempi suoi. Per che, conosciuto l'ingegno e la buona pratica e destrezza sua, fu nella patria aiutato da molti e datogli a fare, essendo ancora giovane, a

S. Maria a Ponte alcune figurine di marmo, che gli recarono così buon nome, che fu ricerco con istanza grandissima di venire a lavorare a Firenze per l'opera di S. Maria del Fiore, che aveva, essendosi cominciata la facciata dinanzi delle tre porte, carestia di maestri che facessero le storie, che Giotto aveva disegnato pel principio di detta fabrica.

Si condusse adunque Andrea a Firenze in servigio dell'opera detta, e perché disideravano in quel tempo i Fiorentini rendersi grato et amico papa Bonifazio Ottavo, che allora era Sommo Pontefice della chiesa di Dio, vollono che inanzi a ogni altra cosa Andrea facesse di marmo e ritraesse di naturale detto Pontefice. Laonde, messo mano a questa opera, non restò, che ebbe finita la figura del Papa, et un S. Pietro et un S. Paolo che lo mettono in mezzo, le quali tre figure furono poste e sono nella facciata di S. Maria del Fiore. Facendo poi Andrea per la porta del mezzo di detta chiesa in alcuni tabernacoli o ver nicchie, certe figurine di profeti, si vide ch'egli aveva recato gran miglioramento all'arte, e che egli avanzava in bontà e disegno tutti coloro che insino allora avevano per la detta fabrica lavorato. Onde fu risoluto che tutti i lavori d'importanza si dessono a fare a lui e non ad altri; per che non molto doppo gli furono date a fare le quattro statue de' principali Dottori della chiesa, S. Girolamo, S. Ambruogio, S. Agostino e S. Gregorio. E finite queste, che gli acquistarono grazia e fama appresso gli Operai, anzi appresso tutta la città, gli furono date a far due altre figure di marmo della medesima grandezza, che furono il S. Stefano e S. Lorenzo, che sono nella detta facciata di S. Maria del Fiore in sull'ultime cantonate.

È di mano d'Andrea similmente la Madonna di marmo alta tre braccia e mezzo col Figliuolo in collo, che è sopra l'altar della chiesetta e Compagina della Misericordia in sulla piazza di S. Giovanni in Firenze, che fu cosa molto lodata in que' tempi, e massimamente avendola accompagnata con due Angeli, che la mettono in mezzo, di braccia due e mezzo l'uno; alla quale opera ha fatto a' giorni nostri un fornimento intorno di legname molto ben lavorato maestro Antonio detto il Carota, e sotto una predella piena di bellissime figure colorite a olio da Ridolfo figliuolo di Domenico Grillandai. Parimente quella mezza Nostra Donna di marmo, che è sopra la porta del fianco pur della Misericordia nella facciata de' Cialdonai, è di mano d'Andrea, e fu cosa molto lodata, per avere egli in essa imitato la buona maniera antica, fuor dell'uso suo, che ne fu sempre lontano, come testimoniano alcuni disegni che di sua mano sono nel nostro libro, ne' quali sono disegnate tutte l'istorie dell'Apocalisse. E perché aveva atteso Andrea in sua gioventù alle cose d'architettura, venne occasione di essere in ciò adoperato dal comune di Firenze, per che essendo morto Arnolfo, e Giotto assente, gli fu fatto fare il disegno del castello di Scarperia che è in Mugello alle radici dell'Alpe.

Dicono alcuni (non l'affermerei già per vero) che Andrea stette a Vinezia un anno, e vi lavorò di scultura alcune figurette di marmo che sono nella facciata di S. Marco, e che al tempo di messer Piero Gradenigo doge di quella repubblica fece il disegno dell'arsenale; ma perché io non ne so, se non quello che truovo essere stato scritto da alcuni semplicemente, lascerò credere intorno a ciò ognuno a suo modo. Tornato da Vinezia a Firenze Andrea, la città, temendo della venuta dell'Imperadore, fece alzare con prestezza, adoperandosi in ciò Andrea, una parte delle mura a calcina otto braccia, in quella parte che è fra S. Gallo e la porta al Prato, et in altri luoghi fece bastioni, steccati, et altri ripari di terra e di legnami sicurissimi. Ora, perché tre anni inanzi aveva con sua molta lode mostrato d'essere valente uomo nel gettare di bronzo, avendo mandato al Papa in Avignone per mezzo di Giotto suo amicissimo, che allora in quella corte dimorava, una croce di getto molto bella, gli fu data a fare di bronzo una delle porte del tempio di S. Giovanni, della quale aveva già fatto Giotto un disegno bellissimo. Gli fu data, dico, a finire per essere stato giudicato, fra tanti che avevano lavorato insino allora, il più valente, il più pratico e più giudizioso maestro, non pure di Toscana, ma di tutta Italia. Laonde, messovi mano con animo deliberato di non volere risparmiare né tempo, né fatica, né diligenza per condurre u-n'opera di tanta importanza, gli fu così propizia la sorte nel getto, in que' tempi che non si avevano i segreti che si han-no oggi, che in termine di ventidue anni la condusse a quella perfezione che si vede; e, quello che è più, fece ancora in quel tempo medesimo non pure il tabernacolo dell'altare maggiore di S. Giovanni, con due Angeli che lo mettono in mezzo, i quali furono tenuti cosa bellissima, ma ancora, secondo il disegno di Giotto, quelle figurette di marmo che so-no per finimento della porta del campanile di S. Maria del Fiore, et intorno al medesimo campanile in certe mandorle i sette pianeti, le sette virtù e le sette opere della misericordia di mezzo rilievo in figure piccole, che furono allora molto lodate. Fece anco nel medesimo tempo le tre figure di braccia quattro l'una, che furono collocate nelle nicchie del detto campanile, sotto le finestre che guardano dove sono oggi i Pupilli, cioè verso mezzogiorno, le quali figure furono tenute in quel tempo più che ragionevoli.

Ma per tornare onde mi sono partito, dico che in detta porta di bronzo sono storiette di basso rilievo della vita di S. Giovanni Battista, cioè dalla nascita insino alla morte, condotte felicemente e con molta diligenza. E sebbene pare a molti che in tali storie non apparisca quel bel disegno né quella grande arte che si suol porre nelle figure, non merita però Andrea se non lode grandissima, per essere stato il primo che ponesse mano a condurre perfettamente un'opera, che fu poi cagione che gl'altri che sono stati dopo di lui hanno fatto quanto di bello e di difficile e di buono nell'altre due porte e negli ornamenti di fuori al presente si vede. Questa opera fu posta alla porta di mezzo di quel tempio, e vi stette insino a che Lorenzo Ghiberti fece quella che vi è al presente: perché allora fu levata e posta dirimpetto alla Misericordia, dove ancora si trova. Non tacerò che Andrea fu aiutato in far questa porta da Nino suo figliuolo, che fu poi molto miglior maestro che il padre stato non era, e che fu finita del tutto l'anno 1339, cioè non solo pulita e rinetta del tutto, ma ancora dorata a fuoco; e credesi ch'ella fusse gettata di metallo da alcuni maestri viniziani molto esperti nel fondere i metalli; e di ciò si truova ricordo ne' libri dell'Arte de' mercatanti di Calimara guardiani dell'Opera di S. Giovanni.

Mentre si faceva la detta porta, fece Andrea non solo l'altre opere sopra dette, ma ancora molte altre, e particolarmente il modello del tempio di S. Giovanni di Pistoia, il quale fu fondato l'anno 1337, nel quale anno medesimo a dì XXV di gennaio fu trovato, nel cavare i fondamenti di questa chiesa, il corpo del beato Atto, stato vescovo di quella città, il quale era stato in quel luogo sepolto centotrentasette anni. L'architettura, dunque, di questo tempio, che è tondo, fu secondo quei tempi ragionevole.

È anco di mano d'Andrea nella detta città di Pistoia, nel tempio principale, una sepoltura di marmo piena nel corpo della cassa di figure piccole, con alcune altre di sopra maggiori. Nella quale sepoltura è il corpo riposto di messer Cino d'Angibolgi dottore di legge, e molto famoso litterato ne' tempi suoi, come testimonia messer Francesco Petrarca in quel sonetto:

Piangete, donne, e con voi pianga Amore,

e nel quarto capitolo del Trionfo d'Amore, dove dice:

Ecco Cin da Pistoia, Guitton d'Arezzo, che di non esser primo par ch'ira aggia etc.

Si vede in questo sepolcro di mano d'Andrea in marmo il ritratto di esso messer Cino, che insegna a un numero di suoi scolari che gli sono intorno, con sì bella attitudine e maniera, che in que' tempi, sebbene oggi non sarebbe in pregio, dovette esser cosa maravigliosa.

Si servì anco d'Andrea nelle cose d'architettura Gualtieri duca d'Atene e tiranno de' Fiorentini, facendogli allargare la piazza, e, per fortificarsi nel palazzo, ferrare tutte le finestre da basso del primo piano, dov'è oggi la sala de' Dugento, con ferri quadri e gagliardi molto. Aggiunse ancora il detto Duca dirimpetto a S. Piero Scheraggio le mura a bozzi che sono accanto al palazzo, per accrescerlo; e nella grossezza del muro fece una scala segreta per salire e scendere occultamente, e nella detta facciata di bozzi fece da basso una porta grande, che serve oggi alla dogana, e sopra quella l'arme sua, e tutto col disegno e consiglio di Andrea; la quale arme sebbene fu fatta scarpellare dal magistrato de' Dodici che ebbe cura di spegnere ogni memoria di quel Duca, rimase nondimeno nello scudo quadro la forma del leone rampante con due code, come può veder chiunque la considera con diligenza. Per lo medesimo Duca fece Andrea molte torri in-torno alle mura della città; e non pure diede principio magnifico alla porta a San Friano e la condusse al termine che si vede, ma fece ancora le mura degl'antiporti a tutte le porte della città, e le porte minori per commodità de' popoli. E perché il Duca aveva in animo di fare una fortezza sopra la costa di S. Giorgio, ne fece Andrea il modello, che poi non servì per non avere avuto la cosa principio, essendo stato cacciato il Duca l'anno 1343. Ben ebbe in gran parte effetto il disiderio che quel Duca avea di ridurre il palazzo in forma di un forte castello, poiché a quello che era stato fatto da principio fece così gran giunta, come quella è che oggi si vede, comprendendo nel circuito di quello le case de' Filipetri, la torre e le case degl'Amidei e Mancini, e quelle de' Bellalberti. E perché dato principio a sì gran fabrica et a grosse mura e barbacani, non aveva così in pronto tutto quello che bisognava, tenendo indietro la fabrica del Ponte Vecchio, che si lavorava con prestezza come cosa necessaria, si servì delle pietre conce e de' legnami ordinati per quello senza rispetto nessuno. E sebbene Taddeo Gaddi non era per aventura inferiore nelle cose d'architettura a Andrea Pisano, non volle di lui in queste fabriche, per esser fiorentino, servirsi il Duca, ma sì bene d'Andrea. Voleva il medesimo duca Gualtieri disfare S. Cicilia per vedere di palazzo la strada Romana e Mercato Nuovo, e parimente S. Piero Scheraggio per i suoi commodi, ma non ebbe di ciò fare licenza dal Papa. Intanto fu, come si è detto di sopra, cacciato a furia di popolo.

Meritò dunque Andrea per l'onorate fatiche di tanti anni non solamente premii grandissimi, ma e la civiltà ancora; perché fatto dalla Signoria cittadin fiorentino, gli furono dati uffizii e magistrati nella città, e l'opere sue furono in pregio e mentre che visse e dopo morte, non si trovando chi lo passasse nell'operare, infino a che non vennero Nicolò are-tino, Jacopo della Quercia sanese, Donatello, Filippo di ser Brunellesco e Lorenzo Ghiberti, i quali condussono le sculture et altre opere che fecero, di maniera che conobbono i popoli in quanto errore eglino erano stati insino a quel tempo, avendo ritrovato questi con l'opere loro quella virtù che era molti e molti anni stata nascosa e non bene conosciuta da-gl'uomini. Furono l'opere d'Andrea intorno agli anni di nostra salute milletrecentoquaranta.

Rimasero d'Andrea molti discepoli, e fra gli altri Tommaso pisano architetto e scultore, il quale finì la cappella di Camposanto, e pose la fine del campanile del Duomo, cioè quella ultima parte dove sono le campane: il quale Tommaso si crede che fusse figliuolo d'Andrea, trovandosi così scritto nella tavola dell'altar maggiore di S. Francesco di Pisa, nella quale è intagliato di mezzo rilievo una Nostra Donna e altri Santi fatti da lui, e sotto quelli il nome suo e di suo padre.

D'Andrea rimase Nino suo figliuolo che attese alla scultura, et in S. Maria Novella di Firenze fu la sua prima opera, perché vi finì di marmo una Nostra Donna stata cominciata dal padre, la quale è dentro alla porta del fianco a lato alla cappella de' Minerbetti. Andato poi a Pisa, fece nella Spina una Nostra Donna di marmo dal mezzo in su, che allatta Gesù Cristo fanciulletto involto in certi panni sottili, alla quale Madonna fu fatto fare da messer Iacopo Corbini un ornamento di marmo l'anno 1522, et un altro molto maggiore e più bello a un'altra Madonna, pur di marmo e intera, di mano del medesimo Nino, nell'attitudine della quale si vede essa Madre porgere con molta grazia una rosa al Figliuolo, che la piglia con maniera fanciullesca e tanto bella, che si può dire che Nino cominciasse veramente a cavare la durezza de' sassi e ridurgli alla vivezza delle carni, lustrandogli con un pulimento grandissimo. Questa figura è in mezzo a un S. Giovanni et a un S. Piero di marmo, che è nella testa il ritratto di Andrea di naturale. Fece ancora Nino per un altare di

S. Caterina pur di Pisa due statue di marmo, cioè una Nostra Donna et un angelo che l'annunzia, lavorate, sì come l'altre cose sue, con tanta diligenza, che si può dire che le siano le migliori che fussino fatte in que' tempi. Sotto questa Madonna annunziata intagliò Nino nella basa queste parole: A dì primo di febraio 1370. E sotto l'angelo: Queste figure fe

ce Nino figliuolo d'Andrea Pisano. Fece ancora altre opere in quella città et in Napoli, delle quali non accade far menzione. Morì Andrea d'anni settantacinque l'anno milletrecentoquarantacinque e fu sepolto da Nino in S. Maria del Fiore con questo epitaffio:

Ingenti Andreas jacet hic Pisanus in urna, marmore qui potuit spirantes ducere vultus, et simulacra Deum mediis imponere, templis, ex aere, ex auro candenti, et pulcro elephanto.

FINE DELLA VITA D'ANDREA PISANO

VITA DI BUONAMICO BUFFALMACCO

PITTOR FIORENTINO

Buonamico di Cristofano detto Buffalmacco pittore fiorentino, il qual fu discepolo d'Andrea Tafi, e come uomo burlevole celebrato da messer Giovanni Boccaccio nel suo Decamerone, fu come si sa carissimo compagno di Bruno e di Calandrino pittori ancor essi faceti e piacevoli, e, come si può vedere nell'opere sue sparse per tutta Toscana, di assai buon giudizio nell'arte sua del dipignere.

Racconta Franco Sacchetti nelle sue trecento Novelle - per cominciarmi dalle cose che costui fece essendo ancor giovinetto -, che stando Buffalmacco, mentre era garzone, con Andrea, che aveva per costume il detto suo maestro, quando erano le notti grandi, levarsi inanzi giorno a lavorare e chiamare i garzoni alla vegghia; la qual cosa rincrescendo a Buonamico, che era fatto levar in sul buon del dormire, andò pensando di trovar modo che Andrea si rimanesse di levarsi tanto inanzi giorno a lavorare, e gli venne fatto; per che avendo trovato in una vòlta male spazzata trenta gran scarafaggi o vero piattole, con certe agora sottili e corte appiccò a ciascuno di detti scarafaggi una candeluzza in sul dosso, e venuta l'ora che soleva Andrea levarsi, per una fessura dell'uscio gli mise tutti a uno a uno, avendo accese le candele, in camera d'Andrea, il quale svegliatosi, essendo a punto l'ora che soleva chiamare Buffalmacco, e veduto que' lumicini, tutto pien di paura cominciò a tremare, e come vecchio che era tutto pauroso a raccomandarsi pianamente a Dio e dir sue orazioni e salmi; e finalmente messo il capo sotto i panni, non chiamò per quella notte altrimenti Buffalmacco, ma si stette a quel modo sempre tremando di paura insino a giorno. La mattina poi levatosi, dimandò a Buonamico se aveva veduto come aveva fatto egli, più di mille demonii; a cui disse Buonamico di no, perché aveva tenuto gl'occhi serrati, e si maravigliava non essere stato chiamato a vegghia. “Come a vegghia?” disse Tafo. “Io ho avuto altro pensiero che dipignere, e son risoluto per ogni modo d'andare a stare in un'altra casa”. La notte seguente, se bene ne mise Buonamico tre soli nella detta camera di Tafo, egli nondimeno, tra per la paura della notte passata, e que' pochi diavoli che vide, non dormì punto: anzi non fu sì tosto giorno che uscì di casa per non tornarvi mai più; e vi bisognò del buono a fargli mutar openione. Pure, menando a lui Buonamico il prete della parocchia, il meglio che puoté lo raconsolò. Poi discorrendo Tafo e Buonamico sopra il caso, disse Buonamico: “Io ho sempre sentito dire che i maggiori nimici di Dio sono i demonî, e per conseguenza che deono anco esser capitalissimi aversarii de' dipintori, perché oltre che noi gli facciamo sempre bruttissimi, quello che è peggio, non attendiamo mai ad altro, che a far Santi e Sante per le mura e per le tavole, et a far perciò con dispetto de' demonî gl'uomini più divoti o migliori: per lo che tenendo essi demonii di ciò sdegno con esso noi, come quelli che maggior possanza hanno la notte che il giorno, ci vanno facendo di questi giuochi, e peggio faranno se questa usanza di levarsi a vegghia non si lascia del tutto”. Con questo et altre molte parole seppe così bene acconciar la bisogna Buffalmacco, facendogli buono ciò che diceva messer lo prete, che Tafo si rimase di levarsi a vegghia e i diavoli d'andar la notte per casa co' lumicini. Ma ricominciando Tafo, tirato dal guadagno, non molti mesi dopo, e quasi scordatosi ogni paura, a levarsi di nuovo a lavorare la notte e chiamare Buffalmacco, ricominciarono anco i scarafaggi a andar a torno; onde fu forza che per paura se ne rimanesse interamente, essendo a ciò massimamente consigliato dal prete. Dopo divolgatasi questa cosa per la città, fu cagione che per un pezzo, né Tafo né altri pittori costumarono di levarsi a lavorare la notte.

Essendo poi, indi a non molto, divenuto Buffalmacco assai buon maestro, si partì, come racconta il medesimo Franco, da Tafo, e cominciò a lavorare da sé, non gli mancando mai che fare. Ora, avendo egli tolto una casa per lavorarvi et abitarvi, che aveva allato un lavorante di lana assai agiato, il quale essendo un nuovo ucello, era chiamato Capodoca, la moglie di costui ogni notte si levava a matutino, quando appunto avendo insino allora lavorato, andava Buffalmacco a riposarsi; e postasi a un suo filatoio, il quale aveva per mala ventura piantato dirimpetto al letto di Buffalmacco, attendeva tutta notte a filar lo stame. Per che non potendo Buonamico dormire né poco né assai, cominciò a andar pensando come potesse a questa noia rimediare. Né passò molto, che s'avide che dopo un muro di mattoni sopra mattoni, il quale divideva fra sé e Capodoca, era il focolare della mala vicina, e che per un rotto si vedeva ciò che ella intorno al fuoco faceva: per che pensata una nuova malizia, forò, con un succhio lungo, una canna, et apostato che la donna di Capodoca non fusse al fuoco, con essa per lo già detto rotto del muro mise una et un'altra volta quanto sale egli volle nella pentola della vicina: onde tornando Capodoca o a desinare o a cena, il più delle volte non poteva né mangiar, né assaggiar né minestra né carne, in modo era ogni cosa per lo troppo sale amara. Per una o due volte ebbe pacienza, e solamente ne fece un poco di rumore; ma poi che vide che le parole non bastavano, diede per ciò più volte delle busse alla povera donna che si disperava, parendole pur essere più che avvertita nel salar il cotto. Costei una volta fra l'altre che il marito per ciò la batteva, cominciò a volersi scusare; per che venuta a Capodoca maggior collera, di modo si mise di nuovo a percuoterla, che gridando ella a più potere, corse tutto il vicinato a rumore; e fra gli altri vi trasse Buffalmacco, il quale udito quello di che accusava Capodoca la moglie, et in che modo ella si scusava, disse a Capodoca: “Gnaffe, sozio, egli si vuole aver discrezione; tu ti duoli che il cotto mattina e sera è troppo salato, et io mi maraviglio che questa tua buona donna faccia cosa che bene stia. Io per me non so come il giorno ella si sostenga in piedi, considerando che tutta la notte vegghia intorno a questo suo filatoio e non dorme, ch'io creda, un'ora. Fa ch'ella si rimanga di questo suo levarsi a mezza notte, e vedrai che avendo il suo bisogno di dormire, ella starà il giorno in cervello e non incorrerà in così fatti errori”. Poi rivoltosi agli altri vicini, sì bene fece parer loro la cosa grande, che tutti dissero a Capodoca che Buonamico diceva il vero, e così si voleva fare come egli avisava. Onde egli credendo che così fusse, le comandò che non si levasse a vegghia; et il cotto fu poi ragionevolmente salato, se non quando per caso la donna alcuna volta si levava; perché allora Buffalmacco tornava al suo rimedio, il quale finalmente fu causa che Capodoca ne la fece rimanere del tutto.

Buffalmacco, dunque, fra le prime opere che fece, lavorò in Firenze nel monasterio delle donne di Faenza che era dov'è oggi la Cittadella del Prato, tutta la chiesa di sua mano; e fra l'altre storie che vi fece della vita di Cristo, nelle quali tutte si portò molto bene, vi fece l'occisione che fece fare Erode de' putti innocenti, nella quale espresse molto vivamente gl'affetti così degl'uccisori come dell'altre figure; perciò che in alcune balie e madri che strappando i fanciulli di mano agl'uccisori, si aiutano quanto possono il più, colle mani, coi graffi, coi morsi e con tutti i movimenti del corpo, si mostra nel di fuori l'animo non meno pieno di rabbia e furore che di doglia.

Della quale opera, essendo oggi quel monasterio rovinato, non si può altro vedere che una carta tinta nel nostro libro de' disegni diversi, dove è questa storia di mano propria di esso Buonamico disegnata. Nel fare questa opera alle già dette donne di Faenza, perché era Buffalmacco una persona molto stratta et a caso così nel vestire come nel vivere, avvenne, non portando egli così sempre il capuccio et il mantello come in que' tempi si costumava, che guardandolo alcuna volta le monache per la turata che egli avea fatto fare, cominciarono a dire col castaldo che non piaceva loro vederlo a quel modo in farsetto; pur racchetate da lui, se ne stettono un pezzo senza dire altro. Alla perfine vedendolo pur sempre in quel medesimo modo, e dubitando che non fosse qualche garzonaccio da pestar colori, gli feciono dire dalla badessa che averebbono voluto vedere lavorar il maestro, e non sempre colui. A che rispose Buonamico, come piacevole che era, che tosto che il maestro vi fusse, lo farebbe loro intendere, accorgendosi nondimeno della poca confidenza che avevano in lui. Preso dunque un desco e messovene sopra un altro, mise in cima una brocca overo mezzina da acqua, e nella bocca di quella pose un capuccio in sul manico, e poi il resto della mezzina coperse con un mantello alla civile, affibbiandolo bene intorno ai deschi; e posto poi nel beccuccio, donde l'acqua si trae, acconciamente un pennello, si partì. Le monache tornando a veder il lavoro per uno aperto dove avea cansato la tela, videro il posticcio maestro in pontificale; onde credendo che lavorasse a più potere, e fusse per fare altro lavoro che quel garzonaccio a cattafascio non faceva, se ne stettono più giorni senza pensar ad altro. Finalmente essendo elleno venute in disiderio di veder che bella cosa avesse fatto il maestro, passati quindici giorni, nel quale spazio di tempo Buonamico non vi era mai capitato, una notte pensando che il maestro non vi fusse, andarono a veder le sue pitture, e rimasero tutte confuse e rosse, nello scoprir una più ardita dell'altre il solenne maestro, che in quindici dì non aveva punto lavorato. Poi conoscendo che egli aveva loro fatto quello che meritavano, e che l'opere che egli aveva fatte non erano se non lodevoli, fecer richiamar dal castaldo Buonamico; il qual con grandissime risa e piacere si ricondusse al lavoro, dando loro a cognoscere che differenza sia dagli uomini alle brocche, e che non sempre ai vestimenti si deono l'opere degli uomini giudicare. Ora, quivi in pochi giorni finì una storia, di che si contentarono molto, parendo loro in tutte le parti da contentarsene, eccetto che le figure nelle carnagioni parevano loro anzi smorticce e pallide, che no. Buonamico sentendo ciò, e avendo inteso che la badessa avea una vernaccia la miglior di Firenze, la quale per lo sagrifizio della messa serbava, disse loro che a volere a cotal difetto rimediare, non si poteva altro fare che stemperare i colori con vernaccia che fusse buona; per che toccando con essi così stemperati le gote e l'altre carni delle figure, elle diverrebbono rosse e molto vivamente colorite. Ciò udito le buone suore che tutto si credettono, lo tennono sempre poi fornito di ottima vernaccia mentre durò il lavo-ro; et egli godendosela, fece da indi in poi con i suoi colori ordinarii le figure più fresche e colorite.

Finita questa opera, dipinse nella Badia di Settimo alcune storie di S. Iacopo nella cappella che è nel chiostro a quel Santo dedicata, nella vòlta della quale fece i quattro Patriarchi e i quattro Evangelisti, fra i quali è notabile l'atto che fa S. Luca nel soffiare molto naturalmente nella penna, perché renda l'inchiostro. Nelle storie poi delle facciate, che sono cinque, si vede nelle figure belle attitudini, et ogni cosa condotta con invenzione e giudizio. E perché usava Buonamico, per fare l'incarnato più facile, di campeggiare, come si vede in quest'opera, per tutto di pavonazzo di sale, il quale fa col tempo una salsedine che si mangia e consuma il bianco e gl'altri colori, non è maraviglia se quest'opera è guasta e consumata laddove molte altre che furono fatte molto prima, si sono benissimo conservate. Et io, che già pensava che a queste pitture avesse fatto nocumento l'umido, ho poi provato per esperienza, considerando altre opere del medesimo, che non dall'umido, ma da questa particolare usanza di Buffalmacco è avenuto che sono in modo guaste, che non si vede né disegno né altro; e dove erano le carnagioni, non è altro rimaso che il paonazzo. Il qual modo di fare non dee usarsi da chi ama che le pitture sue abbiano lunga vita.

Lavorò Buonamico, dopo quello che si è detto di sopra, due tavole a tempera ai monaci della Certosa di Firenze, delle quali l'una è dove stanno per il coro i libri da cantare, e l'altra di sotto nelle cappelle vecchie. Dipinse in fresco nella Badia di Firenze la capella de' Giochi e Bastari allato alla cappella maggiore, la quale cappella ancor che poi fusse conceduta alla famiglia de' Boscoli, ritiene le dette pitture di Buffalmacco insino a oggi: nelle quali fece la Passione di Cristo con affetti ingegnosi e belli, mostrando in Cristo, quando lava i piedi ai discepoli, umiltà e mansuetudine grandissima, e ne' Giudei, quando lo menano ad Erode, fierezza e crudeltà. Ma particolarmente mostrò ingegno e facilità in un Pilato che vi dipinse in prigione, et in Giuda apiccato a un albero; onde si può agevolmente credere quello che di questo piacevole pittore si racconta, cioè che quando voleva usar diligenza e affaticarsi, il che di rado avveniva, egli non era inferiore a niun altro dipintore de' suoi tempi. E che ciò sia vero, l'opere che fece in Ognisanti a fresco dove è oggi il cimitero, furono con tanta diligenza lavorate e con tanti avvertimenti, che l'acqua che è piovuta loro sopra tanti anni non le ha potuto guastare, né fare sì che non si conosca la bontà loro, e che si sono mantenute benissimo per essere state lavorate puramente sopra la calcina fresca. Nelle facce dunque sono la natività di Gesù Cristo e l'adorazione de' Magi, cioè sopra la sepoltura degl'Aliotti.

Dopo quest'opera andato Buonamico a Bologna, lavorò a fresco in S. Petronio nella cappella de' Bolognini, cioè nelle vòlte alcune storie, ma da non so che accidente sopravenuto non le finì. Dicesi che l'anno 1302 fu condotto in Ascesi, e che nella chiesa di S. Francesco dipinse nella capella di S. Caterina tutte le storie della sua vita in fresco, le quali si sono molto ben conservate, e vi si veggiono alcune figure che sono degne d'essere lodate.

Finita questa capella, nel passar d'Arezzo, il vescovo Guido, per avere inteso che Buonamico era piacevole uomo e valente dipintore, volle che si fermasse in quella città, e gli dipignesse in Vescovado la capella dove è oggi il battesimo. Buonamico messo mano al lavoro n'aveva già fatto buona parte, quando gl'avvenne un caso il più strano del mondo, e fu, secondo che racconta Franco Sacchetti nelle sue trecento Novelle, questo.

Aveva il vescovo un bertuccione il più sollazzevole ed il più cattivo che altro che fusse mai. Questo animale, stando alcuna volta sul palco a vedere lavorare Buonamico aveva posto mente a ogni cosa, né levatogli mai gl'occhi da dosso quando mescolava i colori, trassinava gli alberelli, stiacciava l'uova per fare le tempere, ed insomma quando faceva qualsivoglia altra cosa. Ora, avendo Buonamico un sabato sera lasciato l'opera, la domenica mattina questo bertuccione, non ostante che avesse apiccato a' piedi un gran rullo di legno, il quale gli faceva portare il vescovo perché non potesse così saltare per tutto, egli salì, non ostante il peso che pure era grave, in sul palco dove soleva stare Buonamico a lavorare: e quivi recatosi fra mano gli alberelli, rovesciato che ebbe l'uno nell'altro, e fatto sei mescugli e stiacciato quante uova v'erano, cominciò a imbrattare con i pennelli quante figure vi erano, e seguitando di così fare, non restò, se non quando ebbe ogni cosa ridipinto di sua mano. Ciò fatto, di nuovo fece un mescuglio di tutti i colori che gli erano avanzati, come che pochi fussero, e poi sceso dal palco si partì. Venuto il lunedì mattina, tornò Buonamico al suo lavoro, dove vedute le figure guaste, gli alberelli rovesciati, et ogni cosa sotto sopra, restò tutto maravigliato e confuso. Poi, avendo molte cose fra se medesimo discorso, pensò finalmente che qualche aretino per invidia o per altro avesse ciò fatto; onde andatosene al vescovo, gli disse come la cosa passava e quello di che dubitava, di che il vescovo rimase forte turbato; pure fatto animo a Buonamico, volle che rimettesse mano al lavoro, e ciò che vi era di guasto rifacesse. E perché aveva prestato alle sue parole fede, le quali avevano del verisimile, gli diede sei de' suoi fanti armati che stessono co' falcioni, quando egli non lavorava, in aguato, e chiunque venisse, senza misericordia tagliasseno a pezzi.

Rifatte dunque la seconda volta le figure, un giorno che i fanti erano in aguato, ecco che sentono non so che rotolare per la chiesa, e poco appresso il bertuccione salire sopra l'assito, e in un baleno fatte le mestiche, veggiono il nuovo maestro mettersi a lavorare sopra i Santi di Buonamico. Perché chiamatolo, e mostrogli il malfattore, e insieme con es-so lui stando a vederlo lavorare, furono per crepar dalle risa, e Buonamico particolarmente, come che dolore glie ne venisse, non poteva restare di ridere né di piangere per le risa.

Finalmente licenziati i fanti che con falcioni avevano fatto la guardia, se ne andò al vescovo, e gli disse: “Monsignor, voi volete che si dipinga a un modo, et il vostro bertuccione vuole a un altro”. Poi contando la cosa, soggiunse: “Non iscadeva che voi mandaste per pittori altrove, se avevate il maestro in casa; ma egli forse non sapeva così ben fare le mestiche. Orsù, ora che sa, faccia da sé, che io non ci son più buono, e conosciuta la sua virtù, son contento che per l'opera mia non mi sia alcuna cosa data, se non licenza di tornarmene a Firenze”. Non poteva udendo la cosa il vescovo, sebbene gli dispiaceva, tenere le risa, e massimamente considerando, che una bestia aveva fatto una burla a chi era il più burlevole uomo del mondo. Però poi che del nuovo caso ebbono ragionato e riso abbastanza, fece tanto il vescovo, che si rimesse Buonamico la terza volta all'opera e la finì. E il bertuccione per gastigo e penitenza del commesso errore, fu serrato in una gran gabbia di legno e tenuto dove Buonamico lavorava, insino a che fu quell'opera interamente finita; nella quale gabbia non si potrebbe niuno imaginar i giuochi che quella bestiaccia faceva col muso, con la persona, e con le mani, vedendo altri fare, e non potere ella adoperarsi.

Finita l'opera di questa capella, ordinò il vescovo, o per burla o per altra cagione che egli se lo facessi, che Buffalmacco gli dipignesse in una facciata del suo palazzo un'aquila addosso a un leone, il quale ella avesse morto. L'accorto dipintore avendo promesso di fare tutto quello che il vescovo voleva, fece fare un buono assito di tavole, con dire non volere essere veduto dipignere una sì fatta cosa. E ciò fatto, rinchiuso che si fu tutto solo là dentro, dipinse, per contrario di quello che il vescovo voleva, un leone che sbranava un'aquila; e finita l'opera chiese licenza al vescovo d'andare a Firenze a procacciare colori, ché gli mancavano. E così serrato con una chiave il tavolato, se n'andò a Firenze con animo di non tornare altrimenti al vescovo, il quale, veggendo la cosa andare in lungo e il dipintore non tornare, fatto aprire il tavolato, conobbe che più aveva saputo Buonamico, che egli. Perché, mosso da gravissimo sdegno, gli fece dar bando della vita; il che avendo Buonamico inteso, gli mandò a dire che gli facesse il peggio che poteva, onde il vescovo lo minacciò da maladetto senno. Pur finalmente considerando chi egli si era messo a volere burlare, e che bene gli stava rimanere burlato, perdonò a Buonamico l'ingiuria e lo riconobbe delle sue fatiche liberalissimamente. Anzi, che è più, condottolo indi a non molto di nuovo in Arezzo, gli fece fare nel Duomo vecchio molte cose che oggi sono per terra, trattandolo sempre come suo familiare e molto fedel servitore. Il medesimo dipinse pure in Arezzo nella chiesa di S. Iustino la nicchia della capella maggiore.

Scrivono alcuni, che essendo Buonamico in Firenze, e trovandosi spesso con gl'amici e compagni suoi in bottega di Maso del Saggio, egli si truovò con molti altri a ordinare la festa che in dì di calen di maggio feciono gl'uomini di borgo S. Friano in Arno sopra certe barche, e che quando il ponte alla Carraia, che allora era di legno, rovinò per essere troppo carico di persone che erano corse a quello spettacolo, egli non vi morì, come molti altri feciono, perché quando appunto rovinò il ponte in sulla machina che in Arno sopra le barche rappresentava l'inferno, egli era andato a procacciare alcune cose che per la festa mancavano.

Essendo non molto dopo queste cose condotto Buonamico a Pisa, dipinse nella Badia di S. Paulo a ripa d'Arno, allora de' monaci di Vallombrosa, in tutta la crociera di quella chiesa da tre bande e dal tetto insino in terra molte istorie del Testamento Vecchio, cominciando dalla creazione dell'uomo e seguitando insino a tutta la edificazione della torre di Nembrot; nella quale opera, ancor che oggi per la maggior parte sia guasta, si vede vivezza nelle figure, buona pratica e vaghezza nel colorito, e che la mano esprimeva molto bene i concetti dell'animo di Buonamico, il quale non ebbe però molto disegno. Nella facciata della destra crociera, la quale è dirimpetto a quella dove è la porta del fianco, in alcune storie di S. Nastasia si veggiono certi abiti et acconciature antiche molto vaghe e belle, in alcune donne che vi sono con graziosa maniera dipinte. Non men belle sono quelle figure ancora, che con bene accomodate attitudini sono in una barca, fra le quali è il ritratto di papa Alessandro Quarto, il quale ebbe Buonamico, secondo che si dice, da Tafo suo maestro, il quale aveva quel Pontefice ritratto di musaico in S. Piero. Parimente nell'ultima storia, dove è il martirio di quella Santa e d'altre, espresse Buonamico molto bene nei volti il timore della morte, il dolore e lo spavento di coloro che stanno a vederla tormentare e morire, mentre sta legata a un albero e sopra il fuoco.

Fu compagno in quest'opera di Buonamico, Bruno di Giovanni pittore, che così è chiamato in sul vecchio libro della compagnia; il quale Bruno, celebrato anch'egli come piacevole uomo dal Boccaccio, finite le dette storie delle facciate, dipinse nella medesima chiesa l'altar di S. Orsola con la compagnia delle vergini, facendo in una mano di detta Santa uno stendardo con l'arme di Pisa, che è in campo rosso una croce bianca, e facendole porgere l'altra a una femina, che surgendo fra due monti e toccando con l'uno de' piedi il mare, le porge amendue le mani in atto di raccomandarsi. La quale femina figurata per Pisa, avendo in capo una corona d'oro e in dosso un drappo pieno di tondi e di aquile, chiede, essendo molto travagliata in mare, aiuto a quella Santa. Ma perché nel fare questa opera Bruno si doleva che le figure che in essa faceva non avevano il vivo, come quelle di Buonamico, Buonamico, come burlevole, per insegnargli a fare le figure non pur vivaci, ma che favellassono, gli fece far alcune parole che uscivano di bocca a quella femina che si raccomanda alla Santa, e la risposta della Santa a lei, avendo ciò visto Buonamico nell'opere che aveva fatte nella medesima città Cimabue. La qual cosa come piacque a Bruno e agl'altri uomini sciocchi di que' tempi, così piace ancor oggi a certi goffi che in ciò sono serviti da artefici plebei, come essi sono. E di vero pare gran fatto, che da questo principio sia passata in uso una cosa che per burla e non per altro fu fatta fare; conciò sia che anco una gran parte del Camposanto fatta da lodati maestri, sia piena di questa gofferia.

L'opere, dunque, di Buonamico essendo molto piaciute ai Pisani, gli fu fatto fare dall'Operaio di Camposanto quattro storie in fresco, dal principio del mondo insino alla fabbrica dell'arca di Noè, et intorno alle storie un ornamento nel quale fece il suo ritratto di naturale, cioè in un fregio, nel mezzo del quale e in su le quadrature sono alcune teste, fra le quali, come ho detto, si vede la sua con un capuccio, come a punto sta quello che di sopra si vede. E perché in questa opera è un Dio che con le braccia tiene i cieli e gl'elementi, anzi la machina tutta dell'universo, Buonamico per dichiarare la sua storia con versi simili alle pitture di quell'età, scrisse a' piedi in lettere maiuscole di sua mano, come si può anco vedere, questo sonetto, il quale per l'antichità sua e per la semplicità del dire di que' tempi, mi è paruto di mettere in questo luogo, come che forse, per mio avviso, non sia per molto piacere, se non se forse come cosa che fa fede di quanto sapevano gli uomini di quel secolo:

Voi che avvisate questa dipintura di Dio pietoso sommo creatore, lo qual fé tutte cose con amore, pesate, numerate et in misura, in nove gradi angelica natura, in nello empirio ciel pien di splendore, Colui che non si muove ed è motore,

ciascuna cosa fece buona e pura. Levate gl'occhi del vostro intelletto, considerate quanto è ordinato lo mondo universale, e con affetto lodate Lui che l'ha sì ben creato; pensate di passare a tal diletto tra gl'Angeli, dove è ciascun beato.

Per questo mondo si vede la gloria, lo basso e il mezzo e l'alto in questa storia.

E per dire il vero, fu grand'animo quello di Buonamico a mettersi a far un Dio Padre grande cinque braccia, le gerarchie, i cieli, gli angeli, il zodiaco e tutte le cose superiori insino al cielo della luna, e poi l'elemento del fuoco, l'aria, la terra e finalmente il centro; e per riempire i due angoli da basso fece in uno S. Agostino e nell'altro S. Tommaso d'A-quino.

Dipinse, nel medesimo Camposanto, Buonamico, in testa dove è oggi di marmo la sepoltura del Corte, tutta la Passione di Cristo con gran numero di figure a piedi et a cavallo, e tutte in varie e belle attitudini; e seguitando la storia, fece la resurrezzione e l'apparire di Cristo agl'Apostoli assai acconciamente. Finiti questi lavori, et in un medesimo tempo tutto quello che aveva in Pisa guadagnato, che non fu poco, se ne tornò a Firenze così povero come partito se n'era, dove fece molte tavole e lavori in fresco, di che non accade fare altra memoria.

Intanto essendo dato a fare a Bruno, suo amicissimo, che seco se n'era tornato da Pisa, dove si avevano sguazzato ogni cosa, alcune opere in S. Maria Novella, perché Bruno non aveva molto disegno né invenzione, Buonamico gli disegnò tutto quello che egli poi mise in opera in una facciata di detta chiesa dirimpetto al pergamo, e lunga quanto è lo spazio che è fra colonna e colonna: e ciò fu la storia di S. Maurizio e compagni che furono per la fede di Gesù Cristo decapitati; la quale opera fece Bruno per Guido Campese connestabile allora de' Fiorentini, il quale avendo ritratto prima che morisse, l'anno 1312, lo pose poi in questa opera armato, come si costumava in que' tempi; e dietro a lui fece un'ordinanza d'uomini d'arme tutti armati all'antica, che fanno bel vedere, mentre esso Guido sta ginocchioni inanzi a una Nostra Donna che ha il putto Gesù in braccio, e pare che sia raccomandato da S. Domenico e da S. Agnesa che lo mettono in mezzo. Questa pittura ancora che non sia molto bella, considerandosi il disegno di Buonamico e la invenzione, ell'è degna di esser in parte lodata, e massimamente per la varietà de' vestiti, barbute et altre armature di que' tempi; et io me ne sono servito in alcune storie che ho fatto per il signor duca Cosimo, dove era bisogno rappresentare uomini armati all'antica, et altre somiglianti cose di quell'età; la qual cosa è molto piaciuta a sua Eccellenza Illustrissima e ad altri che l'hanno veduta; e da questo si può conoscere quanto sia da far capitale dell'invenzioni et opere fatte da questi antichi, come che così perfette non siano, et in che modo utile e commodo si possa trarre dalle cose loro, avendoci eglino aperta la via alle maraviglie che insino a oggi si sono fatte e si fanno tuttavia.

Mentre che Bruno faceva questa opera, volendo un contadino che Buonamico gli facesse un S. Cristofano, ne furo-no d'accordo in Fiorenza e convennero per contratto in questo modo, che il prezzo fusse otto fiorini, e la figura dovesse esser dodici braccia. Andato dunque Buonamico alla chiesa dove doveva fare il S. Cristofano, trovò che per non essere ella né alta né lunga se non braccia nove, non poteva, né di fuori né di dentro, accommodarlo in modo che bene stesse; onde prese partito, perché non vi capiva ritto, di farlo dentro in chiesa a giacere: ma perché anco così non vi entrava tutto, fu necessitato rivolgerlo dalle ginocchia in giù nella facciata di testa. Finita l'opera, il contadino non voleva in modo nessuno pagarla, anzi gridando diceva di esser assassinato. Per che andata la cosa agli ufficiali di Grascia, fu giudicato, secondo il contratto, che Buonamico avesse ragione.

A S. Giovanni fra l'Arcore era una Passione di Cristo di mano di Buonamico molto bella, e fra l'altre cose che vi e-rano molto lodate, vi era un Giuda appiccato a un albero fatto con molto giudizio e bella maniera. Similmente un vecchio che si soffiava il naso era naturalissimo, e le Marie, dirotte nel pianto, avevano arie e modi tanto mesti, che meritavano, secondo quell'età che non aveva ancora così facile il modo d'esprimere gl'affetti dell'animo col pennello, di essere grandemente lodate. Nella medesima faccia un S. Ivo di Brettagna, ch'aveva molte vedove e pupilli ai piedi, era buona figura, e due Angeli in aria che lo coronavano erano fatti con dolcissima maniera. Questo edifizio e le pitture insieme furono gettate per terra l'anno della guerra del 1529.

In Cortona ancora dipinse Buonamico per messer Aldobrandino vescovo di quella città molte cose nel Vescovado, e particolarmente la cappella e tavola dell'altar maggiore; ma perché nel rinovare il palazzo e la chiesa andò ogni cosa per terra, non accade farne altra menzione. In S. Francesco nondimeno et in S. Margherita della medesima città, sono ancora alcune pitture di mano di Buonamico. Da Cortona andato di nuovo Buonamico in Ascesi, nella chiesa di sotto di S. Francesco dipinse a fresco tutta la cappella del cardinale Egidio Alvaro spagnuolo; e perché si portò molto bene, ne fu da esso cardinale liberalmente riconosciuto.

Finalmente, avendo Buonamico lavorato molte pitture per tutta la Marca, nel tornarsene a Firenze si fermò in Perugia, e vi dipinse nella chiesa di S. Domenico in fresco la cappella de' Buontempi, facendo in essa istorie della vita di S. Caterina vergine e martire. E nella chiesa di S. Domenico vecchio dipinse in una faccia pure a fresco, quando essa Ca-terina figliuola del re Costa disputando convince e converte certi filosofi alla fede di Cristo. E perché questa storia è più bella che alcune altre che facesse Buonamico già mai, si può dire con verità che egli avanzasse in questa opera se stesso. Da che mossi i Perugini ordinarono, secondo che scrive Franco Sacchetti, che dipignesse in piazza S. Ercolano, vescovo e protettore di quella città; onde convenuti del prezzo, fu fatto nel luogo dove si aveva a dipignere una turata di tavole e di stuoie, perché non fusse il maestro veduto dipignere; e ciò fatto, mise mano all'opera. Ma non passarono dieci giorni, dimandando chiunche passava quando sarebbe cotale pittura finita, pensando che sì fatte cose si gettassono in pretelle, che la cosa venne a fastidio a Buonamico. Per che venuto alla fine del lavoro, stracco da tanta importunità, deliberò seco medesimo vendicarsi dolcemente dell'impacienza di que' popoli, e gli venne fatto; perché finita l'opera, inanzi che la scoprisse, la fece veder loro e ne fu interamente sodisfatto. Ma volendo i Perugini levare subito la turata, disse Buonamico che per due giorni ancora la lasciassono stare, perciò che voleva ritoccare a secco alcune cose, e così fu fatto. Buonamico, dunque, salito in sul ponte, dove egli aveva fatto al Santo una gran diadema d'oro e, come in que' tempi si costumava, di rilievo con la calcina, gli fece una corona o vero ghirlanda intorno intorno al capo tutta di lasche. E ciò fatto, una mattina accordato l'oste se ne venne a Firenze. Onde passati due giorni, non vedendo i Perugini, sì come erano soliti, il dipintore andare attorno, domandarono l'oste che fusse di lui stato, et inteso che egli se n'era a Firenze tornato, andarono subito a scoprire il lavoro, e trovato il loro S. Ercolano coronato solennemente di lasche, lo fecion intendere tostamente a coloro che governavano; i quali sebbene mandarono cavallari in fretta a cercar di Buonamico, tutto fu invano, essendosene egli con molta fretta a Firenze ritornato. Preso dunque partito di fare levare a un loro dipintore la corona di lasche e rifare la diadema al Santo, dissono di Buonamico e degl'altri fiorentini tutti que' mali che si possono imaginare.

Ritornato Buonamico a Firenze e poco curandosi di cosa che dicessono i Perugini, attese a lavorare e fare molte opere, delle quali per non esser più lungo non accade far menzione. Dirò solo questo, che avendo dipinto a Calcinaia una Nostra Donna a fresco col Figliuolo in collo, colui che gliel'aveva fatta fare in cambio di pagarlo gli dava parole; onde, Buonamico, che non era avvezzo a essere fatto fare né ad essere uccellato, pensò di valersene ad ogni modo. E così andato una mattina a Calcinaia, convertì il fanciullo che aveva dipinto in braccio alla Vergine, con tinte senza colla o tempera, ma fatte con l'acqua sola, in uno orsacchino; la qual cosa non dopo molto vedendo il contadino che l'aveva fatta fare, presso che disperato andò a trovare Buonamico, pregandolo che di grazia levasse l'orsacchino e rifacesse un fanciullo come prima, perché era presto a sodisfarlo; il che avendo egli fatto amorevolmente, fu della prima e della seconda fatica senza indugio pagato; e bastò a racconciare ogni cosa una spugna bagnata.

Finalmente, perché troppo lungo sarei, se io volessi raccontare così tutte le burle come le pitture che fece Buonamico Buffalmacco, e massimamente praticando in bottega di Maso del Saggio, che era un ridotto di cittadini e di quanti piacevoli uomini aveva Firenze e burlevoli, porrò fine a ragionare di lui: il quale morì d'anni settantotto, e fu dalla Compagnia della Misericordia, essendo egli poverissimo e avendo più speso che guadagnato, per essere un uomo così fatto, sovenuto nel suo male in S. Maria Nuova, spedale di Firenze; e poi morto, nell'Ossa (così chiamano un chiostro dello spedale o vero cimitero) come gl'altri poveri sepellito l'anno 1340. Furono l'opere di costui in pregio mentre visse, e dopo sono state, come cose di quell'età, sempre lodate.

IL FINE DELLA VITA DI BUONAMICO BUFFALMACCO PITTOR FIORENTINO

VITA D'AMBRUOGIO LORENZETTI PITTOR SANESE

Se è grande, come è senza dubbio, l'obbligo che aver deono alla natura gl'artefici di bello ingegno, molto maggior doverebbe essere il nostro verso loro, veggendo ch'eglino con molta solecitudine riempiono le città d'onorate fabriche e d'utili e vaghi componimenti di storie, arrecando a se medesimi il più delle volte fama e ricchezze con l'opere loro, come fece Ambruogio Lorenzetti pittor sanese, il quale ebbe bella e molta invenzione nel comporre consideratamente e situare in istoria le sue figure. Di che fa vera testimonianza in Siena ne' frati Minori una storia da lui molto leggiadramente dipinta nel chiostro: dove è figurato in che maniera un giovane si fa frate, et in che modo egli et alcuni altri van-no al Soldano, e quivi sono battuti e sentenziati alle forche, et impiccati a un albero, e finalmente decapitati con la sopragiunta d'una spaventevole tempesta. Nella quale pittura con molt'altre e destrezza contrafece il rabbuffamento dell'a-ria e la furia della pioggia e de' venti ne' travagli delle figure; dalle quali i moderni maestri hanno imparato il modo et il principio di questa invenzione, per la quale, come inusitata innanzi, meritò egli comendazione infinita.

Fu Ambruogio pratico coloritore a fresco, e nel maneggiar a tempera i colori gl'adoperò con destrezza e facilità grande, come si vede ancora nelle tavole finite da lui in Siena allo spedaletto che si chiama Monna Agnesa, nella quale dipinse e finì una storia con nuova e bella composizione. Et allo spedale grande nella facciata fece in fresco la natività di Nostra Donna, e quando la va fra le vergini al tempio; e ne' frati di S. Agostino di detta città il capitolo, dove nella volta si veggiono figurati gl'Apostoli con carte in mano, ove è scritto quella parte del Credo che ciascheduno di loro fece; et a' piè una istorietta contenente con la pittura quel medesimo, che è di sopra con la scrittura significato. Appresso, nella facciata maggiore sono tre storie di S. Caterina martire, quando disputa col tiranno in un tempio, e nel mezzo la Passione di Cristo con i ladroni in croce e le Marie da basso, che sostengono la Vergine Maria venutasi meno; le quali cose furono finite da lui con assai buona grazia e con bella maniera.

Fece ancora nel palazzo della Signoria di Siena in una sala grande la guerra d'Asinalunga, e la pace appresso e gl'accidenti di quella; dove figurò una cosmografia perfetta, secondo que' tempi: e nel medesimo palazzo fece otto storie di verde terra molto pulitamente.

Dicesi che mandò ancora a Volterra una tavola a tempera che fu molto lodata in quella città; e a Massa, lavorando in compagnia d'altri una capella in fresco et una tavola a tempera, fece conoscere a coloro, quanto egli di giudizio e d'ingegno nell'arte della pittura valesse; et in Orvieto dipinse in fresco la cappella maggiore di S. Maria. Dopo quest'o-pere, capitando a Fiorenza, fece in S. Procolo una tavola et in una cappella le storie di S. Nicolò in figure piccole, per sodisfare a certi amici suoi, desiderosi di verder il modo dell'operar suo; et in sì breve tempo condusse, come pratico, questo lavoro, che gl'accrebbe nome e riputazione infinita. E questa opera, nella predella della quale fece il suo ritratto, fu causa che l'anno 1335 fu condotto a Cortona per ordine del vescovo degli Ubertini, allora Signore di quella città, do-ve lavorò nella chiesa di S. Margherita, poco inanzi stata fabricata ai frati di S. Francesco nella sommità del monte, alcune cose, e particolarmente la metà delle volte e le facciate, così bene che, ancora che oggi siano quasi consumate dal tempo, si vede ad ogni modo nelle figure affetti bellissimi, e si conosce che egli ne fu meritamente comendato.

Finita quest'opera, se ne tornò Ambruogio a Siena, dove visse onoratamente il rimanente della sua vita, non solo per essere eccellente maestro nella pittura, ma ancora perché avendo dato opera nella sua giovanezza alle lettere, gli furono utile e dolce compagnia nella pittura, e di tanto ornamento in tutta la sua vita, che lo renderono non meno amabile e grato, che il mestiero della pittura si facesse. Laonde, non solo praticò sempre con letterati e virtuosi uomini, ma fu ancora con suo molto onore et utile adoperato ne' maneggi della sua republica.

Furono i costumi d'Ambruogio in tutte le parti lodevoli, e piuttosto di gentiluomo e di filosofo che di artefice; e, quello che più dimostra la prudenza degl'uomini, ebbe sempre l'animo disposto a contentarsi di quello che il mondo et il tempo recava, onde sopportò con animo moderato e quieto il bene et il male che gli venne dalla fortuna. E veramente non si può dire quanto i costumi gentili e la modestia con l'altre buone creanze siano onorata compagnia a tutte l'arti, ma particolarmente a quelle che dall'intelletto e da' nobili et elevati ingegni procedono, onde doverebbe ciascuno rendersi non meno grato con i costumi, che con l'eccellenza dell'arte.

Ambruogio, finalmente, nell'ultimo di sua vita fece con molta sua lode una tavola a Monte Oliveto di Chiusuri; e poco poi, d'anni 83, passò felicemente e cristianamente a miglior vita.

Furono le opere sue nel milletrecentoquaranta.

Come s'è detto, il ritratto di Ambruogio si vede di sua mano in S. Procolo nella predella della sua tavola con un capuccio in capo. E quanto valesse nel disegno si vede nel nostro libro, dove sono alcune cose di sua mano, assai buone.

FINE DELLA VITA D'AMBRUOGIO LORENZETTI

VITA DI PIETRO CAVALLINI ROMANO

PITTORE

Essendo già stata Roma molti secoli priva non solamente delle buone lettere e della gloria dell'armi, ma eziandio di tutte le scienze e bone arti, come Dio volle, nacque in essa Pietro Cavallini in que' tempi che Giotto, avendo si può dire tornato in vita la pittura, teneva fra i pittori in Italia il principato.

Costui, dunque, essendo stato discepolo di Giotto, et avendo con esso lui lavorato nella nave di musaico in S. Piero fu il primo che dopo lui illuminasse quest'arte, e che cominciasse a mostrar di non essere stato indegno discepolo di tanto maestro, quando dipinse in Araceli sopra la porta della sagrestia alcune storie che oggi sono consumate dal tempo, e in S. Maria di Trastevere moltissime cose colorite per tutta la chiesa in fresco. Dopo, lavorando alla capella maggiore di musaico e nella facciata dinanzi alla chiesa, mostrò nel principio di cotale lavoro, senza l'aiuto di Giotto saper non meno esercitare e condurre a fine il musaico, che avesse fatto la pittura: facendo ancora nella chiesa di S. Grisogono molte storie a fresco, s'ingegnò farsi conoscer similmente per ottimo discepolo di Giotto e per buono artefice. Parimente pure in Trastevere dipinse in S. Cecilia quasi tutta la chiesa di sua mano, e nella chiesa di S. Francesco appresso Ripa molte cose. In S. Paulo poi for di Roma fece la facciata che v'è di musaico, e per la nave del mezzo molte storie del Testamento Vecchio. E lavorando nel capitolo del primo chiostro a fresco alcune cose, vi mise tanta diligenza, che ne riportò dagl'uomini di giudizio nome d'eccellentissimo maestro, e fu perciò dai prelati tanto favorito, che gli fecero dar a fare la facciata di S. Piero di dentro fra le finestre, tra le quali fece di grandezza straordinaria, rispetto alle figure che in quel tempo s'usavano, i quattro Evangelisti lavorati a bonissimo fresco, e un S. Piero e un S. Paulo, e in una nave buon numero di figure, nelle quali per molto piacergli la maniera greca, la mescolò sempre con quella di Giotto; e per dilettarsi di dare rilievo alle figure, si conosce che usò in ciò tutto quello sforzo, che maggiore può immaginarsi da uomo. Ma la migliore opera che in quella città facesse fu nella detta chiesa d'Araceli sul Campidoglio, dove dipinse in fresco nella volta della tribuna maggiore la Nostra Donna col Figliuolo in braccio circondata da un cerchio di sole, e a basso Ottaviano imperador, al quale la sibilla Tiburtina mostrando Gesù Cristo, egli l'adora; le quali figure in quest'opera, come si è detto in altri luoghi, si sono conservate molto meglio che l'altre, perché quelle che sono nelle volte, sono me-no offese dalla polvere, che quelle che nelle facciate si fanno.

Venne dopo quest'opere Pietro in Toscana per veder l'opere degl'altri discepoli del suo maestro Giotto e di lui stesso; e con questa occasione dipinse in S. Marco di Firenze molte figure che oggi non si veggiono, essendo stata imbiancata la chiesa, eccetto la Nonziata che sta coperta accanto alla porta principale della chiesa. In S. Basilio ancora, al canto alla Macine, fece in un muro un'altra Nunziata a fresco tanto simile a quella che prima aveva fatto in S. Marco e a qualcun altra che è in Firenze, che alcuni credono, e non senza qualche verisimile, che tutte siano di mano di questo Piero; e di vero non possono più somigliare l'una l'altra di quello che fanno. Fra le figure che fece in S. Marco detto di Fiorenza fu il ritratto di papa Urbano Quinto con le teste di S. Piero e S. Paulo di naturale, dal qual ritratto ne ritrasse fra' Giovanni da Fiesole quello che è in una tavola in S. Domenico pur di Fiesole; e ciò fu non piccola ventura, perché il ritratto che era in S. Marco, con molte altre figure che erano per la chiesa in fresco, furono, come s'è detto, coperte di bianco, quando quel convento fu tolto ai monaci che vi stavano prima e dato ai frati Predicatori, per imbiancare ogni cosa con poca avvertenza e considerazione.

Passando poi nel tornarsene a Roma per Ascesi, non solo per vedere quelle fabriche e quelle così notabili opere fattevi dal suo maestro e da alcuni suoi condiscepoli, ma per lasciarvi qualche cosa di sua mano, dipinse a fresco nella chiesa di sotto di S. Francesco, cioè nella crociera che è dalla banda della sagrestia, una Crocifissione di Gesù Cristo con uomini a cavallo armati in varie fogge e con molta varietà d'abiti stravaganti e di diverse nazioni straniere. In aria fece alcuni Angeli, che fermati in su l'ali in diverse attitudini piangono dirottamente, e stringendosi alcuni le mani al petto, altri incro[cic]chiandole, e altri battendosi le palme, mostrano avere estremo dolore della morte del Figliuolo di Dio, e tutti dal mezzo in dietro o vero dal mezzo in giù sono convertiti in aria. In questa opera, che è bene condotta nel colorito che è fresco e vivace, e tanto bene nelle commettiture della calcina, ch'ella pare tutta fatta in un giorno, ho trovato l'arme di Gualtieri duca di Atene, ma per non vi essere né millesimo né altra scrittura, non posso affermare che ella fusse fatta fare da lui. Dico bene, che oltre al tenersi per fermo da ognuno ch'ella sia di mano di Pietro, la maniera non potrebbe più di quello che ella fa, parer la medesima: senzaché si può credere, essendo stato questo pittore nel tempo che in Italia era il duca Gualtieri, così che ella fusse fatta da Piero, come per ordine del detto Duca. Pure, creda ognuno come vuole, l'opera come antica non è se non lodevole, e la maniera, oltre la publica voce, mostra ch'ella sia di mano di costui.

Lavorò a fresco il medesimo Piero nella chiesa di S. Maria d'Orvieto, dove è la santissima reliquia del Corporale, alcune storie di Gesù Cristo e del corpo suo con molta diligenza; e ciò fece, per quanto si dice, per messer Benedetto di messer Buonconte Monaldeschi signore in quel tempo, anzi tiranno di quella città. Affermano similmente alcuni che Piero fece alcune sculture, e che gli riuscirono, perché aveva ingegno in qualunque cosa si metteva a fare, benissimo, e che è di sua mano il Crucifisso, che è nella gran chiesa di S. Paulo fuor di Roma, il quale, secondo che si dice e credere si dee, è quello che parlò a S. Brigida l'anno 1370. Erano di mano del medesimo alcune altre cose di quella maniera, le quali andarono per terra quando fu rovinata la chiesa vecchia di S. Piero per rifar la nuova.

Fu Pietro in tutte le sue cose diligente molto, e cercò con ogni studio di farsi onore e acquistare fama nell'arte. Fu non pure buon cristiano, ma divotissimo e amicissimo de' poveri, e per la bontà sua amato non pure in Roma sua patria, ma da tutti coloro che di lui ebbono cognizione o dell'opere sue. E si diede finalmente nell'ultima sua vecchiezza con tanto spirito alla religione, menando vita esemplare, che fu quasi tenuto Santo. Laonde non è da maravigliarsi, se non pure il detto Crucifisso di sua mano parlò, come si è detto, alla Santa, ma ancora se ha fatto e fa infiniti miracoli una Nostra Donna di sua mano la quale per lo migliore non intendo di nominare, sebbene è famosissima in tutta Italia, e sebbene so[no] più che certo e chiarissimo per la maniera del dipignere ch'ell'è di mano di Pietro, la cui lodatissima vita e pietà verso Dio, fu degna di essere da tutti gl'uomini imitata. Né creda nessuno per ciò, che non è quasi possibile, e la continua sperienza ce lo dimostra, che si possa senza il timor e grazia di Dio, e senza la bontà de' costumi, ad onorato grado pervenire.

Fu discepolo di Pietro Cavallini Giovanni da Pistoia, che nella patria fece alcune cose di non molta importanza. Morì finalmente in Roma d'età d'anni ottantacinque di mal di fianco preso nel lavorare in muro, per l'umidità e per lo star continuo a tale esercizio. Furono le sue pitture nel 1364. Fu sepolto in S. Paulo fuor di Roma onorevolmente e con questo epitaffio:

Quantum Romanae Petrus decus addidit urbi pictura, tantum dat decus ipse polo.

Il ritratto suo non si è mai trovato, per diligenza che fatta si sia; però non si mette.

FINE DELLA VITA DI PIETRO CAVALLINI

VITA DI SIMONE SANESE

PITTORE

Felici veramente si possono dire quegl'uomini che sono dalla natura inclinati a quell'arti che possono recar loro non pure onore et utile grandissimo, ma, che è più, fama e nome quasi perpetuo; più felici poi sono coloro che si portano dalle fasce, oltre a cotale inclinazione, gentilezza e costumi cittadineschi, che gli rendono a tutti gl'uomini gratissimi; ma più felici di tutti finalmente (parlando degl'artefici) sono quelli che oltre all'avere da natura inclinazione al buono, e dalla medesima e dalla educazione costumi nobili, vivono al tempo di qualche famoso scrittore, da cui per un piccolo ritratto o altra così fatta cortesia delle cose dell'arte, si riporta premio alcuna volta, mediante gli loro scritti, d'eterno onore e nome; la qual cosa si deve, fra coloro che attendono alle cose del disegno, particolarmente desiderare e cercare dagl'eccellenti pittori, poiché l'opere loro, essendo in superficie et in campo di colore, non possono avere quell'eternità che dànno i getti di bronzo e le cose di marmo allo scultore o le fabriche agl'architetti.

Fu dunque quella di Simone grandissima ventura vivere al tempo di Messer Francesco Petrarca, et abbattersi a trovare in Avignone alla corte questo amorosissimo poeta desideroso d'avere la imagine di Madonna Laura di mano di maestro Simone; perciò che avutala bella come desiderato avea, fece di lui memoria in due sonetti, l'uno de' quali comincia:

Per mirar Policleto a prova fiso con gl'altri che ebber fama di quell'arte

e l'altro:

Quando giunse a Simon l'alto concetto ch'a mio nome gli pose in man lo stile.

Et in vero questi sonetti e l'averne fatto menzione in una delle sue lettere famigliari nel quinto libro, che comincia: “Non sum nescius”, hanno dato più fama alla povera vita di maestro Simone, che non hanno fatto né faranno mai tutte l'opere sue; perché elleno hanno a venire, quando che sia, meno, dove gli scritti di tant'uomo viveranno eterni secoli. Fu dunque Simone Memmi sanese eccellente dipintore, singolare ne' tempi suoi e molto stimato nella corte del Papa, perciò che dopo la morte di Giotto maestro suo, il quale egli aveva seguitato a Roma quando fece la nave di musaico e l'al-tre cose, avendo nel fare una Vergine Maria nel portico di S. Piero et un San Piero e San Paulo, a quel luogo vicino do-ve è la pina di bronzo, in un muro fra gl'archi del portico dalla banda di fuori, contraffatto la maniera di Giotto, ne fu di maniera lodato, avendo massimamente in quest'opera ritratto un sagrestano di S. Piero che accende alcune lampade a dette sue figure molto prontamente, che Simone fu chiamato in Avignone alla corte del Papa con grandissima instanza; dove lavorò tante pitture in fresco et in tavole che fece corrispondere l'opere al nome che di lui era stato là oltre portato. Per che, tornato a Siena in gran credito e molto perciò favorito, gli fu dato a dipignere dalla signoria nel palazzo loro in una sala a fresco una Vergine Maria con molte figure attorno, la quale egli compié di tutta perfezzione, con molta sua lode et utilità. E per mostrare che non meno sapeva fare in tavola che in fresco, dipinse in detto palazzo una tavola che fu cagione che poi ne fu fatto far due in duomo et una Nostra Donna col Fanciullo in braccio in attitudine bellissima sopra la porta dell'Opera del duomo detto, nella qual pittura certi Angeli, che sostenendo in aria un stendardo, volano e guardano all'ingiù alcuni Santi che sono intorno alla Nostra Donna, fanno bellissimo componimento et ornamento grande. Ciò fatto, fu Simone dal Generale di Sant'Agostino condotto in Firenze, dove lavorò il capitolo di Santo Spirito, mostrando invenzione e giudizio mirabile nelle figure e ne' cavalli fatti da lui, come in quel luogo ne fa fede la storia della Passione di Cristo, nella quale si veggiono ingegnosamente tutte le cose essere state fatte da lui con discrezione e con bellissima grazia. Veggonsi i ladroni in croce rendere il fiato, e l'anima del buono essere portata in cielo con allegrezza dagl'Angeli, e quella del reo andarne accompagnata da' diavoli tutta rabbuffata ai tormenti dell'Inferno. Mostrò similmente invenzione e giudizio Simone nell'attitudini e nel pianto amarissimo che fanno alcuni Angeli intorno al Crocifisso. Ma quello che sopra tutte le cose è dignissimo di considerazione è veder quegli spiriti che fendono l'aria con le spalle visibilmente, perché quasi girando sostengono il moto del volar loro; ma farebbe molto maggior fede dell'ec-cellenza di Simone quest'opera, se oltre all'averla consumata il tempo, non fusse stata, l'anno 1560, guasta da que' padri che per non potersi servire del capitolo mal condotto dall'umidità, nel far dove era un palco intarlato una volta, non avessero gettato in terra quel poco che restava delle pitture di quest'uomo, il quale quasi in quel medesimo tempo dipinse in una tavola una Nostra Donna et un San Luca con altri Santi a tempera, che oggi è nella capella de' Gondi in Santa Maria Novella col nome suo. Lavorò poi Simone tre facciate del capitolo della detta Santa Maria Novella molto felicemente. Nella prima, che è sopra la porta donde vi si entra, fece la vita di San Domenico et in quella che segue verso la chiesa figurò la Religione et Ordine del medesimo combattente contra gl'eretici figurati per lupi che assalgono alcune pecore, le quali da molti cani pezzati di bianco e di nero sono difese, et i lupi ributtati e morti. Sonovi ancora certi eretici, i quali convinti nelle dispute, stracciano i libri e pentiti si confessano, e così passano l'anime alla porta del Paradiso, nel quale sono molte figurine che fanno diverse cose. In cielo si vede la gloria de' Santi e Iesù Cristo, e nel mondo quaggiù rimangono i piaceri e' diletti vani in figure umane e massimamente di donne che seggono. Tra le quali è Madonna Laura del Petrarca, ritratta di naturale vestita di verde, con una piccola fiammetta di fuoco tra il petto e la gola. Èvvi ancora la Chiesa di Cristo et alla guardia di quella il papa, lo imperadore, i re, i cardinali, i vescovi e tutti i principi cristiani, e tra essi, a canto a un cavalier di Rodi, Messer Francesco Petrarca, ritratto pur di naturale, il che fece Simone per rinfrescar nell'opere sue la fama di colui che l'aveva fatto immortale. Per la Chiesa universale fece la chiesa di S. Maria del Fiore, non come ella sta oggi, ma come egli l'aveva ritratta dal modello e disegno che Arnolfo architettor aveva lasciati nell'opera per norma di coloro che avevano a seguitar la fabbrica dopo lui, de' quali modelli, per poca cura degl'Operai di S. Maria del Fiore, come in un altro luogo s'è detto, non ci sarebbe memoria alcuna se Simone non l'a-vesse lasciata dipinta in quest'opera. Nella terza facciata, che è quella dell'altar, fece la Passione di Cristo, il quale, uscendo di Gerusalem con la croce su la spalla, se ne va al monte Calvario seguitato da un popolo grandissimo; dove giunto, si vede esser levato in croce nel mezzo de' ladroni, con l'altre appartenenze che cotale storia accompagnano. Tacerò l'esservi buon numero di cavalli, il gettarsi la sorte dai famigli della corte sopra la veste di Cristo, lo spogliare il limbo de' Santi padri e tutte l'altre considerate invenzioni che sono non da maestro di quell'età ma da moderno eccellentissimo. Conciò sia che, pigliando le facciate intere, con diligentissima osservazione fa in ciascuna diverse storie su per un monte, e non divide con ornamenti tra storia e storia, come usarono di fare i vecchi e molti moderni, che fanno la terra sopra l'aria quattro o cinque volte, come è la capella maggiore di questa medesima chiesa et il Camposanto di Pisa; dove, dipignendo molte cose a fresco, gli fu forza far contra sua voglia cotali divisioni, avendo gl'altri pittori che avevano in quel luogo lavorato, come Giotto e Buonamico suo maestro, cominciato a fare le storie loro con questo malo ordine.

Seguitando dunque in quel Camposanto per meno error il modo tenuto dagli altri, fece Simone sopra la porta principale, di dentro, una Nostra Donna in fresco, portata in cielo da un coro d'Angeli che cantano e suonano tanto vivamente, che in loro si conoscono tutti que' varii effetti che i musici cantando o sonando fare sogliono; come è porgere l'orec-chio al suono, aprir la bocca in diversi modi, alzar gl'occhi al cielo, gonfiar le guance, ingrossar la gola, et insomma tutti gl'altri atti e movimenti che si fanno nella musica. Sotto questa Assunta in tre quadri fece alcune storie della vita di S. Ranieri pisano; nella prima, quando giovanetto, sonando il salterio, fa ballar alcune fanciulle, bellissime per l'arie de' volti e per l'ornamento degl'abiti et acconciature di que' tempi; vedesi poi lo stesso Ranieri, essendo stato ripreso di cotale lascivia dal beato Alberto Romito, starsi col volto chino e lagrimoso e con gl'occhi fatti rossi dal pianto, tutto pentito del suo peccato, mentre Dio in aria, circondato da un celeste lume, fa sembiante di perdonargli. Nel secondo quadro è quando Ranieri, dispensando le sue facultà ai poveri di Dio, per poi montar in barca, ha intorno una turba di poveri, di storpiati, di donne e di putti, molto affettuosi nel farsi innanzi, nel chiedere e nel ringraziarlo; e nello stesso quadro è ancora, quando questo Santo, ricevuta nel tempio la schiavina da pellegrino, sta dinanzi a Nostra Donna, che circondata da molti Angeli, gli mostra che si riposerà nel suo grembo in Pisa, le quali tutte figure hanno vivezza e bell'aria nelle teste. Nella terza è dipinto da Simone quando, tornato dopo sette anni d'oltra mare, mostra aver fatto tre quarantane in Terra Santa, e che standosi in coro a udir i divini uffizii dove molti putti cantano, è tentato dal demonio, il quale si vede scacciato da un fermo proponimento che si scorge in Ranieri di non voler offender Dio, aiutato da una figura, fatta da Simone per la Constanza, che fa partir l'antico Avversario, non solo tutto confuso, ma con bella invenzione e capricciosa, tutto pauroso, tenendosi nel fuggire le mani al capo e caminando con la fronte bassa e stretto nelle spalle a più pote-re e dicendo, come se gli vede scritto uscire di bocca: “Io non posso più”. E finalmente in questo quadro è ancora quando Ranieri, in sul monte Tabor ingenocchiato, vede miracolosamente Cristo in aria con Moisè et Elia. Le quali tutte cose di quest'opera et altre che si tacciono, mostrano che Simone fu molto capriccioso, et intese il buon modo di comporre leggiadramente le figure nella maniera di que' tempi. Finite queste storie, fece due tavole a tempera nella medesima città, aiutato da Lippo Memmi suo fratello, il quale gl'aveva anche aiutato dipignere il capitolo di Santa Maria Novella et altre opere.

Costui, se bene non fu eccellente come Simone, seguitò nondimeno quanto poté il più la sua maniera et in sua compagnia fece molte cose a fresco in Santa Croce di Firenze, a' frati Predicatori in S. Caterina di Pisa la tavola dell'altar maggiore et in S. Paulo a ripa d'Arno, oltre a molte storie in fresco bellissime, la tavola a tempera che oggi è sopra l'al-tar maggiore, dentrovi una Nostra Donna, S. Piero e S. Paulo e S. Giovanni Battista et altri Santi; et in questa pose Lippo il suo nome. Dopo queste opere, lavorò da per sé una tavola a tempera a' frati di S. Agostino in S. Gimignano, e n'acquistò tanto nome che fu forzato mandar in Arezzo al vescovo Guido de' Tarlati una tavola con tre mezze figure, che è oggi nella cappella di S. Gregorio in Vescovado. Stando Simone in Fiorenza a lavorare, un suo cugino architetto ingegnoso, chiamato Neroccio, tolse l'anno 1332 a far sonar la campana grossa del Comun di Firenze, che per spazio di 17 anni nessuno l'aveva potuta far sonar senza dodici uomini che la tirassino. Costui dunque la bilicò di maniera che due la potevano muovere, e, mossa, un solo la sonava a distesa, ancora ch'ella pesasse più di sedicimila libbre; onde, oltre l'onore, ne riportò per sua mercede trecento fiorini d'oro, che fu gran pagamento in que' tempi. Ma per tornare ai nostri due Memmi sanesi, lavorò Lippo oltre alle cose dette, col disegno di Simone, una tavola a tempera che fu portata a Pistoia e messa sopra l'altar maggiore della chiesa di S. Francesco, che fu tenuta bellissima. In ultimo tornati a Siena, loro patria, cominciò Simone una grandissima opera colorita sopra il portone di Camolia, dentrovi la coronazione di Nostra Donna, con infinite figure, la quale, sovravenendogli una grandissima infirmità, rimase imperfetta, et egli vinto dalla gravezza di quella, passò di questa vita l'anno 1345 con grandissimo dolore di tutta la sua città e di Lippo suo fratello, il quale gli diede onorata sepoltura in S. Francesco; finì poi molte opere che Simone aveva lasciate imperfette, e ciò furono una Passione di Gesù Cristo in Ancona sopra l'altare maggiore di S. Nicola, nella quale finì Lippo quello che aveva Simone cominciato, imitando quella aveva fatta nel capitolo di Santo Spirito di Fiorenza, e finita del tutto il detto Simone. La quale opera sarebbe degna di più lunga vita che per avventura non le sarà conceduta; essendo in essa molte belle attitudini di cavalli e di soldati, che prontamente fanno isvarii gesti, pensando con maraviglia se hanno o no crucifisso il figliuol di Dio. Finì similmente in Ascesi nella chiesa di sotto di S. Francesco alcune figure che avea cominciato Simone all'altare di S. Lisabetta, il qual è all'entrar della porta che va nelle cappelle, facendovi la Nostra Donna, un San Lodovico re di Francia et altri Santi che sono in tutto otto figure insino alle ginocchia, ma buone e molto ben colorite. Avendo oltre ciò cominciato Simone nel refettorio maggiore di detto convento in testa della facciata, molte storiette et un crucifisso fatto a guisa d'albero di croce, si rimase imperfetto e disegnato, come insino a oggi si può vedere, di rossaccio col pennello in su l'arricciato; il quale modo di fare era il cartone che i nostri maestri vecchi facevano per lavorare in fresco per maggior brevità; conciò fusse che, avendo spartita tutta l'opera sopra l'arricciato, la disegnavano col pennello, ritraendo da un disegno piccolo tutto quello che volevano fare, con ringrandir a proporzione quanto avevano pensato di mettere in opera. Laonde, come questa così disegnata si vede et in altri luoghi molte altre, così molte altre ne sono che erano state dipinte, le quali, scrostatosi poi il lavoro, sono rimase così disegnate di rossaccio sopra l'arricciato. Ma tornando a Lippo, il quale disegnò ragionevolmente, come nel nostro libro si può veder, in un Romito che incrocicchiate le gambe legge, egli visse dopo Simone dodici anni, lavorando molte cose per tutta Italia e particolarmente due tavole in Santa Croce di Fiorenza. E perché le maniere di questi due fratelli si somigliano assai, si conosce l'una dall'al-tra a questo, che Simone s'iscriveva a' piè delle sue opere in questo modo: “Simonis Memmi Senensis opus”. E Lippo, lasciando il proprio nome e non si curando di far un latino così alla grossa, in quest'altro modo: “Opus Memmi de Senis me fecit”. Nella facciata del capitolo di S. Maria Novella furono ritratti di mano di Simone, oltre al Petrarca e Madonna Laura, come s'è detto di sopra, Cimabue, Lapo architetto, Arnolfo suo figliuolo e Simone stesso; e nella persona di quel Papa che è nella storia, Benedetto XI da Traviso frate predicatore; l'effigie del qual papa aveva molto prima recato a Simone Giotto suo maestro, quando tornò dalla corte di detto papa, che tenne la sedia in Avignone. Ritrasse ancora nel medesimo luogo il cardinale Nicola da Prato, allato al detto Papa, il quale cardinale in quel tempo era venuto a Firenze legato di detto pontifice, come racconta nelle sue storie Giovan Villani. Sopra la sepoltura di Simone fu posto questo epitaffio: “Simoni Memmio pictorum omnium omnis aetatis celeberrimo. Vixit annos LX menses II. dies III”. Come si vede nel nostro libro detto di sopra, non fu Simone molt'eccellente nel disegno, ma ebbe invenzione dalla natura e si dilettò molto di ritrarre di naturale, et in ciò fu in tanto tenuto il miglior maestro de' suoi tempi, che 'l signor Pandolfo Malatesti lo mandò insino in Avignone a ritrarre Messer Francesco Petrarca, a richiesta del quale fece poi con tanta sua lode il ritratto di Madonna Laura.

IL FINE DELLA VITA DI SIMONE SANESE PITTORE

VITA DI TADDEO GADDI FIORENTINO

PITTORE

È bella e veramente utile e lodevole opera premiare in ogni luogo largamente la virtù et onorare colui che l'ha, perché infiniti ingegni, che talvolta dormirebbono, eccitati da questo invito, si sforzano con ogni industria di non solamente apprendere quella, ma divenirvi dentro eccellenti, per solevarsi e venire a grado utile et onorevole, onde ne segua onore alla patria loro, et a se stessi gloria e ricchezze, e nobiltà a' discendenti loro, che da cotali principii sollevati, bene spesso divengono e ricchissimi e nobilissimi, nella guisa che per opera di Taddeo Gaddi pittor fecero i descendenti suoi. Il quale Taddeo di Gaddo Gaddi fiorentino, dopo la morte di Giotto, il quale l'aveva tenuto a battesimo e dopo la morte di Gaddo era stato suo maestro ventiquattro anni, come scrive Cennino di Drea Cennini pittore da Colle di Val d'Elsa, essendo rimaso nella pittura, per giudizio e per ingegno fra i primi dell'arte e maggiore di tutti i suoi condiscepoli, fece le sue prime opere, con facilità grande datagli da la natura più tosto che acquistata con arte, nella chiesa di Santa Croce in Firenze nella cappella della sagrestia, dove insieme con i suoi compagni, discepoli del morto Giotto, fece alcune storie di S. Maria Maddalena, con belle figure et abiti di que' tempi bellissimi e stravaganti. E nella capella de' Baroncelli e Bandini, dove già aveva lavorato Giotto a tempera la tavola, da per sé fece nel muro alcune storie in fresco di Nostra Donna, che furono tenute bellissime. Dipinse ancora sopra la porta della detta sagrestia la storia di Cristo, disputante coi Dottori nel tempio, che fu poi mezza rovinata, quando Cosimo Vecchio de' Medici fece il noviziato, la capella e 'l ricetto dinanzi alla sagrestia, per metter una cornice di pietra sopra la detta porta. Nella medesima chiesa dipinse a fresco la capella de' Bellacci e quella di Santo Andrea, allato a una delle tre di Giotto, nella quale fece quando Iesù Cristo tolse Andrea dalle reti e Pietro, e la crucifissione d'esso Apostolo, cosa veramente, et allora ch'ella fu finita e ne' giorni presenti ancora, commendata e lodata molto. Fece sopra la porta del fianco, sotto la sepoltura di Carlo Marsupini aretino, un Cristo morto con le Marie, lavorato a fresco, che fu lodatissimo. E sotto il tramezzo che divide la chiesa, a man sinistra, sopra il Crocifisso di Donato, dipinse a fresco una storia di S. Francesco, d'un miracolo che fece nel resuscitar un putto che era morto cadendo da un verone, coll'apparire in aria. Et in questa storia ritrasse Giotto suo maestro, Dante poeta e Guido Cavalcanti; altri dicano se stesso. Per la detta chiesa fece ancora in diversi luoghi molte figure, che si conoscono dai pittori alla maniera. Alla Compagnia del Tempio dipinse il tabernacolo che è in sul canto della via del Crocifisso, dentrovi un bellissimo Deposto di croce. Nel chiostro di Santo Spirito lavorò due storie negl'archetti allato al capitolo, nell'uno de' quali fece quando Giuda vende Cristo e nell'altro la Cena ultima che fece con gl'Apostoli; e nel medesimo convento, sopra la porta del refettorio, dipinse un Crucifisso et alcuni Santi che fanno conoscer, fra gl'altri che quivi lavorarono, che egli fu veramente imitator della maniera di Giotto, da lui avuta sempre in grandissima venerazione. Dipinse in S. Stefano del ponte Vecchio la tavola e la predella dell'altar maggiore con gran diligenza, e nell'o-ratorio di S. Michele in Orto lavorò molto bene in una tavola un Cristo morto, che dalle Marie è pianto e da Nicodemo riposto nella sepoltura molto divotamente. Nella chiesa de' frati de' Servi dipinse la capella di S. Nicolò di quegli dal palagio con istorie di quel santo, dove con ottimo giudizio e grazia, per una barca quivi dipinta, dimostrò chiaramente com'egli aveva intera notizia del tempestoso agitare del mare e della furia della fortuna, nella quale, mentre che i marinari votando la nave gittano le mercanzie, appare in aria S. Niccolò e gli libera da quel pericolo; la quale opera, per es-ser piacciuta e stata molto lodata, fu cagione che gli fu fatto dipignere la capella dell'altare maggiore di quella chiesa, dove fece in fresco alcune storie di Nostra Donna et a tempera in tavola medesimamente la Nostra Donna con molti santi lavorati vivamente. Parimente, nella predella di detta tavola fece con figure piccole alcune altre storie di Nostra Donna, delle quali non accade far particolar menzione, poiché l'anno 1467 fu rovinato ogni cosa, quando Lodovico Marchese di Mantova fece in quel luogo la tribuna che v'è oggi, col disegno di Leon Battista Alberti, et il coro de' frati, facendo portar la tavola nel capitolo di quel convento, nel refettorio del quale fece da sommo, sopra le spalliere di legname, l'ultima Cena di Gesù Cristo con gl'Apostoli, e sopra quella un Crucifisso con molti santi. Avendo posto a que-st'opere Taddeo Gaddi l'ultimo fine, fu condotto a Pisa dove in San Francesco, per Gherardo e Buonacorso Gambacorti, fece la capella maggiore in fresco molto ben colorita, con molte figure e storie di quel Santo e di S. Andrea e S. Nicolò. Nella volta poi e nella facciata è Papa Onorio che conferma la Regola, dove è ritratto Taddeo di naturale in proffilo con un capuccio avolto sopra il capo, et a' piedi di quella storia sono scritte queste parole:

“Magister Taddeus Gaddus de Florentia pinxit hanc historiam Sancti Francisci et Sancti Andreae et Sancti Nicolai anno Domini MCCCXLII de mense Augusti”.

Fece ancora nel chiostro pure di quel convento in fresco una Nostra Donna col suo Figliuolo in collo molto ben colorita; e nel mezzo della chiesa, quando s'entra a man manca, un San Lodovico vescovo a sedere al quale S. Gherardo da Villamagna, stato frate di quell'ordine, raccomanda un fra' Bartolomeo allora Guardiano di detto convento. Nelle figure della quale opera, perché furono ritratte dal naturale, si vede vivezza e grazia infinita, in quella maniera semplice, che fu in alcune cose meglio che quella di Giotto, e massimamente nell'esprimere il raccomandarsi, l'allegrezza, il dolo-re et altri somiglianti affetti che bene espressi fanno sempre onore grandissimo al pittore. Tornato poi a Fiorenza, Taddeo seguitò per lo comune l'opera d'Or San Michele, e rifondò i pilastri delle loggie, murandogli di pietre conce e ben foggiate, là dove erano prima state fatte di mattoni, senza alterar però il disegno che lasciò Arnolfo, con ordine che sopra la loggia si facesse un palazzo con due volte, per conserva delle provisioni del grano che faceva il popolo e Comune di Firenze: la quale opera, perché si finisse, l'Arte di porta Santa Maria, a cui era stato dato cura della fabrica, ordinò che si pagasse la gabella della piazza e mercato del grano, et alcune altre gravezze di piccolissima importanza. Ma, il che importò molto più, fu bene ordinato con ottimo consiglio, che ciascuna dell'Arti di Firenze facesse da per sé un pilastro et in quello il Santo avvocato dell'Arte in una nicchia, e che ogni anno per la festa di quello, i Consoli di quell'Ar-te andassino a offerta e vi tenessino tutto quel dì lo stendardo con la loro insegna, ma che l'offerta nondimeno fusse del-la Madonna per sovvenimento de' poveri bisognosi. E perché l'anno 1333 per lo gran diluvio l'acque avevano divorato le sponde del ponte Rubaconte, messo in terra il castello Altafronte, e del ponte Vecchio non lasciato altro che le due pile del mezzo et il ponte a Santa Trinita rovinato del tutto eccetto una pila che rimase tutta fracassata, e mezzo il ponte alla Carraia, rompendo la pescaia d'Ogni Santi, deliberarono quei che allora la città reggevano, non voler che più quegli d'oltr'Arno avessero la tornata alle case loro con tanto scomodo, quanto quello era d'aver a passar per barche; per che, chiamato Taddeo Gaddi per essere Giotto suo maestro andato a Milano, gli fecero fare il modello e disegno del ponte Vecchio, dandogli cura che lo facesse condurre a fine più gagliardo e più bello che possibile fusse; ed egli, non perdonando né a spesa né a fatica, lo fece con quella gagliardezza di spalle e con quella magnificenza di volte tutte di pietre riquadrate con lo scarpello, che sostiene oggi ventidue botteghe per banda, che sono in tutto quarantaquattro, con gran-d'utile del Comune che ne cavava l'anno fiorini ottocento di fitti. La lunghezza delle volte da un canto all'altro è braccia trentadue, e la strada del mezzo sedici, e quella delle botteghe da ciascuna parte braccia otto: per la quale opera, che costò sessanta mila fiorini d'oro, non pur meritò allora Taddeo lode infinita, ma ancora oggi n'è più che mai comendato, poiché, oltre a molti altri diluvii, non è stato mosso l'anno 1557 a dì 13 di settembre, da quello che mandò a terra il ponte a Santa Trinita, di quello della Carraia due archi, e che fracassò in gran parte il Rubaconte, e fece molt'altre rovine che sono notissime. E veramente non è alcuno di giudizio, che non stupisca non pur non si maravigli, considerando che il detto ponte Vecchio in tanta strettezza sostenesse immobile l'impeto dell'acque, de' legnami e delle rovine fatte di sopra, e con tanta fermezza. Nel medesimo tempo fece Taddeo fondare il ponte a Santa Trinita, che fu finito manco felicemente l'anno 1346 con spesa di fiorini ventimila d'oro; dico men felicemente, perché non essendo stato simile al ponte Vecchio fu interamente rovinato dal detto diluvio dell'anno 1557. Similmente, secondo l'ordine di Taddeo si fece in detto tempo il muro di costa a S. Gregorio con pali a castello, pigliando due pile del ponte per accrescer alla città terreno verso la piazza de' Mozzi, e servirsene, come fecero, a far le mulina che vi sono. Mentre che con ordine e disegno di Taddeo si fecero tutte queste cose, perché non restò per questo di dipignere, lavorò il tribunale della Mercanzia Vecchia, dove con poetica invenzione figurò il tribunale di sei uomini, che tanti sono i principali di quel magistrato, che sta a veder cavar la lingua alla bugia dalla verità, la quale è vestita di velo su l'ignudo e la bugia coperta di nero, con questi versi sotto:

La pura verità per ubbidire alla Santa Giustizia che non tarda, cava la lingua alla falsa bugiarda.

E sotto la storia sono questi versi:

Taddeo dipinse questo bel rigestro discepol fu di Giotto il buon maestro.

Fu fattogli allogazione in Arezzo d'alcuni lavori in fresco, i quali ridusse Taddeo, con Giovanni da Milano suo discepolo, all'ultima perfezzione; e di questi veggiamo ancora nella Compagnia dello Spirito Santo una storia nella faccia dell'altar maggiore, dentrovi la Passione di Cristo con molti cavalli et i ladroni in croce; cosa tenuta bellissima per la considerazione che mostrò nel metterlo in croce; dove sono alcune figure che vivamente espresse dimostrano la rabbia de' Giudei, tirandolo alcuni per le gambe con una fune, altri porgendo la spugna et altri in varie attitudini, come il Longino che gli passa il costato et i tre soldati che si giuocano la veste, nel viso de' quali si scorge la speranza et il timore nel trarre de' dadi; il primo di costoro armato sta in attitudine disagiosa, aspettando la volta sua, e si dimostra tanto bramoso di tirare che non pare che e' senta il disagio, l'altro inarcando le ciglia con la bocca e con gl'occhi aperti guarda i dadi per sospetto quasi di fraude e chiaramente dimostra, a chi lo considera, il bisogno e la voglia che egli ha di vincere; il terzo che tira i dadi, fatto piano della veste in terra, col braccio tremolante par che acenni ghignando voler piantargli. Similmente per le facce della chiesa si veggono alcune storie di S. Giovanni Evangelista, e per la città altre cose, fatte da Taddeo, che si riconoscono per di sua mano da chi ha giudizio nell'arte. Veggonsi ancora oggi nel Vescovado, dietro all'altare maggior, alcune storie di S. Giovanni Battista, le quali con tanto maravigliosa maniera e disegno sono lavorate che lo fanno tener mirabile. In S. Agostino, alla capella di S. Sebastiano allato alla sagrestia, fece le storie di quel martire et una disputa di Cristo con i Dottori, tanto ben lavorata e finita che è miracolo a vedere la bellezza ne' cangianti di varie sorti e la grazia ne' colori di queste opere finite per eccellenza. In Casentino nella chiesa del Sasso della Vernia dipinse la capella dove S. Francesco ricevette le stimmate, aiutato nelle cose minime da Iacopo di Casentino, che mediante questa gita divenne suo discepolo. Finita cotale opera, insieme con Giovanni milanese se ne tornò a Fiorenza, dove nella città e fuori fecero tavole e pitture assaissime e d'importanza, e in processo di tempo guadagnò tanto, facendo di tutto capitale che diede principio alla ricchezza et alla nobiltà della sua famiglia, essendo tenuto sempre savio et accorto uomo. Dipinse ancora in Santa Maria Novella il capitolo, allogatogli dal prior del luogo che gli diede l'invenzione. Bene è vero che, per essere il lavoro grande e per essersi scoperto in quel tempo che si facevano i ponti il capitolo di Santo Spirito con grandissima fama di Simone Memmi che l'aveva dipinto, venne voglia al detto priore di chiamar Simone alla metà di quest'opera; per che conferito il tutto con Taddeo, lo trovò di ciò molto contento, perciò che amava sommamente Simone per essergli stato con Giotto condiscepolo e sempre amorevole amico e compagno. Oh animi veramente nobili, poiché senza emulazione, ambizione o invidia v'amaste fraternamente l'un l'altro, godendo ciascuno così dell'onor e pregio dell'amico come del proprio! Fu dunque spartito il lavoro e datone tre facciate a Simone, come dissi nella sua vita, et a Taddeo la facciata sinistra e tutta la volta, la quale fu divisa da lui in quattro spicchi o quarte secondo gl'andari d'essa volta. Nel primo fece la Resurrezione di Cristo, dove pare che e' volesse tentare che lo splendor del corpo glorificato facesse lume, come apparisce in una città et in alcuni scogli di monti; ma non seguitò di farlo nelle figure e nel resto, dubitando forse di non lo potere condurre per la difficultà che vi conosceva. Nel secondo spicchio fece Iesù Cristo che libera San Piero dal naufragio, dove gl'Apostoli che guidano la barca sono certamente molto begli, e fra l'altre cose uno che in su la riva del mare pesca a lenza, cosa fatta prima da Giotto in Roma nel musaico della nave di San Piero, è espresso con grandissima e viva affezzione. Nel terzo dipinse l'Ascensione di Cristo, e nell'ultimo la venuta dello Spirito Santo, dove nei Giudei che alla porta cercano volere entrare, si veggono molte belle attitudini di figure. Nella faccia di sotto sono le sette scienze con i loro nomi e con quelle figure sotto che a ciascuna si convengono. La Grammatica in abito di donna con una porta, insegnando a un putto, ha sotto di sé a sedere Donato scrittore. Dopo la Grammatica segue la Rettorica, et a piè di quella una figura, che ha due mani a' libri et una terza mano si trae disotto il mantello e se la tiene appresso alla bocca. La Logica ha il serpente in mano sotto un velo, et a' piedi suoi Zenone Eleate che legge. L'Aritmetica tiene le tavole dell'Abaco, e sotto lei siede Abramo inventor di quella. La Musica ha gl'istrumenti da sonare, e sotto lei siede Tubalcaino che batte con due martelli sopra una ancudine e sta con gl'orecchi attenti a quel suono. Le Geometria ha la squadra e le seste, e da basso Euclide. L'Astrologia ha la sfera del cielo in mano, e sotto i piedi Atlante. Dall'altra parte seggono sette scienze teologiche, e ciascuna ha sotto di sé quello stato o condizione d'uomini che più se le conviene: papa, imperatore, re, cardinali, duchi, vescovi, marchesi et altri; e nel volto del Papa è il ritratto di Clemente Quinto. Nel mezzo e più alto luogo è San Tommaso d'Aquino, che di tutte le scienze dette fu ornato, tenendo sotto i piedi alcuni eretici, Ario, Sabellio et Averrois, e gli sono intorno Mosè, Paulo, Giovanni Evangelista et alcune altre figure che hanno sopra le quattro virtù cardinali e le tre teologiche, con altre infinite considerazioni, espresse da Taddeo con disegno e grazia non piccola, in tanto che si può dir esser stata la meglio intesa e quella che si è più conservata di tutte le cose sue. Nella medesima Santa Maria Novella sopra il tramezzo della chiesa, fece ancora un S. Geronimo vestito da cardinale, avendo egli divozione in quel santo e per protettor di sua casa eleggendolo; e sotto esso poi Agnolo suo figliuolo, morto Taddeo, fece fare ai descendenti una sepoltura, coperta con un lapide di marmo con l'arme de' Gaddi. Ai quali descendenti Geronimo cardinale, per la bontà di Taddeo e per i meriti loro, ha impetrato da Dio gradi orrevolissimi nella chiesa, chericati di camera, vescovadi, cardinalati, prepositure e cavalierati onoratissimi: i quali tutti discesi di Taddeo in qualunche grado, hanno sempre stimato e favoriti i begli ingegni inclinati alle cose della scultura, pittura e quelli con ogni sforzo loro aiutati. Finalmente, essendo Taddeo venuto in età di cinquanta anni, d'atrocissima febbre percosso, passò di questa vita l'anno 1350, lasciando Agnolo suo figliuolo e Giovanni che attendessero alla pittura, raccomandandogli a Iacopo di Casentino per li costumi del vivere et a Giovanni da Milano per gl'ammaestramenti dell'arte; il qual Giovanni, oltr'a molte altre cose, fece dopo la morte di Taddeo una tavola che fu posta in S. Croce all'altare di S. Gherardo da Villamagna, quattordici anni dopo che era rimaso senza il suo maestro; e similmente la tavola dell'altar maggiore d'Ogni Santi, dove stavano i frati umiliati, che fu tenuta molto bella; et in Ascesi la tribuna dell'altar maggiore, dove fece un Crucifisso, la Nostra Donna e Santa Chiara; e nelle facciate e dalle bande istorie della Nostra Donna. Dopo, andatosene a Milano, vi lavorò molte opere a tempera et in fresco, e finalmente vi si morì.

Taddeo adunque mantenne continuamente la maniera di Giotto, ma non però la migliorò molto, salvo che nel colorito, il quale fece più fresco e più vivace che quello di Giotto, avendo egli atteso tanto a migliorare l'altre parti e difficultà di questa arte che, ancor che a questa badasse, non potette però aver grazia di farlo; là dove, avendo veduto Taddeo quello che aveva facilitato Giotto et imparatolo, ebbe tempo d'aggiugnere qualche cosa e migliorare il colorito.

Fu sepolto Taddeo da Agnolo e Giovanni suoi figliuoli in Santa Croce nel primo chiostro e nella sepoltura ch'egli aveva fatta a Gaddo suo padre; e fu molto onorato con versi da' virtuosi di quel tempo, come uomo che molto aveva meritato per costumi e per aver condotto con bell'ordine, oltre alle pitture, molte fabriche nella sua città commodissime; et oltr'a quello che s'è detto, per avere sollecitamente e con diligenza esseguita la fabrica del campanile di S. Maria del Fiore, col disegno lasciato da Giotto suo maestro; il quale campanile fu di maniera murato, che non possono commettersi pietre con più diligenza, né farsi più bella torre per ornamento, per spese e per disegno. L'epitaffio che fu fatto a Taddeo fu questo che qui si legge:

Hoc uno dici poterat Florentia felix vivente: at certa est non potuisse mori.

Fu Taddeo molto resoluto nel disegno, come si può vedere nel nostro libro dov'è disegnata di sua mano la storia che fece nella capella di S. Andrea in Santa Croce di Firenze.

IL FINE DELLA VITA DI TADDEO GADDI PITTOR FIORENTINO

VITA D'ANDREA DI CIONE ORGAGNA PITTORE, SCULTORE ET ARCHITETTO FIORENTINO

Rade volte un ingegnoso è eccellente in una cosa che non possa agevolmente apprendere alcun'altra, e massimamente di quelle che sono alla prima sua professione somiglianti, e quasi procedente da un medesimo fonte; come fece l'Orgagna fiorentino il quale fu pittore, scultore, architetto e poeta, come di sotto si dirà. Costui, nato in Fiorenza, cominciò ancora fanciulletto a dar opera alla scultura sotto Andrea Pisano, e seguitò qualche anno; poi, essendo disideroso, per fare vaghi componimenti d'istorie, d'esser abondante nell'invenzioni, attese con tanto studio al disegno, aiutato dalla natura che volea farlo universale, che (come una cosa tira l'altra) provatosi a dipignere con i colori a tempera et a fresco, riuscì tanto bene, con l'aiuto di Bernardo Orgagna suo fratello, che esso Bernardo lo tolse in compagnia a fare in

S. Maria Novella nella capella maggiore, che allora era della famiglia de' Ricci, la vita di Nostra Donna; la quale opera finita fu tenuta molto bella, se bene per trascuraggine di chi n'ebbe poi cura, non passarono molti anni che, essendo rotti i tetti, fu guasta dall'acque e perciò fatta nel modo ch'ell'è oggi, come si dirà al luogo suo, bastando per ora dire che Domenico Grillandai, che la ridipinse, si servì assai dell'invenzioni che v'erano dell'Orgagna. Il quale fece anche in detta chiesa, pure a fresco, la capella degli Strozzi, che è vicina alla porta della sagrestia e delle campane, in compagnia di Bernardo suo fratello. Nella quale cappella, a cui si saglie per una scala di pietra, dipinse in una facciata la gloria del Paradiso con tutti i Santi e con varii abiti et acconciature di que' tempi. Nell'altra faccia fece l'Inferno, con le bolgie, centri et altre cose descritte da Dante, del quale fu Andrea studiosissimo. Fece nella chiesa de' Servi della medesima città, pur con Bernardo, a fresco la capella della famiglia de' Cresci et in San Pier Maggiore, in una tavola assai grande, l'incoronazione di Nostra Donna; et in San Romeo presso alla porta del fianco una tavola.

Similmente, egli e Bernardo suo fratello insieme, dipinsero a fresco la facciata di fuori di Santo Apollinare con tanta diligenza, che i colori in quel luogo scoperto si sono vivi e belli maravigliosamente conservati insin'a oggi. Mossi dalla fama di quest'opre dell'Orgagna, che furono molto lodate, coloro che in quel tempo governavano Pisa, lo fecero condurre a lavorare nel Camposanto di quella città un pezzo d'una facciata, secondo che prima Giotto e Buffalmacco fatto avevano. Onde, messovi mano, in quella dipinse Andrea un Giudizio Universale con alcune fantasie a suo capriccio, nella facciata di verso il Duomo, allato alla Passione di Cristo fatta da Buffalmacco, dove, nel canto facendo la prima storia, figurò in essa tutti i gradi de' Signori Temporali, involti nei piaceri di questo mondo; ponendogli a sedere sopra un prato fiorito, e sotto l'ombra di molti melaranci, che facendo amenissimo bosco, hanno sopra i rami alcuni Amori, che volando a torno, e sopra molte giovani donne, ritratte tutte, secondo che si vede, dal naturale di femmine nobili, e signore di que' tempi le quali per la lunghezza del tempo non si riconoscono, fanno sembiante di saettare i cuori di quelle alle quali sono giovani uomini appresso e signori che stanno a udir suoni e canti et a vedere amorosi balli di garzoni e donne che godano con dolcezza i loro amori. Fra' quali signori ritrasse l'Orgagna Castruccio, signor di Lucca, e giovane di bellissimo aspetto, con un cappuccio azzurro avvolto intorno al capo e con uno sparviere in pugno; et appresso lui altri signori di quell'età, che non si sa chi sieno. Insomma fece con molta diligenza in questa prima parte, per quanto capiva il luogo e richiedeva l'arte, tutti i diletti del mondo graziosissimamente. Dall'altra parte nella medesima storia figurò sopra un alto monte la vita di coloro che, tirati dal pentimento de' peccati e dal disiderio d'esser salvi, sono fuggiti dal mondo a quel monte tutto pieno di Santi romiti che servono al Signore diverse cose operando con vivacissimi affetti: alcuni leggendo et orando si mostrano tutti intenti alla contemplativa, et altri lavorando per guadagnare il vivere nell'attiva variamente si essercitano. Vi si vede fra gl'altri un romito che mugne una capra, il quale non può essere più pronto né più vivo in figura di quello che gli è. E poi da basso San Macario che mostra a que' tre re, che cavalcando con loro donne e brigata vanno a caccia, la miseria umana in tre re, che morti e non del tutto consumati, giaceno in una sepoltura, con attenzione guardata dai re vivi, in diverse e belle attitudini piene d'amirazione, e pare quasi che considerino con pietà di se stessi d'avere in breve a divenire tali. In un di questi re a cavallo ritrasse Andrea Uguccione della Faggiuola aretino, in una figura che si tura con una mano il naso, per non sentire il puzzo de' re morti e corrotti. Nel mezzo di questa storia è la morte che, volando per aria, vestita di nero, fa segno d'avere con la sua falce levato la vita a molti, che sono per terra d'ogni stato e condizione, poveri, ricchi, storpiati, ben disposti, giovani, vecchi, maschi, femmine et insomma d'ogni età e sesso buon numero. E perché sapeva che ai Pisani piaceva l'invenzione di Buffalmacco, che fece parlare le figure di Bruno in San Paulo a Ripa d'Arno, facendo loro uscire di bocca alcune lettere, empié l'Orgagna tutta quella sua opera di cotali scritti de' quali la maggior parte, essendo consumati dal tempo, non s'intendono. A certi vecchi dunque storpiati fa dire:

Da che prosperitade ci ha lasciati,

o morte, medicina d'ogni pena, deh, vieni a darne omai l'ultima cena,

con altre parole che non s'intendono e versi così all'antica composti, secondo che ho ritratto, dall'Orgagna medesimo, che attese alla poesia et a fare qualche sonetto. Sono intorno a que' corpi morti alcuni Diavoli che cavano loro di bocca l'anime e le portano a certe bocche piene di fuoco, che sono sopra la sommità d'un altissimo monte; di contro a questi sono Angeli, che similmente a altri di que' morti, che vengono a essere de' buoni, cavano l'anime di bocca e le portano volando in Paradiso. Et in questa storia è una scritta grande, tenuta da due Angeli, dove sono queste parole:

Ischermo di savere e di ricchezza, di nobiltate ancora e di prodezza vale niente ai colpi di costei,

con alcune altre parole, che malamente s'intendono. Di sotto poi, nell'ornamento di questa storia, sono nove Angeli, che tengono in alcune accomodate scritte, motti volgari e latini, posti in quel luogo da basso, perché in alto guastavano la storia; et il non gli porre nell'opera, pareva mal fatto all'auttore, che gli reputava bellissimi, e forse erano ai gusti di quell'età; da noi si lasciano la maggior parte per non fastidire altrui con simili cose impertinenti e poco dilettevoli, senzaché, essendo il più di cotali brevi cancellati, il rimanente viene a restare poco meno che imperfetto. Facendo dopo queste cose l'Orgagna il Giudizio, collocò Gesù Cristo in alto sopra le nuvole in mezzo ai dodici suoi Apostoli, [a] giudicare i vivi et i morti, mostrando con bell'arte e molto vivamente, da un lato i dolorosi affetti de' dannati, che, piangendo, sono da furiosi Demonii strascinati all'inferno; e dall'altro la letizia et il giubilo de' buoni, che da una squadra d'An-geli guidati da Michele Arcangelo sono, come eletti, tutti festosi tirati alla parte destra de' beati. Et è un peccato vera-mente che, per mancamento di scrittori, in tanta moltitudine d'uomini togati, cavallieri et altri signori che vi sono effigiati e ritratti dal naturale, come si vede di nessuno o di pochissimi, si sappiano i nomi o chi furono. Ben si dice che un papa, che vi si vede, è Innocenzio Quarto, amico di Manfredi. Dopo quest'opera et alcune sculture di marmo fatte con suo molto onore nella Madonna, ch'è in su la coscia del ponte Vecchio, lasciando Bernardo suo fratello a lavorare in Camposanto da per sé un Inferno, secondo che è descritto da Dante, che fu poi l'anno 1530 guasto e racconcio dal Sollazzino, pittore de' tempi nostri, se ne tornò Andrea a Fiorenza, dove nel mezzo della chiesa di Santa Croce a man destra, in una grandissima facciata, dipinse a fresco le medesime cose che dipinse nel Camposanto di Pisa, in tre quadri simili, eccetto però la storia dove San Macario mostra a' tre re la miseria umana; e la vita de' romiti, che servono a Dio in su quel monte. Facendo dunque tutto il resto dell'opera, lavorò in questa con miglior disegno e più diligenza, che a Pisa fatto non avea, tenendo nondimeno quasi il medesimo modo nell'invenzioni, nelle maniere, nelle scritte e nel rimanente senza mutare altro che i ritratti di naturale: perché quelli di quest'opera furono parte d'amici suoi carissimi, quali mise in Paradiso e parte di poco amici che furono da lui posti nell'Inferno. Fra i buoni si vede in profilo col regno in capo, ritratto di naturale Papa Clemente Sesto, che al tempo suo ridusse il Giubileo dai cento ai cinquanta anni, e che fu amico de' Fiorentini, et ebbe delle sue pitture che gli furon carissime; fra i medesimi è maestro Dino del Garbo, medico allora eccellentissimo, vestito come allora usavano i dottori, e con una berretta rossa in capo foderata di vai, e tenuto per mano da un Angelo, con altri assai ritratti, che non si riconoscono. Fra i dannati ritrasse il Guardi, messo del Comune di Firenze stra[s]cinato dal Diavolo con un oncino, e si conosce a' tre gigli rossi, che ha in una beretta bianca, secondo che allora portavano i messi et altre simili brigate; e questo, perché una volta lo pegnorò; vi ritrasse ancora il notaio et il giudice, che in quella causa gli furono contrari. Appresso al Guardi è Cecco da Ascoli, famoso mago di que' tempi. E poco di sopra, cioè nel mezzo, è un frate ipocrito, che, uscito d'una sepoltura, si vuole furtivamente mettere fra i buoni, mentre un Angelo lo scuopre e lo spigne fra i dannati. Avendo Andrea, oltr'a Bernardo, un fratello chiamato Iacopo che attendeva ma con poco profitto alla scultura, nel fare per lui qualche volta disegni di rilievo e di terra, gli venne voglia di fare qualche cosa di marmo e vedere se si ricordava de' principii di quell'arte in che aveva, come si disse, in Pisa lavorato; e così, messosi con più studio alla pruova, vi fece di sorte acquisto, che poi se ne servì, come si dirà, onoratamente. Dopo si diede con tutte le forze agli studi dell'architettura, pensando, quando che fusse, avere a servirsene. Né lo fallì il pensiero, perché l'anno 1355, avendo il Comune di Firenze compero appresso al palazzo alcune case di cittadini, per allargarsi e fare maggior piazza, e per fare ancora un luogo dove si potessero ne' tempi piovosi e di verno ritirare i cittadini e fare quelle cose al coperto che si facevano in su la ringhiera quando il mal tempo non impediva, feciono fare molti disegni per fare una magnifica e grandissima loggia vicina al palazzo a questo effetto, et insieme la Zecca, dove si batte la moneta; fra i quali disegni fatti dai migliori maestri della città, essendo approvato universalmente et accettato quello dell'Orgagna, come maggiore, più bello e più magnifico di tutti gl'altri, per partito de' signori e del Comune fu, secondo l'ordine di lui, cominciata la loggia grande di piazza sopra i fondamenti fatti al tempo del duca d'Atene, e tirata inanzi con molta diligenza di pietre quadre benissimo commesse. E, quello che fu cosa nuova in que' tempi, furono gl'archi delle volte fatti non più in quarto acuto, come si era fino a quell'ora costumato, ma con nuovo e lodato modo, girati in mezzi tondi, con molta grazia e bellezza di tanta fabrica, che fu in poco tempo, per ordine d'An-drea, condotta al suo fine, e se si fusse avuto considerazione di metterla allato a Santo Romolo e farle voltare le spalle a tramontana, il che forse non fecero per averla commoda alla porta del palazzo, ella sarebbe stata, com'è bellissima di lavoro, utilissima fabrica a tutta la città, là dove per lo gran vento la vernata non vi si può stare.

Fece in questa loggia l'Orgagna fra gl'archi della facciata dinanzi, in certi ornamenti di sua mano, sette figure di marmo di mezzo rilievo, per le sette virtù teologiche e cardinali, così belle che, accompagnando tutta l'opera, lo fecero conoscere per non men buono scultore che pittore et architetto, senzaché fu in tutte le sue azzioni faceto, costumato et amabile uomo quanto mai fusse altro par suo. E perché non lasciava mai, per lo studio d'una delle tre sue professioni, quello dell'altra, mentre si fabricava la loggia fece una tavola a tempera, con molte figure grandi e la predella di figure piccole, per quella cappella degli Strozzi dove già con Bernardo suo fratello aveva fatto alcune cose a fresco; nella qua-le tavola, parendogli ch'ella potesse fare migliore testimonianza della sua professione che i lavori fatti a fresco non potevano, vi scrisse il suo nome con queste parole: “Anno Domini MCCCLVII. Andreas Cionis de Florentia me pinxit”.

Compiuta quest'opera, fece alcune pitture pur in tavola, che furono mandate al Papa in Avignone, le quali ancora sono nella chiesa catedrale di quella città. Poco poi, avendo gl'uomini della Compagnia d'Or San Michele messi insieme molti danari di limosine e beni stati donati a quella Madonna per la mortalità del 1348, risolverno volerle fare intorno una capella o vero tabernacolo non solo di marmi in tutti i modi intagliati, e d'altre pietre di pregio ornatissimo e ricco, ma di musaico ancora e d'ornamenti di bronzo, quanto più desiderare si potesse, intanto che per opera e per materia avanzasse ogni altro lavoro insin a quel dì per tanta grandezza stato fabricato; perciò, dato di tutto carico all'Orgagna come al più eccellente di quell'età, egli fece tanti disegni che finalmente uno ne piacque a chi governava, come migliore di tutti gl'altri; onde alogato il lavoro a lui, si rimisero al tutto nel giudizio e consiglio suo, per che egli, dato a diversi maestri d'intaglio, avuti di più paesi, a fare tutte l'altre cose, attese con il suo fratello a condurre tutte le figure dell'ope-ra; e finito il tutto le fece murare e commettere insieme molto consideratamente, senza calcina, con spranghe di rame impiombate, acciò che i marmi lustranti e puliti non si macchiassono; la qual cosa gli riuscì tanto bene, con utile et ono-re di quelli che sono stati dopo lui, che a chi considera quell'opera, pare, mediante cotale unione e commettiture trovate dall'Orgagna, che tutta la capella sia stata cavata d'un pezzo di marmo solo. E ancora ch'ella sia di maniera tedesca, in quel genere ha tanta grazia e proporzione, ch'ella tiene il primo luogo fra le cose di que' tempi, essendo massimamente il suo componimento di figure grandi e piccole e d'Angeli e Profeti di mezzo rilievo intorno alla Madonna, benissimo condotti, e maraviglioso ancora il getto de' ricignimenti di bronzo, diligentemente puliti, che girando intorno a tutta l'o-pera, la rachiuggono e serrano insieme, di maniera ch'essa ne rimane non meno gagliarda e forte che in tutte l'altre parti bellissima. Ma quanto egli si affaticasse per mostrare in quell'età grossa la sottigliezza del suo ingegno, si vede in una storia grande di mezzo rilievo nella parte di dietro del detto tabernacolo, dove in figure d'un braccio e mezzo l'una, fece i dodici Apostoli, che in alto guardano la Madonna mentre in una mandorla circondata d'Angeli saglie in cielo. In uno de' quali Apostoli ritrasse di marmo se stesso vecchio com'era, con la barba rasa, col capuccio avvolto al capo, e col viso piatto e tondo, come di sopra nel suo ritratto, cavato da quello, si vede. Oltre a ciò scrisse da basso nel marmo queste parole: “Andreas Cionis Pictor Florentinus Oratorii Archimagister extitit huius. MCCCLIX”.

Trovasi che l'edifizio di questa loggia e del tabernacolo di marmo con tutto il magisterio costarono novantaseimila fiorini d'oro, che furono molto bene spesi, perciò che egli è per l'architettura, per le sculture et altri ornamenti così bello come qual si vogl'altro di que' tempi e tale, che per le cose fattevi da lui è stato e sarà sempre vivo e grande il nome d'Andrea Orgagna, il quale usò nelle sue pitture dire: fece Andrea di Cione scultore: e nelle sculture: fece Andrea di Cione pittore, volendo che la pittura si sapesse nella scultura, e la scultura nella pittura. Sono per tutto Firenze molte tavole fatte da lui, che parte si conoscono al nome, come una tavola in San Romeo, e parte alla maniera, come una che è nel capitolo del monasterio degl'Angeli. Alcune che ne lasciò imperfette furono finite da Bernardo suo fratello, che gli sopravisse, non però molt'anni. E perché, come si è detto, si dilettò Andrea di far versi et altre poesie, egli già vecchio, scrisse alcuni sonetti al Burchiello allora giovanetto. Finalmente, essendo d'anni sessanta, finì il corso di sua vita nel 1389, e fu portato dalle sue case, che erano nella via vecchia de' Corazzai, alla sepoltura onoratamente.

Furono nei medesimi tempi dell'Orgagna molti valent'uomini nella scultura e nella architettura, de' quali non si san-no i nomi, ma si veggono l'opere, che non sono se non da lodare e comendare molto; opera de' quali è non solamente il monasterio della Certosa di Fiorenza fatta a spese della nobile famiglia degl'Acciaiuoli, e particolarmente di Messer Nicola, gran siniscalco del re di Napoli, ma le sepolture ancora del medesimo, dove egl'è ritratto di pietra, e quella del padre e d'una sorella, sopra la lapide della quale, che è di marmo, furono amendue ritratti molto bene dal naturale l'anno 1366. Vi si vede ancora di mano de' medesimi la sepoltura di Messer Lorenzo, figliuolo di detto Nicola, il quale morto a Napoli, fu recato in Fiorenza, et in quella, con onoratissima pompa d'essequie, riposto. Parimente nella sepoltura del cardinale Santa Croce della medesima famiglia, ch'è in un coro fatto allora di nuovo dinanzi all'altar maggiore, è il suo ritratto in una lapide di marmo molto ben fatto l'anno 1390.

Discepoli d'Andrea nella pittura furono Bernardo Nello di Giovanni Falconi pisano, che lavorò molte tavole nel Duomo di Pisa, e Tommaso di Marco fiorentino, che fece oltr'a molte altre cose, l'anno 1392, una tavola che è in S. Antonio di Pisa, appoggiata al tramezzo della chiesa.

Dopo la morte d'Andrea, Iacopo suo fratello che attendeva alla scultura, come si è detto, et all'architettura, fu adoperato l'anno milletrecentoventiotto, quando si fondò e fece la torre e porta di San Piero Gattolini; e si dice che furono di sua mano i quattro marzocchi di pietra che furon messi sopra i quattro cantoni del palazzo principale di Firenze, tutti messi d'oro. La quale opera fu biasimata assai per essersi messo in que' luoghi senza proposito più grave peso che per avventura non si doveva, et a molti sarebbe piaciuto che i detti marzocchi si fussono più tosto fatti di piastre di rame, e dentro voti e poi dorati a fuoco, posti nel medesimo luogo; perché sarebbono stati molto meno gravi e più durabili. Dicesi anco che è di mano del medesimo il cavallo che è in Santa Maria del Fiore di rilievo tondo e dorato, sopra la porta che va alla Compagnia di San Zanobi, il quale si crede che vi sia per memoria di Piero Farnese, capitano de' Fiorentini; tuttavia non sapendone altro non l'affermerei. Nei medesimi tempi Mariotto, nipote d'Andrea, fece in Fiorenza, a fresco, il Paradiso di S. Michel Bisdomini nella via de' Servi, e la tavola d'una Nunziata che è sopra l'altare; e per Mona Cecilia de' Boscoli un'altra tavola con molte figure, posta nella medesima chiesa presso alla porta. Ma fra tutti i discepoli del-l'Orgagna niuno fu più eccellente di Francesco Traini, il quale fece per un signore di casa Coscia, che è sotterrato in Pisa nella capella di S. Domenico, della chiesa di S. Caterina, in una tavola in campo d'oro, un San Domenico ritto, di braccia due e mezzo, con sei storie della vita sua, che lo mettono in mezzo, molto pronte e vivaci e ben colorite; e nella medesima chiesa fece nella capella di S. Tommaso d'Aquino una tavola a tempera con invenzione capricciosa, che è molto lodata, ponendovi dentro detto S. Tommaso a seder ritratto di naturale, dico di naturale perché i frati di quel luogo fecero venire un'immagine di lui, dalla Badia di Fossa Nuova, dove egl'era morto l'anno 1323. Da basso intorno al S. Tommaso, collocato a sedere in aria con alcuni libri in mano, illuminanti con i razzi e splendori loro il popolo cristiano, stanno inginocchioni un gran numero di dottori e cherici d'ogni sorte, vescovi, cardinali e papi, fra i quali è il ritratto di papa Urbano Sesto. Sotto i piedi di S. Tommaso stanno Sabello, Arrio et Averrois et altri eretici e filosofi con i loro libri tutti stracciati. E la detta figura di S. Tommaso è messa in mezzo da Platone che le mostra il Timeo, e d'Aristotile che le mostra l'Etica. Di sopra un Gesù Cristo, nel medesimo modo in aria, in mezzo ai quattro Evangelisti, benedice S. Tommaso, e fa sembiante di mandargli sopra lo Spirito Santo, riempiendolo d'esso e della sua grazzia. La quale opera finita che fu, acquistò grandissimo nome e lodi a Francesco Traini, avendo egli nel lavorarla avanzato il suo maestro Andrea nel colorito, nell'unione e nell'invenzione di gran lunga. Il quale Andrea fu molto diligente ne' suoi disegni, come nel nostro libro si può vedere.

FINE DELLA VITA D'ANDREA ORGAGNA

VITA DI TOMMASO FIORENTINO

PITTORE DETTO GIOTTINO

Quando, fra l'altre arti, quelle che procedono dal disegno si pigliano in gara e gl'artefici lavorano a concorrenza, senza dubbio, essercitandosi i buoni ingegni con molto studio, truovano ogni giorno nuove cose per sodisfare ai varii gusti degl'uomini; e parlando per ora della pittura, alcuni, ponendo in opera cose oscure et inusitate e mostrando in quelle la difficultà del fare, fanno nell'ombre la chiarezza del loro ingegno conoscere; altri, lavorando le dolci e delicate, pensando quelle dover essere più grate agl'occhi di chi le mira per avere più rilievo, tirano agevolmente a sé gl'animi della maggior parte degl'uomini; altri poi, dipingendo unitamente e con abagliare i colori, ribattendo a' suoi luoghi i lumi e l'ombre delle figure, meritano grandissima lode e mostrano con bella destrezza d'animo i discorsi dell'intelletto, come con dolce maniera mostrò sempre nell'opere sue Tommaso di Stefano, detto Giottino, il quale, essendo nato l'an-no 1324, dopo l'avere imparato da suo padre i primi principii della pittura, si resolvé, essendo ancor giovanetto, volere, in quanto potesse con assiduo studio, essere immitatore della maniera di Giotto più tosto che di quella di Stefano suo padre; la qual cosa gli venne così ben fatta che ne cavò, oltre alla maniera, che fu molto più bella di quella del suo maestro, il sopra nome di Giottino che non gli cascò mai; anzi fu parere di molti, e per la maniera e per lo nome, i quali però furono in grandissimo errore, che fusse figliuolo di Giotto; ma in vero non è così, essendo cosa certa, o per dir meglio credenza (non potendosi così fatte cose affermare da ognuno), che fu figliuolo di Stefano pittore fiorentino. Fu dunque costui nella pittura sì diligente e di quella tanto amorevole che, se bene molte opere di lui non si ritrovano, quelle nondimeno che trovate si sono erano buone e di bella maniera, perciò che i panni, i capegli, le barbe et ogni altro suo lavoro furono fatti et uniti con tanta morbidezza e diligenza, che si vede ch'egli aggiunse senza dubbio l'unione a quest'arte e l'ebbe molto più perfetta che Giotto suo maestro e Stefano suo padre avuta non aveano. Dipinse Giottino nella sua giovanezza in S. Stefano al ponte Vecchio di Firenze una capella allato alla porta del fianco, che se bene è oggi molto guasta dalla umidità, in quel poco che è rimasto si vede la destrezza e l'ingegno dell'artefice; fece poi al canto alla Macine ne' frati Ermini, i Santi Cosimo e Damiano, che spenti dal tempo ancor essi oggi poco si veggono. E lavorò in fresco una capella nel vecchio S. Spirito di detta città, che poi nell'incendio di quel tempio rovinò; et in fresco sopra la porta principale della chiesa la storia della missione dello Spirito Santo, e su la piazza di detta chiesa, per ire al canto alla Cuculia, sul cantone del convento, quel tabernacolo che ancora vi si vede con la Nostra Donna et altri Santi d'attor-no che tirano, e nelle teste e nell'altre parti, forte alla maniera moderna, perché cercò variare e cangiare le carnagioni et accompagnare nella varietà de' colori e ne' panni con grazia e giudizio tutte le figure. Costui medesimamente lavorò in

S. Croce nella capella di S. Silvestro l'istorie di Costantino con molta diligenza, avendo bellissime considerazioni nei gesti delle figure, e poi dietro a un ornamento di marmo, fatto per la sepoltura di Messer Bettino de' Bardi, uomo stato in quel tempo in onorati gradi di milizia, fece esso Messer Bettino di naturale armato che esce d'un sepolcro ginocchioni, chiamato col suono delle trombe del Giudizio da due Angeli che in aria accompagnano un Cristo nelle nuvole molto ben fatto. Il medesimo in S. Pancrazio fece, all'entrar della porta a man ritta, un Cristo che porta la croce et alcuni Santi appresso, che hanno espressamente la maniera di Giotto. Era in S. Gallo, il qual convento era fuor della porta che si chiama dal suo nome e fu rovinato per l'assedio, in un chiostro dipinta a fresco una Pietà, della quale n'è copia in S. Pancrazio già detto, in un pilastro accanto alla capella maggiore.

Lavorò a fresco in S. Maria Novella alla capella di S. Lorenzo de' Giuochi, entrando in chiesa per la porta a man destra, nella facciata dinanzi, un San Cosimo e S. Damiano et in Ognisanti un S. Cristofano et un S. Giorgio, che dalla malignità del tempo furono guasti e rifatti da altri pittori, per ignoranza d'un proposto poco di tal mestier intendente. Nella detta chiesa è di mano di Tommaso rimaso salvo l'arco che è sopra la porta della sagrestia, nel quale è a fresco una Nostra Donna col figliuolo in braccio, che è cosa buona per averla egli lavorata con diligenza.

Mediante queste opere, avendosi acquistato tanto buon nome Giottino, imitanto nel disegno e nelle invenzione, come si è detto, il suo maestro, che si diceva essere in lui lo spirito d'esso Giotto, per la vivezza de' colori e per la pratica del disegno, l'anno 1343, a dì 2 di luglio, quando dal popolo fu cacciato il duca d'Atene e che egli ebbe con giuramento renunziata e renduta la signoria e la libertà ai Fiorentini, fu forzato dai dodici Riformatori dello stato, e particolarmente dai preghi di Messer Agnolo Acciaiuoli, allora grandissimo cittadino che molto poteva disporre di lui, dipignere per dispregio nella torre del palagio del podestà il detto duca et i suoi seguaci, che furono Messer Ceritieri Visdomini, Messer Maladiasse, il suo conservadore e Messer Ranieri da S. Gimignano, tutti con le mitere di Giustizia in capo vituperosamente; intorno alla testa del duca erano molti animali rapaci e d'altre sorti, significanti la natura e qualità di lui. Et uno di que' suoi consiglieri aveva in mano il palagio de' Priori della città e come disleale e traditore della patria glielo porgeva. E tutti avevano sotto l'arme e l'insegne delle famiglie loro, et alcune scritte che oggi si possono malamente leggere per esser consumate dal tempo. Nella quale opera, per disegno e per esser stata condotta con molta diligenza, piacque universalmente a ognuno la maniera dell'artefice. Dopo fece alle Campora, luogo de' monaci Neri fuor della porta a S. Piero Gattolini, un S. Cosimo e S. Damiano, che furono guasti nell'imbiancare la chiesa; et al ponte a' Romiti in Valdarno, il tabernacolo ch'è in sul mezzo murato, dipinse a fresco con bella maniera di sua mano. Trovasi, per ricordo di molti che ne scrissero, che Tommaso attese alla scultura e lavorò una figura di marmo nel campanile di S. Maria del Fiore di Firenze di braccia quattro, verso dove oggi sono i Pupilli. In Roma similmente condusse a buon fine in S. Giovanni Laterano una storia, dove figurò il papa in più gradi, la quale oggi ancora si vede consumata e rosa dal tempo. Et in casa degl'Orsini una sala piena d'uomini famosi et in un pilastro d'Araceli un San Lodovico molto bello a canto all'al-tar maggiore a man ritta; in Ascesi ancora nella chiesa di sotto di S. Francesco dipinse sopra il pergamo, non vi essendo altro luogo che non fusse dipinto, in un arco la coronazione di Nostra Donna con molti Angeli intorno, tanto graziosi e con bell'arie nei volti et in modo dolci e delicati, che mostrano, con la solita unione de' colori il che era proprio di que-sto pittore, lui avere tutti gl'altri insin allora stati paragonato; et intorno a questo arco fece alcune storie di S. Niccolò. Parimente nel monasterio di S. Chiara della medesima città, a mezzo la chiesa, dipinse una storia in fresco, nella quale è S. Chiara sostenuta in aria da due Angeli che paiono veri, la quale resuscita un fanciullo che era morto, mentre le stanno intorno tutte piene di maraviglia molte femine belle nel viso, nell'acconciature de' capi e negl'abiti che hanno indosso di que' tempi molto graziosi. Nella medesima città d'Ascesi fece sopra la porta della città che va al Duomo, cioè in un arco dalla parte di dentro, una Nostra Donna col Figliuolo in collo, con tanta diligenza che pare viva, et un S. Francesco et un altro santo bellissimi, le quali due opere, se bene la storia di S. Chiara non è finita per essersene Tommaso tornato a Firenze amalato, sono perfette e d'ogni lode dignissime.

Dicesi che Tommaso fu persona maninconica e molto soletaria, ma dell'arte amorevole e studiosissimo, come apertamente si vede in Fiorenza nella chiesa di San Romeo, per una tavola lavorata da lui a tempera, con tanta diligenza et amore, che di suo non si è mai veduto in legno cosa meglio fatta: in questa tavola, che è posta nel tramezzo di detta chiesa a man destra, è un Cristo morto con le Marie intorno e Nicodemo, accompagnati da altre figure, che con amaritudine et atti dolcissimi et affettuosi piangono quella morte, torcendosi con diversi gesti di mani e battendosi di maniera che nell'aria de' visi si dimostra assai chiaramente l'aspro dolore del costar tanto i peccati nostri; et è cosa maravigliosa a considerare, non che egli penetrasse con l'ingegno a sì alta imaginazione, ma che la potesse tanto bene esprimere col pennello. Laonde, è quest'opera sommamente degna di lode, non tanto per lo soggetto e per l'invenzione, quanto per avere in essa mostrato l'artefice in alcune teste che piangono che, ancora che il lineamento si storca nelle ciglia, ne gl'occhi, nel naso e nella bocca di chi piagne, non guasta però né altera una certa bellezza, che suole molto patire nel pianto quando altri non sa bene valersi dei buon modi nell'arte. Ma non è gran fatto che Giottino conducesse questa tavola con tanti avertimenti, essendo stato nelle sue fatiche desideroso sempre più di fama e di gloria che d'altro premio o ingordigia del guadagno, che fa meno diligenti e buoni i maestri del tempo nostro. E come non proccacciò costui d'ave-re gran richezze, così non andò anche molto dietro ai commodi della vita; anzi, vivendo poveramente, cercò di sodisfar più altri che se stesso perché, governandosi male e durando fatica, si morì di tisico d'età d'anni XXXII; e da' parenti ebbe sepoltura fuor di S. Maria Novella alla porta del Martello allato al sepolcro di Bontura.

Furono discepoli di Giottino, il quale lasciò più fama che facultà, Giovanni Tossicani d'Arezzo, Michelino, Giovanni dal Ponte e Lippo, i quali furono assai ragionevoli maestri di quest'arte, ma più di tutti Giovanni Tossicani, il quale fece, dopo Tommaso, di quella stessa maniera di lui molte opere per tutta Toscana, e particolarmente nella Pieve d'A-rezzo la capella di S. Maria Madalena de' Tuccerelli, e nella Pieve del castel d'Empoli in un pilastro un S. Iacopo; nel Duomo di Pisa ancora lavorò alcune tavole che poi sono state levate per dar luogo alle moderne. L'ultima opera che costui fece fu, in una capella del Vescovado d'Arezzo, per la contessa Giovanna moglie di Tarlato da Pietramala, una Nunziata bellissima e S. Iacopo e S. Filippo; la qual'opera, per essere la parte di dietro del muro volta a tramontana, era poco meno che guasta affatto dall'umidità quando rifece la Nunziata maestro Agnolo di Lorenzo d'Arezzo, e poco poi Giorgio Vasari, ancora giovanetto, i santi Iacopo e Filippo, con suo grand'utile, avendo molto imparato, allora che non aveva commodo d'altri maestri, in considerare il modo di fare di Giovanni e l'ombre et i colori di quell'opera così guasta com'era. In questa capella si leggono ancora, in memoria della contessa che la fece fare e dipignere, in uno epitaffio di marmo queste parole: “Anno Domini 1335. De mense Augusti, hanc capellam constitui fecit Nobilis Domina Comitissa Ioanna de Sancta Flora, uxor Nobilis Militis Domini Tarlati de Petra Mala ad honorem beatae Mariae Virginis”.

Dell'opere degl'altri discepoli di Giottino non si fa menzione, perché furono cose ordinarie e poco somiglianti a quelle del maestro e di Giovanni Toscani loro condiscepolo. Disegnò Tommaso benissimo, come in alcune carte di sua mano, disegnate con molta diligenza, si può nel nostro libro vedere.

FINE DELLA VITA DI TOMMASO DETTO GIOTTINO

VITA DI GIOVANNI DA PONTE

PITTORE FIORENTINO

Se bene non è vero il proverbio antico, né da fidarsene molto, che “a goditore non manca mai roba”, ma sì bene in contrario è verissimo, ché chi non vive ordinatamente nel grado suo, in ultimo stentando vive e muore miseramente, si vede nondimeno che la fortuna aiuta alcuna volta più tosto coloro che gettano senza ritegno, che coloro che sono in tutte le cose assegnati e ratenuti. E quando manca il favore della fortuna suplisce molte volte al difetto di lei e del mal governo degli uomini, la morte, sopravenendo quando apunto cominciarebbono cotali uomini, con infinita noia, a conoscere quanto sia misera cosa avere sguazzato da giovane e stentare in vecchiezza, poveramente vivendo e faticando; come sarebbe avvenuto a Giovanni da Santo Stefano a Ponte di Fiorenza, se dopo avere consumato il patrimonio, molti guadagni che gli fece venire nelle mani più tosto la fortuna che i meriti, e alcune eredità che gli vennero da non pensato luogo non avesse finito in un medesimo tempo il corso della vita e tutte le facultà. Costui dunque che fu discepolo di Bonamico Buffalmacco e l'immitò più nell'attendere alle commodità del mondo che nel cercare di farsi valente pittore, essendo nato l'anno 1307 e giovanetto stato discepolo di Buffalmacco, fece le sue prime opere nella Pieve d'Empoli a fresco, nella capella di San Lorenzo, dipignendovi molte storie della vita d'esso Santo, con tanta diligenza, che sperandosi dopo tanto principio miglior mezzo, fu condotto l'anno 1344 in Arezzo, dove in San Francesco lavorò in una cap-pella l'assunta di Nostra Donna; e poco poi, essendo in qualche credito in quella città per carestia d'altri pittori, dipinse nella Pieve la capella di Santo Onofrio e quella di Santo Antonio, che oggi dalla umidità è guasta. Fece ancora alcune altre pitture, che erano in Santa Iustina et in S. Matteo, che con le dette chiese furono mandate per terra, nel far fortificare il duca Cosimo quella città, quando in quel luogo a punto fu trovato a' pie' della coscia d'un ponte antico, dove al-lato a detta Santa Giustina entrava il fiume nella città, una testa d'Appio Cieco et una del figliuolo, di marmo bellissime, con uno epitaffio antico e similmente bellissimo, che oggi sono in guardaroba di detto signor Duca.

Essendo poi tornato Giovanni a Firenze in quel tempo che si finì di serrare l'arco di mezzo del ponte a S. Trinita, dipinse in una cappella fatta sopra una pila et intitolata a S. Michelagnolo, dentro e fuori molte figure, e particolarmente tutta la facciata dinanzi; la qual capella insieme col ponte dal diluvio dell'anno 1557 fu portata via. Mediante le quali opere vogliono alcuni, oltre a quello che si è detto di lui nel principio, che fusse poi sempre chiamato Giovanni dal Ponte. In Pisa ancora l'anno 1355 fece in San Paulo a Ripa d'Arno alcune storie a fresco nella capella maggiore dietro all'altare, oggi tutte guaste dall'umido e dal tempo. È parimente opera di Giovanni in Santa Trinita di Fiorenza la capella degli Scali e un'altra, che è allato a quella, e una delle storie di San Paulo accanto alla capella maggiore dov'è il sepolcro di maestro Paulo strolago. In Santo Stefano al Ponte Vecchio fece una tavola et altre pitture a tempera et in fresco per Fiorenza e fuori, che gli diedero credito assai. Contentò costui gl'amici suoi, ma più nei piaceri che nell'opere, e fu amico delle persone leterate, e particolarmente di tutti quelli che per venire eccellenti nella sua professione frequentavano gli studii di quella, e se bene non aveva cercato d'avere in sé quello che desiderava in altrui, non restava però di confortar gli altri a virtuosamente operare. Essendo finalmente Giovanni vivuto LIX anni, di mal di petto in pochi giorni uscì di questa vita, nella quale poco più che dimorato fusse, averebbe patito molti incommodi, essendogli appena rimaso tanto in casa che bastasse a dargli onesta sepoltura in Santo Stefano dal Ponte Vecchio. Furono l'opere sue intorno al MCCCLXV.

Nel nostro libro de' disegni di diversi, antichi e moderni, è un disegno d'acquerello di mano di Giovanni, dove è un San Giorgio a cavallo che occide il serpente et un'ossatura di morto che fanno fede del modo e maniera che aveva costui nel disegnare.

IL FINE DELLA VITA DI GIOVANNI

VITA D'AGNOLO GADDI PITTOR FIORENTINO

Di quanto onore e utile sia l'essere eccellente in un'arte nobile, manifestamente si vide nella virtù e nel governo di Taddeo Gaddi, il quale, essendosi procacciato con la industria e fatiche sue oltre al nome buonissime faccultà, lasciò in modo accomodate le cose della famiglia sua, quando passò all'altra vita, che agevolmente potettono Agnolo e Giovanni suoi figliuoli dar poi principio a grandissime ricchezze et all'esaltazione di casa Gaddi, oggi in Fiorenza nobilissima et in tutta la cristianità molto reputata. E di vero è ben stato ragionevole, avendo ornato Gaddo, Taddeo, Agnolo e Giovanni colla virtù e con l'arte loro molte onorate chiese, che siano poi stati i loro successori dalla S. Chiesa Romana e da' sommi Pontefici di quella, ornati delle maggiori dignità ecclesiastiche.

Taddeo dunque, del quale avemo di sopra scritto la vita, lasciò Agnolo e Giovanni suoi figliuoli in compagnia di molti suoi discepoli, sperando che particolarmente Agnolo dovesse nella pittura eccellentissimo divenire; ma egli, che nella sua giovanezza mostrò volere di gran lunga superare il padre, non riuscì altramente secondo l'openione che già era stata di lui conceputa, perciò che, essendo nato e alevato negl'agi, che sono molte volte d'impedimento agli studii, fu dato più ai traffichi e alle mercanzie che all'arte della pittura. Il che non ci dee né nuova né strana cosa parere, attraversandosi quasi sempre l'avarizia a molti ingegni, che ascenderebbono al colmo delle virtù, se il desiderio del guadagno negl'anni primi e migliori non impedisse loro il viaggio. Lavorò Agnolo nella sua giovanezza in Fiorenza, in S. Iacopo tra' fossi, di figure poco più d'un braccio un'istorietta di Cristo quando resuscitò Lazero quatriduano, dove, immaginatosi la corruzzione di quel corpo stato morto tre dì, fece le fasce che lo tenevano legato macchiate dal fracido della carne, e intorno agl'occhi certi lividi e giallicci della carne, tra la viva e la morta, molto consideratamente; non senza stupore degl'Apostoli e d'altre figure, i quali con attitudini varie e belle, e con i panni al naso per non sentire il puzzo di quel corpo corrotto, mostrano non meno timore e spavento per cotale maravigliosa novità, che allegrezza e contento Maria e Marta che si veggono tornare la vita nel corpo morto del fratello; la quale opera di tanta bontà fu giudicata, che molti stimarono la virtù d'Agnolo dovere trapassare tutti i discepoli di Taddeo e ancora lui stesso, ma il fatto passò altramente perché, come la volontà nella giovanezza vince ogni difficultà per acquistare fama, così molte volte una certa stracurataggine che seco portano gl'anni fa che in cambio d'andare inanzi si torna indietro, come fece Agnolo; al quale per così gran saggio della virtù sua essendo poi stato allogato dalla famiglia d'i Soderini, sperandone gran cose, la capella maggiore del Carmine, egli vi dipinse dentro tutta la vita di Nostra Donna, tanto men bene che non avea fatto la ressurrezione di Lazzero, che a ognuno fece conoscere avere poca voglia d'attendere con tutto lo studio all'arte della pittura; perciò che in tutta quella così grand'opera, non è altro di buono che una storia, dove intorno alla Nostra Donna in una stanza sono molte fanciulle, che come hanno diversi gl'abiti e l'acconciature del capo secondo che era diverso l'uso di que' tempi, così fanno diversi essercizii: questa fila, quella cuce, quell'altra incanna, una tesse et altre altri lavori assai bene da Agnolo considerati e condotti.

Nel dipignere similmente per la famiglia nobile degl'Alberti la capella maggiore della chiesa di Santa Croce a fresco, facendo in essa tutto quello che avvenne nel ritrovamento della croce, condusse quel lavoro con molta pratica ma con non molto disegno, perché solamente il colorito fu assai bello e ragionevole. Nel dipignere poi nella capella de' Bardi, pure in fresco, e nella medesima chiesa alcune storie di San Lodovico, si portò molto meglio; e perché costui lavorava a capricci, e quando con più studio e quando con meno, in Santo Spirito pure di Firenze, dentro alla porta che di piazza va in convento, fece sopra un'altra porta una Nostra Donna col Bambino in collo e Santo Agostino e Santo Niccolò, tanto bene a fresco che dette figure paiono fatte pur ieri. E perché era in certo modo rimaso a Agnolo per eredità il segreto di lavorare il musaico e aveva in casa gl'instrumenti e tutte le cose che in ciò aveva adoperato Gaddo suo avolo, egli più per passar tempo e per quella comodità che per altro, lavorava, quando bene gli veniva, qualche cosa di musaico. Laonde, essendo stati dal tempo consumati molti di que' marmi che cuoprono l'otto faccie del tetto di San Giovanni, e per ciò avendo l'umido che penetrava dentro guasto assai del musaico che Andrea Tafi aveva già in quel tempo lavo-rato, deliberarono i consoli dell'Arte de' Mercatanti, acciò non si guastasse il resto, di rifare la maggior parte di quella coperta di marmi, e fare similmente racconciare il musaico. Perché dato di tutto ordine e commissione a Agnolo, egli l'anno 1346 fece ricoprirlo di marmi nuovi e sopraporre, con nuova diligenza, i pezzi delle commettiture due dita l'uno all'altro, intaccando la metà di ciascuna pietra insino a mezzo. Poi comettendole insieme con stucco fatto di mastrice e cera fondute insieme, l'accomodò con tanta diligenza che da quel tempo in poi non ha né il tetto né le volte alcun danno dall'acque ricevuto. Avendo poi Agnolo racconcio il musaico, fu cagione mediante il consiglio suo e disegno molto ben considerato, che si rifece in quel modo che sta ora, intorno al detto tempio, tutta la cornice di sopra di marmo sotto il tetto, la quale era molto minore che non è, e molto ordinaria. Per ordine del medesimo furono fatte ancora nel palagio del podestà le volte della sala che prima era a tetto, acciò che, oltre all'ornamento, il fuoco, come molto tempo inanzi fatto avea, non potesse altra volta farle danno. Appresso questo, per consiglio d'Agnolo furono fatti intorno al detto palazzo i merli che oggi vi sono, i quali prima non vi erano di niuna sorte. Mentre che queste cose si lavoravano, non lasciando del tutto la pittura, dipinse nella tavola, che egli fece dell'altar maggiore di San Brancazio a tempera, la Nostra Donna, San Giovanni Battista et il Vangelista, et appresso San Nereo, Achilleo e Pancrazio fratelli con altri Santi. Ma il meglio di quell'opera, anzi quanto vi si vede di buono, è la predella sola, la quale è tutta piena di figure piccole, divise in otto storie della Madonna e di Santa Reparata. Nella tavola poi dell'altar grande di Santa Maria Maggiore pur di Firenze, fece per Barone Capelli nel 1348 intorno a una Coronazione di Nostra Donna un ballo d'Angeli ragionevole. Poco poi nella Pieve della terra di Prato, stata riedificata con ordine di Giovanni Pisano l'anno 1312, come si è detto di sopra, dipinse Agnolo, nella capella, a fresco, dove era riposta la Cintola di Nostra Donna, molte storie della vita di lei, e in altre chiese di quella terra, piena di monasterii e conventi onoratissimi, altri lavori assai. In Fiorenza poi dipinse l'ar-co sopra la porta di San Romeo e lavorò a tempera in Orto S. Michele una disputa di Dottori con Cristo nel tempio; e nel medesimo tempo, essendo state rovinate molte case per allargare la piazza de' Signori, et in particolare la chiesa di Santo Romolo, ella fu rifatta col disegno d'Agnolo, del quale si veggiono in detta città per le chiese molte tavole di sua mano, e similmente nel dominio si riconoscono molte delle sue opere, le quali furono lavorate da lui con molto suo utile se bene lavorava più per fare come i suoi maggiori fatto avevano che per voglia che ne avessi, avendo egli indiritto l'animo alla mercanzia che gli era di migliore utile; come si vide quando i figliuoli non volendo più vivere da dipintori si diedero del tutto alla mercatura, tenendo per ciò casa aperta in Vinezia insieme col padre che, da un certo tempo in là, non lavorò se non per suo piacere e in un certo modo per passar tempo. In questa guisa dunque, mediante i traffichi e mediante l'arte sua avendo Agnolo acquistato grandissime facultà, morì l'anno sessantatreesimo di sua vita oppresso da una febre maligna che in pochi giorni lo finì.

Furono suoi discepoli maestro Antonio da Ferrara, che fece in San Francesco a Urbino e a Città di Castello molte bell'opere, e Stefano da Verona, il quale dipinse in fresco perfettissimamente, come si vede in Verona sua patria in più luoghi et in Mantoa ancora in molte sue opere. Costui fra l'altre cose fu eccellente nel fare con bellissime arie i volti de' putti, delle femmine e de' vecchi, come si può vedere nell'opere sue, le quali furono immitate e ritratte tutte da quel Pie-ro da Perugia miniatore, che miniò tutti i libri che sono a Siena in Duomo nella libreria di Papa Pio, e che colorì in fresco praticamente. Fu anche discepolo d'Agnolo Michele da Milano e Giovanni Gaddi suo fratello, il quale nel chiostro di Santo Spirito, dove sono gl'archetti di Gaddo e di Taddeo, fece la disputa di Cristo nel tempio con i Dottori, la purificazione della Vergine, la tentazione di Cristo nel diserto et il battesimo di Giovanni, e finalmente essendo in espettazione grandissima si morì. Imparò dal medesimo Agnolo la pittura Cennino di Drea Cennini da Colle di Valdelsa, il quale, come affezionatissimo dell'arte, scrisse in un libro di sua mano i modi del lavorare a fresco, a tempera, a colla et a gomma, et inoltre come si minia e come in tutti i modi si mette d'oro. Il qual libro è nelle mani di Giuliano orefice sanese, eccellente maestro et amico di quest'arti. E nel principio di questo suo libro trattò della natura de' colori così minerali come di cave, secondo che imparò da Agnolo suo maestro, volendo, poiché forse non gli riuscì imparare a perfettamente dipignere, sapere al meno le maniere de' colori, delle tempere, delle colle e dello ingessare, e da quali colori dovemo guardarci come dannosi nel mescolargli, et insomma molti altri avvertimenti de' quali non fa bisogno ragionare, essendo oggi notissime tutte quelle cose che costui ebbe per gran secreti e rarissime in que' tempi. Non lascerò già di dire che non fa menzione, e forse non dovevano essere in uso, d'alcuni colori di cave, come terre rosse scure, il cinabrese e certi verdi in vetro; si sono similmente ritrovate poi, la terra d'ombra, che è di cava, il giallo santo, gli smalti a fresco et in olio et alcuni verdi e gialli in vetro de' quali mancarono i pittori di quell'età; trattò finalmente de' musaici, del macinare i colori a olio per far campi rossi, azurri, verdi e d'altre maniere; e de' mordenti per mettere d'oro, ma non già per figure. Oltre l'opere che costui lavorò in Fiorenza col suo maestro, è di sua mano, sotto la loggia dello spedale di Bonifazio Lupi, una Nostra Donna con certi santi di maniera sì colorita ch'ella si è insino a oggi molto bene conservata. Questo Cennino, nel primo capitolo di detto suo libro, parlando di se stesso, dice queste proprie parole: “Cennino di Drea Cennini da Colle Di Valdelsa fui informato in nella detta arte dodici anni da Agnolo di Taddeo da Firenze mio maestro, il quale imparò la detta arte da Taddeo suo padre, el quale fu battezzato da Giotto e fu suo discepolo anni ventiquattro. El quale Giotto rimutò l'arte del dipignere di greco in latino e ridusse al moderno, e l'ebbe certo più compiuta che avesse mai nessuno”. Queste sono le proprie parole di Cennino, al quale parve, sì come fanno grandissimo benefizio quelli che di greco traducono in latino alcuna cosa a coloro che il greco non intendono, che così facesse Giotto in riducendo l'arte della pittura d'una maniera non intesa né conosciuta da nessuno (se non se forse per goffissima) a bella, facile e piacevolissima maniera intesa e conosciuta per buona da chi ha giudizio e punto del ragionevole. I quali tutti discepoli d'Agnolo gli fecero onore grandissimo, et egli fu dai figliuoli suoi, ai quali si dice lasciò il valere di cinquantamila fiorini o più, sepellito in Santa Maria Novella, nella sepoltura che egli medesimo aveva fatto per sé e per i descendenti, l'anno di nostra salute MCCCLXXXVII.

Il ritratto d'Agnolo fatto da lui medesimo si vede nella capella degli Alberti in Santa Croce, nella storia dove Eraclio imperatore porta la croce, allato a una porta, dipinto in proffilo con un poco di barbetta e con un cappuccio rosato in capo secondo l'uso di que' tempi. Non fu eccellente nel disegno per quello che mostrano alcune carte che di sua mano sono nel nostro libro.

IL FINE DELLA VITA D'AGNOLO GADDI

VITA DEL BERNA SANESE PITTORE

Se a coloro che si affaticano per venire eccellenti in qualche virtù non troncasse bene spesso la morte nei migliori anni il filo della vita, non ha dubbio che molti ingegni perverrebbono a quel grado che da essi e dal mondo più si desidera. Ma il corto vivere degl'uomini e l'acerbità de' varii accidenti che da tutte le parti ne soprastanno, ce li toglie alcuna fiata tropo per tempo come aperto si potette conoscere nel poveretto Berna sanese. Il quale, ancora che giovane morisse, lasciò nondimeno tant'opere, che egli appare di lunghissima vita, e lasciolle tali e sì fatte che ben si può credere da questa mostra che egli sarebbe venuto eccellente e raro, se non fusse morto sì tosto. Veggonsi di suo in Siena, in due capelle in S. Agostino, alcune storiette di figure in fresco; e nella chiesa era in una faccia, oggi per farvi capelle stata rovinata, una storia d'un giovane menato alla giustizia, così bene fatta quanto sia possibile immaginarsi, vedendosi in quello espressa la pallidezza e il timore della morte, in modo somiglianti al vero che meritò perciò somma lode; era a canto al giovane detto un frate che lo confortava molto bene atteggiato e condotto, et insomma ogni cosa di quell'opera così vivamente lavorata, che ben parve che in quest'opera il Berna s'immaginasse quel caso orribilissimo come dee essere e pieno di acerbissimo e crudo spavento, poiché lo ritrasse così ben col pennello, che la cosa stessa apparente in atto non moverebbe maggiore affetto. Nella città di Cortona ancora dipinse, oltre a molte altre cose sparse in più luoghi di quella città, la maggior parte delle volte e delle facciate della chiesa di S. Margherita, dove oggi stanno frati Zoccolanti. Da Cortona andato a Arezzo l'anno 1369, quando a punto i Tarlati, già stati Signori di Pietra Mala, avevano in quella città fatto finire il convento e il corpo della chiesa di S. Agostino da Moccio scultore et architettore sanese, nelle minori navate del quale avevano molti cittadini fatto fare capelle e sepolture per le famiglie loro, il Berna vi dipinse a fresco nella capella di S. Iacopo alcune storiette della vita di quel santo, e sopra tutto molto vivamente la storia di Marino Barattiere. Il quale, avendo per cupidigia di danari dato e fattone scritta di propria mano l'anima al diavolo, si raccomanda a S. Iacopo perché lo liberi da quella promessa, mentre un diavolo col mostrargli lo scritto gli fa la maggior calca del mondo. Nelle quali tutte figure espresse il Berna con molta vivacità gl'affetti dell'animo. E particolarmente nel viso di Marino, da un canto la paura e dall'altro la fede e sicurezza che gli fa sperare da S. Iacopo la sua liberazione, se bene si vede incontro il diavolo, brutto a maraviglia, che prontamente dice e mostra le sue ragioni al santo, che dopo avere indotto in Marino estremo pentimento del peccato e promessa fatta, lo libera e tornalo a Dio. Questa medesima storia, dice Lorenzo Ghiberti, era di mano del medesimo in S. Spirito di Firenze inanzi ch'egli ardesse, in una capella de' Capponi intitolata in S. Niccolò. Dopo quest'opera dunque, dipinse il Berna nel Vescovado d'Arezzo, per Messer Giuccio di Vanni Tarlati da Pietra Mala, in una capella, un Crucifisso grande et a' piè della croce una Nostra Donna, S. Giovanni Evangelista e S. Francesco in atto mestissimo, e un S. Michelagnolo con tanta diligenza, che merita non piccola lode; e massimamente per essersi così ben mantenuto che par fatto pur ieri; più di sotto è ritratto il detto Giuccio ginocchioni e armato a' piè della croce. Nella Pieve della medesima città lavorò alla capella de' Paganelli molte storie di Nostra Donna, e vi ritrasse di naturale il beato Rinieri, uomo Santo e profeta di quella casata, che porge limosine a molti poveri che gli sono intorno. In S. Bartolomeo ancora dipinse alcune storie del Testamento Vecchio e la storia de' Magi; e nella chiesa dello Spirito Santo fece alcune storie di S. Giovanni Evangelista, et in alcune figure il ritratto di sé e di molti amici suoi, nobili di quella città. Ritornato dopo queste opere alla patria sua, fece in legno molte pitture e piccole e grandi, ma non vi fece lunga dimora, perché, condotto a Firenze, dipinse in S. Spirito la capella di S. Nicolò, di cui avemo di sopra fatto menzione, che fu molto lodata, et altre cose che furono consumate dal miserabil incendio di quella chiesa. In S. Gimignano di Valdelsa lavorò a fresco nella Pieve alcune storie del Testamento Nuovo, le quali a-vendo già assai presso alla fine condotte, stranamente dal ponte a terra cadendo, si pestò di maniera dentro e sì sconciamente s'infranse, ch'in spazio di due giorni, con maggior danno dell'arte che suo, ché a miglior luogo se n'andò, passò di questa vita; e nella pieve predetta i S. Gimignanesi, onorandolo molto nell'essequie, diedero al corpo sua onorata sepoltura, tenendolo in quella stessa reputazione morto che vivo tenuto l'avevano, e non cessando per molti mesi d'ap-piccare intorno al sepolcro suo epitaffii latini e vulgari, per essere naturalmente gl'uomini di quel paese dediti alle buone lettere. Così dunque all'oneste fatiche del Berna resero premio conveniente, celebrando con i loro inchiostri chi gl'a-veva onorati con le sue pitture.

Giovanni da Asciano, che fu creato del Berna, condusse a perfezzione il rimanente di quell'opera, e fece in Siena nello spedale della Scala alcune pitture e così in Fiorenza nelle case vecchie de' Medici alcun'altre che gli diedero nome assai. Furono l'opere del Berna sanese nel 1381. E perché, oltre a quello che si è detto, disegnò il Berna assai commodamente e fu il primo che cominciasse a ritrarre bene gl'animali, come fa fede una carta di sua mano che è nel nostro libro, tutta piena di fiere di diverse ragioni, egli merita d'essere sommamente lodato e che il suo nome sia onorato da-gl'artefici. Fu anche suo discepolo Luca di Tomè sanese, il quale dipinse in Siena e per tutta Toscana molte opere, e particolarmente la tavola e la capella che è in S. Domenico d'Arezzo della famiglia de' Dragomanni, la quale capella, che è d'architettura tedesca, fu molto bene ornata, mediante detta tavola e il lavoro che vi è in fresco, dalle mani e dal giudizio e ingegno di Luca sanese.

FINE DELLA VITA DEL BERNA PITTORE SANESE

VITA DI DUCCIO

PITTORE SANESE

Senza dubbio coloro che sono inventori d'alcuna cosa notabile hanno grandissima parte nelle penne di chi scrive l'i-storie, e ciò avviene perché sono più osservate e con maggiore maraviglia tenute le prime invenzioni, per lo diletto che seco porta la novità della cosa, che quanti miglioramenti si fanno poi, da qualunque si sia, nelle cose che si riducono all'ultima perfezzione; atteso ché se mai a niuna cosa non si desse principio, non crescerebbono di miglioramento le parti di mezzo e non verrebbe il fine ottimo e di bellezza maravigliosa. Meritò dunque Duccio, pittore sanese e molto stimato, portare il vanto di quelli che dopo lui sono stati molti anni, avendo nei pavimenti del duomo di Siena dato principio di marmo ai rimessi delle figure di chiaro e scuro, nelle quali oggi i moderni artefici hanno fatto le maraviglie che in essi si veggono. Attese costui alla immitazione della maniera vecchia, e con giudizio sanissimo diede oneste forme alle figure, le quali espresse, eccellentissimamente nelle difficultà di tal arte. Egli di sua mano imitando le pitture di chiaro scuro ordinò e disegnò i principii del detto pavimento e nel Duomo fece una tavola, che fu allora messa all'al-tare maggiore e poi levatane per mettervi il tabernacolo del corpo di Cristo che al presente vi si vede. In questa tavola, secondo che scrive Lorenzo di Bartolo Ghiberti, era una incoronazione di Nostra Donna, lavorata quasi alla maniera greca, ma mescolata assai con la moderna; e perché era così dipinta dalla parte di dietro come dinanzi, essendo il detto altar maggiore spiccato intorno intorno, dalla detta parte di dietro erano con molta diligenza state fatte da Duccio tutte le principali storie del Testamento Nuovo, in figure piccole molto belle. Ho cercato sapere dove oggi questa tavola si truovi, ma non ho mai, per molta diligenza che io ci abbia usato, potuto rinvenirla o sapere quello che Francesco di Giorgio scultore ne facesse, quando rifece di bronzo il detto tabernacolo, e quelli ornamenti di marmo che vi sono. Fece similmente per Siena molte tavole in campo d'oro et una in Fiorenza in S. Trinita, dove è una Nunziata. Dipinse poi moltissime cose in Pisa, in Lucca et in Pistoia per diverse chiese, che tutte furono sommamente lodate e gl'acquistarono nome et utile grandissimo. Finalmente, non si sa dove questo Duccio morisse né che parenti, discepoli o facultà lasciasse; basta, che per avere egli lasciato erede l'arte della invenzione e della pittura nel marmo di chiaro e scuro, merita per tale benefizio nell'arte comendazione e lode infinita; e che sicuramente si può annoverarlo fra i benefattori, che allo esercizio nostro aggiungono grado et ornamento, considerato che coloro i quali vanno investigando le difficultà delle rare invenzioni, hanno eglino ancora la memoria che lasciano tra l'altre cose maravigliose.

Dicono a Siena che Duccio diede l'anno 1348 il disegno della capella che è in piazza nella facciata del palazzo principale; e si legge che visse ne' tempi suoi e fu della medesima patria Moccio scultore et architetto ragionevole, il quale fece molte opere per tutta Toscana, e particolarmente in Arezzo nella chiesa di S. Domenico una sepoltura di marmo per uno de' Cerchi, la quale sepoltura fa sostegno et ornamento all'organo di detta chiesa; e se a qualcuno paresse che ella non fusse molto eccellente opera, se si considera che egli la fece, essendo giovanetto, l'anno 1356, ella non sarà se non ragionevole. Servì costui nell'opera di S. Maria del Fiore per sotto architetto e per scultore, lavorando di marmo alcune cose per quella fabrica; et in Arezzo rifece la chiesa di S. Agostino, che era piccola, nella maniera che ell'è oggi, e la spesa fecero gl'eredi di Piero Saccone de' Tarlati, secondo che aveva egli ordinato prima che morisse in Bibbiena, terra del Casentino. E perché Moccio condusse questa chiesa senza volte e caricò il tetto sopra gl'archi delle colonne, egli si mise a un gran pericolo e fu veramente di troppo animo. Il medesimo fece la chiesa e convento di S. Antonio, che inanzi all'assedio di Firenze era alla porta a Faenza e che oggi è del tutto rovinato, e di scultura la porta di S. Agostino in Ancona, con molte figure et ornamenti simili a quelli che sono alla porta di S. Francesco della città medesima; nella quale chiesa di S. Agostino fece anco la sepoltura di fra' Zenone Vigilanti, vescovo e Generale dell'Ordine di detto Santo Agostino, e finalmente la loggia de' Mercatanti di quella città, che dopo ha ricevuti, quando per una cagione e quando per un'altra, molti miglioramenti alla moderna et ornamenti di varie sorte. Le quali tutte cose, come che siano a questi tempi molto meno che ragionevoli, furon allora, secondo il parere di quegl'uomini, assai lodate.

Ma tornando al nostro Duccio, furono l'opere sue intorno a gl'anni di nostra salute 1350.

FINE DELLA VITA DI DUCCIO, PITTORE SANESE

VITA DI ANTONIO VINIZIANO

PITTORE

Molti, che si starebbono nelle patrie loro dove son nati, essendo trafitti dai morsi dell'invidia et oppressi dalla tirannia de' suoi cittadini, se ne partono, e que' luoghi dove trovano essere la virtù loro conosciuta e premiata elegendosi per patria, in quella fanno l'opere loro, e sforzandosi d'essere eccellentissimi per fare in un certo modo ingiuria a coloro da chi sono stati oltraggiati, divengono bene spesso grand'uomini, dove nella patria standosi quietamente, sarebbono per aventura poco più che mediocri nell'arti loro riusciti.

Antonio Viniziano, il quale si condusse a Firenze dietro a Agnolo Gaddi per imparare la pittura, apprese di maniera il buon modo di fare, che non solamente fu stimato et amato da' Fiorentini, ma carezzato ancora grandemente per que-sta virtù e per l'altre buone qualità sue. Laonde, venutogli voglia di farsi vedere nella sua città per godere qualche frutto delle fatiche da lui durate, si tornò a Vinegia; dove, essendosi fatto conoscere per molte cose fatte a fresco et a tempera, gli fu dato dalla signoria a dipignere una delle facciate della sala del consiglio; la quale egli condusse sì eccellentemente e con tanta maestà che secondo meritava n'arebbe conseguito onorato premio; ma la emulazione o, più tosto, invidia degl'artefici et il favore che ad altri pittori forestieri fecero alcuni gentiluomini, fu cagione che altramente andò la bisogna; onde il poverello Antonio, trovandosi così percosso et abbattuto, per miglior partito se ne ritornò a Fiorenza, con proposito di non volere mai più a Vinegia ritornare, deliberato del tutto che sua patria fusse Fiorenza. Standosi dunque in quella città, dipinse nel chiostro di Santo Spirito, in un archetto, Cristo che chiama Pietro et Andrea dalle reti, e Zebedeo et i figliuoli. E sotto i tre archetti di Stefano, dipinse la storia del miracolo di Cristo ne' pani e ne' pesci, nella quale infinita diligenza et amore dimostrò, come apertamente si vede nella figura d'esso Cristo, che nell'aria del viso e nell'aspetto, mostra la compassione che egli ha delle turbe e l'ardore della carità con la quale fa dispensare il pane. Vedesi medesimamente in gesto bellissimo l'affezione d'uno Apostolo, che dispensando con una cesta il pane grandemente s'affatica; nel che s'impara da chi è dell'arte a dipignere sempre le figure in maniera che paia ch'elle favellino, perché altrimenti non sono pregiate. Dimostrò questo medesimo Antonio nel frontespizio di sopra, in una storietta piccola della Manna con tanta diligenza lavorata e con sì buona grazia finita, che si può veramente chiamare eccellente. Dopo, fece in Santo Stefano al ponte Vecchio, nella predella dell'altar maggiore, alcune storie di Santo Stefano con tanto amore che non si può vedere né le più graziose né le più belle figure, quand'anche fussero di minio. A Santo Antonio ancora al ponte alla Carraia, dipinse l'arco sopra la porta che a' nostri dì fu fatto insieme con tutta la chiesa gettare in terra da monsignor Ricasoli, vescovo di Pistoia, perché toglieva la veduta alle sue case; benché, quando egli non avesse ciò fatto, a ogni modo saremmo oggi privi di quell'opera, avendo il prossimo diluvio del 1557, come altra volta si è detto, da quella banda portato via due archi e la coscia del ponte, sopra la quale era posta la detta piccola chiesa di Sant'Antonio.

Essendo, dopo quest'opere, Antonio condotto a Pisa dallo Operaio di Camposanto, seguitò di fare in esso le storie del beato Ranieri, uomo santo di quella città, già cominciate da Simone sanese, pur coll'ordine di lui. Nella prima parte della quale opera fatta da Antonio, si vede in compagnia del detto Ranieri, quando imbarca per tornare a Pisa, buon numero di figure lavorate con diligenza, fra le quali è il ritratto del conte Gaddo, morto dieci anni innanzi, e di Neri suo zio stato signor di Pisa; fra le dette figure, è ancor molto notabile quella d'uno spiritato, perché, avendo viso di pazzo, i gesti della persona stravolti, gl'occhi stralucenti e la bocca che digrignando mostra i denti, somiglia tanto uno spiritato da dovero, che non si può immaginare né più viva pittura né più somigliante al naturale. Nell'altra parte, che è allato alla sopra detta, tre figure che si maravigliano, vedendo che il beato Ranieri mostra il diavolo in forma di gatto sopr'una botte a un oste grasso che ha aria di buon compagno e che tutto timido si raccomanda al Santo, si possono dire vera-mente bellissime, essendo molto ben condotte nell'attitudini, nella maniera de' panni, nella varietà delle teste et in tutte l'altre parti. Non lungi, le donne dell'oste anch'elleno non potrebbono essere fatte con più grazia avendole fatte Antonio con certi abiti spediti e con certi modi tanto proprii di donne che stiano per servigio d'osterie, che non si può immaginare meglio. Né può più piacere di quello che faccia l'istoria parimente, dove i canonici del Duomo di Pisa, in abiti bellissimi di que' tempi et assai diversi da quegli che s'usano oggi e molto graziati, ricevono a mensa S. Ranieri, essendo tutte le figure fatte con molta considerazione. Dove poi è dipinta la morte di detto Santo, è molto bene espresso non solamente l'effetto del piangere, ma l'andare similmente di certi Angeli, che portano l'anima di lui in cielo, circondati da una luce splendidissima e fatta con bella invenzione. E veramente non può anche se non maravigliarsi chi vede, nel portarsi dal clero il corpo di quel Santo al duomo, certi preti che cantano, perché nei gesti, negl'atti della persona et in tutti i movimenti facendo diverse voci, somigliano con maravigliosa proprietà un coro di cantori. Et in questa storia è, secondo che si dice, il ritratto del Bavero. Parimente i miracoli che fece Ranieri nell'esser portato alla sepoltura, e quelli che in un altro luogo fa essendo già in quella collocato nel Duomo, furono con grandissima diligenza dipinti da Antonio, che vi fece ciechi che ricevono la luce, rattratti che rianno la disposizione delle membra, oppressi dal demonio che sono liberati, et altri miracoli espressi molto vivamente. Ma fra tutte l'altre figure merita con maraviglia essere considerato un idropico, perciò che col viso secco, con le labbra asciutte e col corpo enfiato e tale che non potrebbe più di quello che fa questa pittura mostrare un vivo la grandissima sete degl'idropici e gl'altri effetti di quel male. Fu anche cosa mirabile in que' tempi una nave che egli fece in quest'opera, la quale, essendo travagliata dalla fortuna, fu da quel Santo liberata, avendo in essa fatto prontissime tutte l'azzioni de' marinari e tutto quello che in cotali accidenti e travagli suol avvenire. Alcuni gettano, senza pensarvi, all'ingordissimo mare le care merci con tanti sudori fatigate, altri corre a provedere il legno che sdruce, et insomma altri a altri uffizii marinareschi, che tutti sarei troppo lungo a raccontare; basta, che tutti sono fatti con tanta vivezza e bel modo ch'è una maraviglia. In questo medesimo luogo, sotto la vita de' Santi padri dipinta da Pietro Laurati sanese fece Antonio il corpo del beato Oliverio, insieme con l'abate Panuzio e molte cose della vita loro in una cassa figurata di marmo, la qual figura è molto ben dipinta. Insomma tutte quest'opere che Antonio fece in Camposanto sono tali che universalmente et a gran ragione sono tenute le migliori di tutte quelle che da molti eccellenti maestri sono state in più tempi in quel luogo lavorate; perciò che, oltre i particolari detti, egli lavorando ogni cosa a fresco e non mai ritoccando alcuna cosa a secco fu cagione che insino a oggi si sono in modo mantenute vive nei colori, ch'elle possono, ammaestrando quegli dell'arte, far loro conoscere quanto il ritoccare le cose fatte a fresco poiché sono secche con altri colori, porti, come si è detto nelle teoriche, nocumento alle pitture et ai lavori, essendo cosa certissima che gl'invecchia e non lascia purgargli dal tempo l'esser coperti di colori che hanno altro corpo, essendo temperati con gomme, con draganti, con uova, con colla o altra somigliante cosa, che appanna quel di sotto e non lascia che il corso del tempo e l'aria purghi quello che è veramente lavorato a fresco sulla calcina molle, come avverrebbe se non fussero loro sopraposti altri colori a secco.

Avendo Antonio finita quest'opera che, come degna in verità d'ogni lode gli fu onoratamente pagata da' Pisani che poi sempre molto l'amarono, se ne tornò a Firenze, dove a Nuovoli fuor della porta al Prato, dipinse in un tabernacolo a Giovanni degl'Agli un Cristo morto, con molte figure, la storia de' Magi et il dì del Giudizio, molto bello. Condotto poi alla Certosa, dipinse agl'Acciaiuoli, che furono edificatori di quel luogo, la tavola dell'altar maggiore, che a' dì nostri restò consumata dal fuoco, per inavvertenza d'un sagrestano di quel monasterio, che avendo lasciato all'altare appiccato il turibile pien di fuoco, fu cagione che la tavola abruciasse, e che poi si facesse, come sta oggi, da que' monaci l'altare interamente di marmo. In quel medesimo luogo fece ancora il medesimo maestro, sopra un armario che è in detta capella, in fresco una Trasfigurazione di Cristo ch'è molto bella; e perché studiò, essendo a ciò molto inchinato dalla natura, in Dioscoride le cose dell'erbe, piacendogli intendere la proprietà e virtù di ciascuna d'esse, abandonò in ultimo la pittura e diedesi a stillare semplici e cercargli con ogni studio; così di dipintore medico divenuto, molto tempo seguitò que-st'arte.

Finalmente, infermo di mal di stomaco, [o] come altri dicono, medicando di peste, finì il corso della sua vita d'anni 74, l'anno 1384 che fu grandissima peste in Fiorenza, essendo stato non meno esperto medico che diligente pittore, perché, avendo infinite sperienze fatto nella medicina per coloro che di lui ne' bisogni s'erano serviti, lasciò al mondo di sé bonissima fama nell'una e nell'altra virtù. Disegnò Antonio con la penna molto graziosamente e di chiaro scuro tanto bene, che alcune carte che di suo sono nel nostro libro, dove fece l'archetto di Santo Spirito, sono le migliori di que' tempi. Fu discepolo d'Antonio Gherardo Starnini fiorentino, il quale molto lo immitò e gli fece onore non piccolo Paulo Ucello, che fu similmente suo discepolo.

Il ritratto d'Antonio Viniziano è di sua mano in Camposanto in Pisa.

FINE DELLA VITA D'ANTONIO VINIZIANO PITTORE

VITA DI IACOPO DI CASENTINO

PITTORE

Essendosi già molti anni udita la fama et il rumore delle pitture di Giotto e de' discepoli suoi, molti, desiderosi d'ac-quistar fama e ricchezze mediante l'arte della pittura, cominciarono, inanimiti dalla speranza dello studio e dalla inclinazione della natura, a caminar verso il miglioramento dell'arte, con ferma credenza, esercitandosi, di dovere avanzare in eccellenza e Giotto e Taddeo e gl'altri pittori. Fra questi fu uno, Iacopo di Casentino, il quale, essendo nato, come si legge, della famiglia di Messer Cristoforo Landino da Pratovecchio, fu da un frate di Casentino, allora Guardiano al Sasso della Vernia, acconcio con Taddeo Gaddi, mentre egli in quel convento lavorava, perché imparasse il disegno e colorito dell'arte. La qual cosa in pochi anni gli riuscì in modo che, condottosi in Fiorenza in compagnia di Giovanni da Milano ai servigii di Taddeo loro maestro, molte cose lavorando, e gli fu fatto dipignere il tabernacolo della Madonna di Mercato Vecchio con la tavola a tempera, e similmente quello sul canto della piazza di S. Niccolò della via del Cocomero, che pochi anni sono l'uno e l'altro fu rifatto da peggior maestro che Iacopo non era. Et ai Tintori quello che è a

S. Nofri sul canto delle mura dell'orto loro, dirimpetto a S. Giuseppo. In questo mentre, essendosi condotte a fine le volte d'Or S. Michele sopra i dodici pilastri, e sopra esse posto un tetto basso alla salvatica, per seguitare quando si potesse la fabrica di quel palazzo che aveva a essere il granaio del Comune, fu dato a Iacopo di Casentino, come a persona allora molto pratica, a dipignere quelle volte con ordine che egli vi facesse, come vi fece, con i Patriarchi alcuni Profeti et i primi delle tribù, che furono in tutto sedici figure in campo azzurro d'oltramarino, oggi mezzo guasto, senza gl'altri ornamenti. Fece poi nelle facce di sotto e nei pilastri molti miracoli della Madonna et altre cose che si conoscono alla maniera.

Finito questo lavoro, tornò Iacopo in Casentino, dove, poi che in Pratovecchio, in Poppi et altri luoghi di quella valle ebbe fatto molte opere, si condusse in Arezzo, che allora si governava da se medesima, col consiglio di sessanta cittadini de' più ricchi e più onorati, alla cura de' quali era commesso tutto il reggimento; dove, nella capella principale del Vescovado, dipinse una storia di S. Martino, e nel Duomo vecchio, oggi rovinato, pitture assai, fra le quali era il ritratto di Papa Innocenzo Sesto, nella capella maggiore. Nella chiesa poi di S. Bartolomeo, per lo capitolo de' canonici della Pieve, fece la facciata dov'è l'altar maggiore e la capella di S. Maria della Neve. E nella Compagnia vecchia di S. Giovanni de' Peducci fece molte storie di quel Santo, che oggi sono coperte di bianco. Lavorò similmente nella chiesa di S. Domenico la capella di S. Cristofano, ritraendovi di naturale il beato Masuolo che libera dalle carcere un mercante de' Fei che fece far quella capella; il quale beato ne' suoi tempi, come profeta, predisse molte disaventure agl'Aretini. Nella chiesa di S. Agostino fece a fresco nella capella e all'altar de' Nardi, storie di S. Lorenzo con maniera e pratica maravigliosa. E perché si esercitava anche nelle cose d'architettura, per ordine dei sessanta sopradetti cittadini ricondusse sotto le mura d'Arezzo l'acqua che viene dalle radici del Poggio di Pori, vicino alla città braccia 300; la quale acqua al tempo de' Romani era stata prima condotta al teatro, di che ancora vi sono le vestigie, e da quello, che era in sul monte dove oggi è la fortezza, a l'amfiteatro della medesima città, nel piano; i quali edifizii e condotti furono rovinati e guasti del tutto dai Gotti. Avendo dunque, come s'è detto, fatta venire Iacopo quest'acqua sotto le mura, fece la fonte che all'ora fu chiamata fonte Guizianelli, e che ora è detta, essendo il vocabolo corrotto, fonte Viniziana; la quale da quel tempo, che fu l'anno 1354, durò insino all'anno 1527, e non più; perciò che la peste di quell'anno, la guerra che fu poi, l'averla molti a' suoi commodi tirata per uso d'orti e molto più il non averla Iacopo condotta dentro, sono state cagione ch'ella non è oggi, come doverebbe essere, in piedi. Mentre che l'acqua si andava conducendo non lasciando Iacopo il dipignere, fece nel palazzo che era nella cittadella vecchia, rovinato a' dì nostri, molte storie de' fatti del Vescovo Guido e di Piero Sacconi, i quali uomini in pace et in guerra avevano grandi et onorate cose fatto per quella città. Similmente lavorò nella Pieve, sotto l'organo, la storia di S. Matteo e molte altre opere assai. E così, facendo per tutta la città opere di sua mano, mostrò a Spinello Aretino i principii di quell'arte che a lui fu insegnata da Agnolo e che Spinello insegnò poi a Bernardo Daddi, che nella città sua lavorando l'onorò di molte bell'opere di pittura, le quali, aggiunte all'altre sue ottime qualità, furono cagione che egli fu molto onorato da' suoi cittadini, che molto l'adoperarono nei magistrati et altri negozii publici.

Furono le pitture di Bernardo molte et in molta stima, e prima in S. Croce la capella di S. Lorenzo e di S. Stefano de' Pulci e Berardi e molte altre pitture in diversi luoghi di detta chiesa. Finalmente, avendo sopra le porte della città di Fiorenza dalla parte di dentro fatto alcune pitture, carico d'anni si morì et in S. Felicita ebbe onorato sepolcro l'anno 1380.

Ma tornando a Iacopo, oltre alle cose dette, al tempo suo ebbe principio, l'anno 1350, la Compagnia e Fraternita de' pittori; perché i maestri che allora vivevano, così della vecchia maniera greca come della nuova di Cimabue, ritrovandosi in gran numero e considerando che l'arti del disegno avevano in Toscana, anzi, in Fiorenza propria avuto il loro rinascimento, crearono la detta Compagnia sotto il nome e protezzione di S. Luca Evangelista, sì per rendere nell'orato-rio di quella lode e grazie a Dio, e sì anco per trovarsi alcuna volta insieme e sovenire così nelle cose dell'anima come del corpo a chi, secondo i tempi, n'avesse di bisogno. La qual cosa è anco per molte arti in uso a Firenze, ma era molto più anticamente. Fu il primo loro oratorio la capella maggiore dello spedale di S. Maria Nuova, il quale fu loro concesso dalla famiglia de' Portinari. E quelli che primi con titolo di Capitani governarono la detta Compagnia, furono sei, et in oltre due consiglieri e due camarlinghi; come nel vecchio libro di detta Compagnia, cominciato allora, si può vedere. Il primo capitolo del quale comincia così: “Questi capitoli et ordinamenti furono trovati e fatti da' buoni e discreti uomini dell'Arte de' Dipintori di Firenze et al tempo di Lapo Gucci dipintore, Vanni Cinuzzi dipintore, Corsino Buonaiuti dipintore, Pasquino Cenni dipintore, Segnia d'Antignano dipintore. Consiglieri furono Bernardo Daddi e Iacopo di Casentino, dipintori; e camarlinghi Consiglio Gherardi e Domenico Pucci, dipintori”.

Creata la detta compagnia in questo modo, di consenso de' capitani e degl'altri fece Iacopo di Casentino la tavola della loro capella, facendo in essa un S. Luca che ritrae la Nostra Donna in un quadro e nella predella da un lato gl'uo-mini della Compagnia e dall'altro tutte le donne ginocchioni. Da questo principio, quando raunandosi e quando no, ha continuato questa Compagnia insino a che ella si è ridotta al termine che ell'è oggi, come si narra ne' nuovi capitoli di quella approvati dall'illustrissimo signor duca Cosimo, protettore benignissimo di queste arti del disegno.

Finalmente Iacopo, essendo grave d'anni e molto affaticato, se ne tornò in Casentino e si morì in Pratovecchio d'an-ni ottanta, e fu sotterrato da' parenti e dagl'amici in S. Agnolo, Badia fuor di Pratovecchio dell'Ordine di Camaldoli. Il suo ritratto era nel Duomo vecchio di mano di Spinello in una storia de' Magi. E della maniera del suo disegnare n'è saggio nel nostro libro.

FINE DELLA VITA DI IACOPO DI CASENTINO

VITA DI SPINELLO ARETINO

PITTORE

ESTRATTO DELL'ALBERO GENEALOGICO DI SPINELLO ARETINO

Ser Forzore not. da Capolona (già morto nel 1318)

Spinello orefice

(già morto nel 1347)

Giovanna Margherita Palma Luca orefice Cola orefice
Giovanna da Paganuzzo viv. nel 1359
Niccoluccia di Bongianni

SPINELLO pittore Nicola o Cola orefice (1346?-1411) viv. 1393

GASPARRE (PARRI) Baldassarre Forzore orefice Cola gioielliere Nieri
(1387-1453) (1406-1435) (1377-1417) (1384-1428) viv. in Firenze
nel 1427

Pietro Jacoba Bartolomea

(m. 1426)(1425-1453) monaca in S. Croce

Essendo andato ad abitare in Arezzo, quando una volta fra l'altre furono cacciati di Firenze i Ghibellini, Luca Spinelli, gli nacque in quella città un figliuolo, al quale pose nome Spinello, tanto inclinato da natura all'essere pittore, che quasi senza maestro, essendo ancor fanciullo, seppe quello che molti esercitati sotto la disciplina d'ottimi maestri non sanno; e, quello che è più, avendo avuto amicizia con Iacopo di Casentino mentre lavorò in Arezzo et imparato da lui qualche cosa, prima che fusse di venti anni fu di gran lunga molto migliore maestro, così giovane, che esso Iacopo già pittore vecchio non era. Cominciando dunque Spinello a esser in nome di buon pittore, Messer Dardano Acciaiuoli a-vendo fatto fabricare la chiesa di S. Niccolò alle sale del papa dietro S. Maria Novella, nella via della Scala et in quella dato sepoltura a un suo fratello vescovo, fece dipignere tutta quella chiesa a fresco di storie di S. Niccolò vescovo di Bari a Spinello, che la diede finita del tutto l'anno 1334, essendovi stato a lavorare due anni continui. Nella quale opera si portò Spinello tanto bene, così nel colorirla come nel disegnarla, che insino ai dì nostri si erano benissimo mantenuti i colori et espressa la bontà delle figure, quando, pochi anni sono, furono in gran parte guasti da un fuoco, che disavedutamente s'apprese in quella chiesa, stata piena poco accortamente di paglia da non discreti uomini, che se ne servivano per capanna o monizione di paglia. Dalla fama di quest'opera tirato Messer Barone Capelli cittadino di Firenze, fece dipignere da Spinello nella capella principale di S. Maria Maggiore molte storie della Madonna a fresco et alcune di S. Antonio abate, et appresso la sagrazione di quella chiesa antichissima, consegrata da Pasquale papa [II] di quel nome; il che tutto lavorò Spinello così bene, che pare fatto tutto in un giorno e non in molti mesi come fu. Appresso al detto Papa è il ritratto d'esso Messer Barone di naturale in abito di que' tempi, molto ben fatto e con bonissimo giudizio. Finita questa capella lavorò Spinello nella chiesa del Carmine in fresco la capella di S. Iacopo e S. Giovanni Apostoli, dove fra l'altre cose è fatta con molta diligenza, quando la moglie di Zebedeo, madre di Iacopo, domanda a Gesù Cristo che faccia sedere uno de' figliuoli suoi alla destra del Padre nel regno de' cieli e l'altro alla sinistra: e poco più oltre si vede Zebedeo, Iacopo e Giovanni abandonare le reti e seguitar Cristo con prontezza e maniera mirabile. In un'altra capella della medesima chiesa, che è a canto alla maggiore, fece Spinello pur a fresco alcune storie della Madonna e gl'Aposto-li quando inanzi al trapassar di lei le appariscono innanzi miracolosamente, e così quando ella muore e poi è portata in cielo dagl'Angeli. E perché, essendo la storia grande, la picciolezza della capella non lunga più che braccia dieci et alta cinque, non capiva il tutto, e massimamente l'Assonzione d'essa Nostra Donna, con bel giudizio fece Spinello voltarla nel lungo della storia da una parte, dove Cristo e gl'Angeli la ricevono.

In una capella in S. Trinita fece una Nunziata in fresco molto bella, e nella chiesa di S. Apostolo nella tavola dell'al-tar maggiore a tempera fece lo Spirito Santo, quando è mandato sopra gl'Apostoli in lingue di fuoco. In S. Lucia de' Bardi fece similmente una tavoletta, et in S. Croce un'altra maggiore, nella capella di S. Giovanni Battista che fu dipinta da Giotto.

Dopo queste cose, essendo dai sessanta cittadini che governavano Arezzo, per lo gran nome che aveva acquistato lavorando in Fiorenza, là richiamato, gli fu fatto dipignere dal Comune nella chiesa del Duomo vecchio fuor della città la storia de' Magi e nella capella di S. Gismondo un San Donato che con la benedizione fa crepare un serpente. Parimente in molti pilastri di quel Duomo fece diverse figure, et in una facciata la Madalena che in casa di Simone unge i piedi a Cristo, con altre pitture, delle quali non accade far menzione, essendo oggi quel tempio che era pieno di sepolture, d'ossa di Santi e d'altre cose memorabili, del tutto rovinato. Dirò bene, acciò che d'esso almeno resti questa memoria, che essendo egli stato edificato dagl'Aretini più di mille e trecento anni sono, allora che di prima vennero alla fede di Gesù Cristo, convertiti da S. Donato, il quale fu poi vescovo di quella città, e gli fu dedicato a suo nome, et ornato di fuori e di dentro riccamente di spoglie antichissime. Era la pianta di questo edifizio, del quale si è lungamente altrove ragionato, dalla parte di fuori in sedici facce divisa e dentro in otto, e tutte erano piene delle spoglie di que' tempii, che prima erano stati dedicati agl'idoli; et insomma egli era quanto può esser bello un così fatto tempio antichissimo, quando fu rovinato. Dopo le molte pitture fatte in Duomo, dipinse Spinello in S. Francesco, nella capella de' Marsupini, Papa Onorio quando conferma et appruova la Regola d'esso Santo, ritraendovi Innocenzio Quarto di naturale, dovunque egli se l'avesse. Dipinse ancora nella medesima chiesa, nella capella di S. Michelagnolo, molte storie di lui, lì dove si suonano le campane, e poco di sotto alla capella di Messer Giuliano Baccio una Nunziata con altre figure che sono molto lodate, le quali tutte opere fatte in questa chiesa furono lavorate a fresco con una pratica molto risoluta dal 1334 insino al 1338. Nella Pieve poi della medesima città dipinse la capella di S. Piero e S. Paulo, di sotto a essa quella di S. Michelagnolo, e per la Fraternità di S. Maria della Misericordia, pur da quella banda, in fresco, la capella di S. Iacopo e Filippo, e sopra la porta principale della Fraternità, ch'è in piazza, cioè nell'arco, dipinse una Pietà con un S. Giovanni a richiesta de' rettori di essa Fraternità, la quale ebbe principio in questo modo: cominciando un certo numero di buoni et onorati cittadini a andare accattando limosine per i poveri vergognosi et a sovvenirgli in tutti i loro bisogni l'anno della peste del 1348 per lo gran nome acquistato da que' buon'uomini alla Fraternità, aiutando i poveri, gl'infermi, sepellendo morti e facendo altre somiglianti opere di carità, furono tanti i lasci, le donazioni e l'eredità che le furono lasciati che ella ereditò il terzo delle ricchezze d'Arezzo; et il simile avvenne l'anno 1383, che fu similmente una gran peste. Spinello adunque, essendo della Compagnia e toccandogli spesso a visitare infermi, sotterrare morti e fare altri cotali piissimi esercizii che hanno fatto sempre i migliori cittadini e fanno anch'oggi di quella città, per far di ciò qualche memoria nelle sue pitture dipinse per quella Compagnia nella facciata della chiesa di S. Laurentino e Pergentino una Madonna, che avendo aperto dinanzi il mantello ha sotto esso il popolo d'Arezzo, nel quale sono ritratti molti uomini de' primi della Fraternità di naturale, con le tasche al collo e con un martello di legno in mano, simile a quelli che adoperano a picchiar gl'usci quando vanno a cercar limosine. Parimente nella Compagnia della Nunziata dipinse il tabernacolo grande che è fuori della chiesa, e parte d'un portico che l'è dirimpetto, e la tavola d'essa Compagnia, dove è similmente una Nunziata, a tempera; la tavola ancora che oggi è nella chiesa delle monache di S. Giusto, dove un piccolo Cristo che è in collo alla madre sposa S. Caterina, con sei storiette di figure piccole de' fatti di lei, è similmente opera di Spinello e molto lodata. Essendo egli poi condotto alla famosa Badia di Camaldoli in Casentino, l'anno 1361 fece ai romiti di quel luogo la tavola dell'altar maggiore, che fu levata l'anno 1539 quando, essendo finita di rifare quella chiesa tutta di nuovo, Giorgio Vasari fece una nuova tavola e dipinse tutta a fresco la capella maggiore di quella Badia, il tramezzo della chiesa a fresco e due tavole. Di lì chiamato Spinello a Firenze da don Iacopo d'Arezzo, abate di S. Miniato in Monte, dell'Ordine di Monte Oliveto, dipinse nella volta e nelle quattro facciate della sagrestia di quel monasterio oltre la tavola dell'altare a tempera molte storie della vita di S. Benedetto, a fresco, con molta pratica e con una gran vivacità di colori, imparata da lui mediante un lungo esercizio et un continuo lavorare con studio e diligenza, come invero bisogna a chi vuole acquistar un'arte perfettamente.

Avendo dopo queste cose il detto abate, partendo da Firenze, avuto in governo il monasterio di S. Bernardo del medesimo ordine nella sua patria, a punto quando si era quasi del tutto finito in sul sito (conceduto dov'era a punto il colosseo) dagl'Aretini a que' monaci, fece dipignere a Spinello due capelle a fresco, che sono allato alla maggiore, e due altre che mettono in mezzo la porta che va in coro nel tramezzo della chiesa; in una delle quali, che è allato alla maggiore, è una Nunziata a fresco fatta con grandissima diligenza, et in una faccia allato a quella è quando la Madonna sale i gradi del tempio, accompagnata da Giovacchino et Anna; nell'altra capella è un Crucifisso con la Madonna e S. Giovanni che lo piangono et in ginocchioni un S. Bernardo che l'adora. Fece ancora nella faccia di dentro di quella chiesa, dove è l'altare della Nostra Donna, essa Vergine col Figliuolo in collo, che fu tenuta figura bellissima insieme con molte altre che egli fece per quella chiesa sopra il coro della quale dipinse la Nostra Donna, S. Maria Madalena e S. Bernardo molto vivamente. Nella Pieve similmente d'Arezzo, nella capella di S. Bartolomeo, fece molte storie della vita di quel Santo, et a dirimpetto a quella, nell'altra navata, nella capella di S. Matteo che è sotto l'organo e che fu dipinta da Iacopo di Casentino suo maestro, fece, oltre a molte storie di quel Santo che sono ragionevoli, nella volta in certi tondi, i quattro Evangelisti in capricciosa maniera, perciò che sopra i busti e le membra umane fece a S. Giovanni la testa d'a-quila, a Marco il capo di lione, a Luca di bue et a Matteo solo la faccia d'uomo, cioè d'Angelo. Fuor d'Arezzo ancora dipinse nella chiesa di S. Stefano, fabricata dagl'Aretini sopra molte colonne di graniti e di marmi per onorare e conservare la memoria di molti martiri che furono da Giuliano Apostata fatti morire in quel luogo, molte figure e storie con infinita diligenza e con tale maniera di colori, che si erano freschissime conservate insino a oggi quando, non molti anni sono, furono rovinate. Ma quello che in quel luogo era mirabile, oltre le storie di S. Stefano fatte in figure maggiori che il vivo non è, era in una storia de' Magi vedere Giuseppo allegro fuor di modo per la venuta di que' re, da lui considerati con maniera bellissima mentre aprivano i vasi dei loro tesori e l'offerivano. In quella chiesa medesima una Nostra Donna che porge a Cristo fanciullino una rosa, era tenuta, et è, come figura bellissima e devota, in tanta venerazione appresso gl'Aretini, che senza guardare a niuna difficultà o spesa, quando fu gettata per terra la chiesa di Santo Stefano, tagliarono intorno a essa il muro, et allacciatolo ingegnosamente, la portarono nella città, collocandola in una chiesetta per onorarla, come fanno, con la medesima devozione che prima facevano. Né ciò paia gran fatto, perciò che, essendo stato proprio e cosa naturale di Spinello dare alle sue figure una certa grazia semplice che ha del modesto e del santo, pare che le figure che egli fece de' Santi e massimamente della Vergine spirino un non so che di santo e di divino, che tira gl'uomini ad averle in somma reverenza, come si può vedere, oltre alla detta, nella Nostra Donna che è in sul canto degl'Albergetti, et in quella ch'è in una facciata della Pieve dalla parte di fuori in seteria, e similmente in quella che è in sul canto del canale della medesima sorte. È di mano di Spinello ancora, in una facciata dello spedale dello Spirito Santo, una storia quando gli Apostoli lo ricevono che è molto bella, e così le due storie da basso, dove S. Cosimo e S. Damiano tagliano a un moro morto una gamba sana, per appiccarla a un infermo a chi eglino ne avevano tagliato una fracida; e parimente il Noli me tangere bellissimo, che è nel mezzo di quelle due opere.

Nella Compagnia de' Puraccioli, sopra la piazza di S. Agostino, fece in una capella una Nunziata molto ben colorita e nel chiostro di quel convento lavorò a fresco una Nostra Donna et un S. Iacopo e S. Antonio, e ginocchioni vi ritrasse un soldato armato, con queste parole: “Hoc opus fecit fieri Clemens Pucci de Monte Catino, cuius corpus iacet hic, etc. Anno Domini 1367, Die XV Mensis Maii”. Similmente la capella che è in quella chiesa, di S. Antonio con altri santi, si conosce alla maniera che sono di mano di Spinello; il quale poco poi nello spedale di S. Marco, che oggi è monasterio delle monache di S. Croce per esser il loro monasterio che era di fuori stato gettato per terra, dipinse tutto un portico con molte figure e vi ritrasse per un S. Gregorio papa, che è a canto a una misericordia, papa Gregorio Nono di naturale.

La capella di San Iacopo e Filippo, che è in San Domenico della medesima città entrando in chiesa, fu da Spinello lavorata in fresco con bella e risoluta pratica, come ancora fu il Sant'Antonio dal mezzo in su, fatto nella facciata della chiesa sua, tanto bello che par vivo, in mezzo a quattro storie della sua vita; le quali medesime storie e molte più della vita pur di Sant'Antonio, sono di mano di Spinello similmente nella chiesa di San Giustino, nella capella di Sant'Anto-nio. Nella chiesa di San Lorenzo fece da una banda alcune storie della Madonna, e fuor della chiesa la dipinse a sedere, lavorando a fresco molto graziosamente. In uno spedaletto, dirimpetto alle monache di Santo Spirito, vicino alla porta che va a Roma, dipinse un portico tutto di sua mano, mostrando in un Cristo morto in grembo alle Marie tanto ingegno e giudizio nella pittura, che si conosce avere paragonato Giotto nel disegno et avanzatolo di gran lunga nel colorito. Figurò ancora nel medesimo luogo Cristo a sedere con significato teologico molto ingegnosamente, avendo in guisa situato la Trinità dentro a un sole, che si vede da ciascuna delle tre figure uscire i medesimi raggi et il medesimo splendore. Ma di quest'opera con gran danno veramente degl'amatori di quest'arte, è avvenuto il medesimo che di molte altre, essendo stata buttata in terra per fortificare la città. Alla Compagnia della Trinità si vede un tabernacolo fuor della chiesa, da Spinello benissimo lavorato a fresco, dentrovi la Trinità, San Piero e San Cosimo e San Damiano, vestiti con quella sorte d'abiti che usavano di portare i medici in que' tempi.

Mentre che quest'opere si facevano, fu fatto don Iacopo d'Arezzo generale della Congregazione di Mont'Oliveto, dicianove anni poi che aveva fatto lavorare, come s'è detto di sopra, molte cose a Firenze et in Arezzo da esso Spinello; per che standosi, secondo la consuetudine loro a Monte Oliveto maggior di Chiusuri in quel di Siena, come nel più ono-rato luogo di quella religione, gli venne desiderio di far fare una bellissima tavola in quel luogo; onde, mandato per Spinello dal quale altra volta si trovava essere stato benissimo servito, gli fece fare la tavola della capella maggiore a tempera; nella quale fece Spinello in campo d'oro un numero infinito di figure fra piccole e grandi con molto giudizio, fattole poi fare intorno un ornamento di mezzo rilievo, intagliato da Simone Cini fiorentino; in alcuni luoghi con gesso a colla un poco sodo o vero gelato le fece un altro ornamento che riuscì molto bello, che poi da Gabriello Saracini fu messo d'oro ogni cosa. Il quale Gabriello a' pie' di detta tavola scrisse questi tre nomi: “Simone Cini fiorentino fece l'in-taglio, Gabriello Saracini la messe d'oro e Spinello di Luca d'Arezzo la dipinse l'anno 1385”. Finita quest'opera, Spinello se ne tornò a Arezzo, avendo da quel generale e dagl'altri monaci, oltr'al pagamento, ricevuto molte carezze; ma non vi stette molto perché, essendo Arezzo travagliata dalle parti guelfe e ghibelline e stata in que' giorni saccheggiata, si condusse con la famiglia e Parri suo figliuolo, il quale attendeva alla pittura, a Fiorenza, dove aveva amici e parenti assai; là dove dipinse quasi per passatempo, fuor della porta a San Piero Gattolini in sulla strada Romana, dove si volta per andare a Pozzolatico, in un tabernacolo che oggi è mezzo guasto una Nunziata et in un altro tabernacolo, dove è l'o-steria del Galluzzo, altre pitture.

Essendo poi chiamato a Pisa, a finire in Camposanto sotto le storie di S. Ranieri, il resto che mancava d'altre storie in un vano che era rimaso non dipinto, per congiugnerle insieme con quelle che aveva fatto Giotto, Simon sanese et Antonio Viniziano, fece in quel luogo a fresco sei storie di San Petito e S. Epiro, nella prima è quando egli giovanetto è presentato dalla madre a Diocliziano imperatore, e quando è fatto generale degl'esserciti che dovevano andare contro ai cristiani; e così quando cavalcando gl'apparve Cristo che mostrandogli una croce bianca gli comanda che non lo perseguiti. In un'altra storia si vede l'Angelo del Signore dare a quel Santo, mentre cavalca, la bandiera della fede con la Croce bianca in campo rosso, che è poi stata sempre l'arme de' Pisani, per avere Santo Epiro pregato Dio che gli desse un segno da portare incontro agli nimici. Si vede appresso questa un'altra storia dove appiccata fra il santo et i pagani una fiera battaglia, molti Angeli armati combattono per la vittoria di lui; nella quale Spinello fece molte cose da considerare in que' tempi, che l'arte non aveva ancora né forza né alcun buon modo d'esprimere con i colori vivamente i concetti dell'animo. E ciò furono, fra le molte altre cose che vi sono, due soldati i quali, essendosi con una delle mani presi nelle barbe, tentano con gli stocchi nudi che hanno nell'altra torsi l'uno all'altro la vita, mostrando nel volto et in tutti i movimenti delle membra il desiderio che ha ciascuno di rimanere vittorioso, e con fierezza d'animo essere senza paura e quanto più si può pensare coraggiosi; e così ancora fra quegli che combattono a cavallo, è molto ben fatto un cavalliere, che con la lancia conficca in terra la testa del nimico, traboccato rovescio del cavallo tutto spaventato. Mostra un'al-tra storia il medesimo Santo, quando è presentato a Diocliziano imperatore, che lo essamina della fede e poi lo fa dare ai tormenti e metterlo in una fornace, dalla quale egli rimane libero et in sua vece abruciati i ministri che quivi sono molto pronti da tutte le bande; et insomma tutte l'altre azzioni di quel Santo in fino alla decollazione; dopo la quale è portata l'anima in cielo; et in ultimo quando sono portate d'Alessandria a Pisa l'ossa e le reliquie di San Petito; la quale tutta opera per colorito e per invenzione è la più bella, la più finita e la meglio condotta che facesse Spinello; la qual cosa da questo si può conoscere che, essendosi benissimo conservata, fa oggi la sua freschezza maravigliare chiunche la vede. Finita quest'opera in Camposanto, dipinse in una capella in San Francesco, che è la seconda allato alla maggiore, molte storie di San Bartolomeo, di Santo Andrea, di San Iacopo e di San Giovanni Apostoli, e forse sarebbe stato più lungamente a lavorare in Pisa, perché in quella città erano le sue opere conosciute e guiderdonate, ma vedendo la città tutta sollevata e sotto sopra, per essere stato dai Lanfranchi, cittadini pisani, morto Messer Piero Gambacorti, di nuovo con tutta la famiglia, essendo già vecchio, se ne ritornò a Fiorenza, dove in un anno che vi stette e non più, fece in Santa Croce alla capella de' Machiavelli intitolata a S. Filippo e Iacopo, molte storie d'essi Santi e della vita e morte loro. E la tavola della detta capella, perché era desideroso di tornarsene in Arezzo sua patria o per dir meglio da esso tenuta per patria, lavorò in Arezzo, e di là la mandò finita l'anno 1400.

Tornatosene dunque là d'età d'anni settantasette o più, fu dai parenti et amici ricevuto amorevolmente, e poi sempre carezzato et onorato insino alla fine di sua vita, che fu l'anno 92 di sua età. E se bene era molto vecchio, quando tornò in Arezzo, avendo buone facultà, arebbe potuto fare senza lavorare, ma non sapendo egli, come quello che a lavorare sempre era avezzo, starsi in riposo, prese a fare alla Compagnia di Santo Agnolo in quella città alcune storie di San Michele, le quali in su lo intonacato del muro disegnate di rossaccio, così alla grossa, come gl'artefici vecchi usavano di fare il più delle volte, in un cantone, per mostra ne lavorò e colorì interamente una storia sola, che piacque assai. Convenutosi poi del prezzo con chi ne aveva la cura, finì tutta la facciata dell'altar maggiore; nella quale figurò Lucifero porre la sedia sua in Aquilone, e vi fece la rovina degl'Angeli, i quali in diavoli si tramutano piovendo in terra; dove si vede in aria un S. Michele che combatte con l'antico serpente di sette teste e di dieci corna, e da basso nel centro un Lucifero già mutato in bestia bruttissima. E si compiacque tanto Spinello di farlo orribile e contraffatto, che si dice (tanto può alcuna fiata l'immaginazione) che la detta figura da lui dipinta gl'apparve in sogno domandandolo dove egli l'aves-se veduta sì brutta e perché fattole tale scorno con i suoi pennelli, e che egli, svegliatosi dal sonno, per la paura non potendo gridare, con tremito grandissimo si scosse di maniera che la moglie destatasi lo soccorse; ma nientedimanco fu per ciò a rischio, strignendogli il cuore, di morirsi per cotale accidente subitamente. Benché ad ogni modo spiritaticcio e con occhi tondi poco tempo vivendo poi, si condusse alla morte lasciando di sé gran desiderio agl'amici, et al mondo due figliuoli: l'uno fu Forzore orefice, che in Fiorenza mirabilmente lavorò di niello, e l'altro Parri, che imitando il padre di continuo attese alla pittura e nel disegno di gran lunga lo trapassò. Dolse molto agl'Aretini così sinistro caso con tutto che Spinello fusse vecchio, rimanendo privati d'una virtù e d'una bontà quale era la sua. Morì d'età d'anni novanta dua et in Santo Agostino d'Arezzo gli fu dato sepoltura, dove ancora oggi si vede una lapida con un'arme fatta a suo capriccio, dentrovi uno spinoso. E seppe molto meglio disegnare Spinello che mettere in opera, come si può vedere nel nostro libro dei disegni di diversi pittori antichi, in due Vangelisti di chiaro scuro et un San Lodovico disegnati di sua mano, molto begli. Et il ritratto del medesimo che di sopra si vede, fu ricavato da me da uno che n'era nel Duomo vecchio, prima che fusse rovinato. Furono le pitture di costui dal 1380 infino al mille e quattrocento.

FINE DELLA VITA DI SPINELLO PITTORE ARETINO

VITA DI GHERARDO STARNINA

PITTORE

Veramente chi camina lontano dalla sua patria nell'altrui praticando, fa bene spesso nell'animo un temperamento di buono spirito, perché nel veder fuori diversi onorati costumi, quando anco fusse di perversa natura, impara a esser trattabile, amorevole e paziente con più agevolezza assai che fatto non arebbe nella patria dimorando; et invero, chi disidera affinare gl'uomini nel vivere del mondo, altro fuoco né miglior cimento di questo non cerchi, perché quegli che sono rozzi di natura ringentiliscono, et i gentili maggiormente graziosi divengono.

Gherardo di Iacopo Starnini, pittore fiorentino, ancora che fusse di sangue più che di buona natura, essendo nondimeno nel praticare molto duro e rozzo, ciò più a sé che agli amici portava danno; e maggiormente portato gl'arebbe, se in Ispagna, dove imparò a essere gentile e cortese, non fusse lungo tempo dimorato; poscia che egli in quelle parti divenne in guisa contrario a quella sua prima natura che, ritornando a Fiorenza, infiniti di quegli che inanzi la sua partita a morte l'odiavano, con grandissima amorevolezza nel suo ritorno lo ricevettero e poi sempre sommamente l'amarono, sì fattamente er'egli fattosi gentile e cortese.

Nacque Gherardo in Fiorenza l'anno 1354, e crescendo, come quello che aveva dalla natura l'ingegno aplicato al disegno, fu messo con Antonio da Vinezia a imparare a disegnare e dipignere, per che, avendo nello spazio di molti anni non solamente imparato il disegno e la pratica de' colori, ma dato saggio di sé per alcune cose con bella maniera lavorate, si partì da Antonio Viniziano, e cominciando a lavorare sopra di sé, fece in S. Croce nella capella de' Castellani, la quale gli fu fatta dipignere da Michele di Vanni, onorato cittadino di quella famiglia, molte storie di S. Antonio abate in fresco, et alcune ancora di S. Niccolò vescovo, con tanta diligenza e con sì bella maniera, ch'elleno furono cagione di farlo conoscere a certi Spagnuoli, che allora in Fiorenza per loro bisogne dimoravano, per eccellente pittore e, che è più, che lo conducessero in Ispagna al re loro, che lo vide e ricevette molto volentieri, essendo allora massimamente carestia di buoni pittori in quella provincia. Né a disporlo che si partisse della patria fu gran fatica, perciò che, avendo in Fiorenza dopo il caso de' Ciompi e che Michele di Lando fu fatto gonfaloniere avuto sconce parole con alcuni, stava più tosto con pericolo della vita che altramente. Andato dunque in Ispagna e per quel re lavorando molte cose, si fece, per i gran premi che delle sue fatiche riportava, ricco et onorato par suo; per che, disideroso di farsi vedere e conoscere agl'amici e parenti in quello miglior stato, tornato alla patria, fu in essa molto carezzato e da tutti i cittadini amorevolmente ricevuto. Né andò molto che gli fu dato a dipignere la capella di S. Girolamo nel Carmine, dove, facendo molte storie di quel Santo, figurò nella storia di Paula et Eustachio e di Girolamo, alcuni abiti che usavano in quel tempo gli Spagnuoli, con invenzione molto propria e con abondanza di modi e di pensieri nell'attitudini delle figure. Fra l'altre cose, facendo in una storia quando S. Girolamo impara le prime lettere, fece un maestro che, fatto levare a cavallo un fanciullo addosso a un altro, lo percuote con la sferza di maniera che il povero putto, per lo gran duolo menando le gambe, pare che gridando tenti mordere un orecchio a colui che lo tiene; il che tutto con grazia e molto leggiadramente espresse Gherardo, come colui che andava ghiribizzando intorno alle cose della natura. Similmente nel testamento di S. Girolamo vicino alla morte contrafece alcuni frati con bella e molto pronta maniera; perciò che alcuni scrivendo et altri fisamente ascoltando e rimirandolo, osservano tutti le parole del loro maestro con grande affetto.

Quest'opera avendo acquistato allo Starnina appresso gl'artefici grado e fama, et i costumi, con la dolcezza della pratica, grandissima reputazione, era il nome di Gherardo famoso per tutta Toscana, anzi per tutta Italia, quando, chiamato a Pisa a dipignere in quella città il capitolo di S. Nicola, vi mandò in suo scambio Antonio Vite da Pistoia, per non si partire di Firenze; il quale Antonio, avendo sotto la disciplina dello Starnina imparata la maniera di lui, fece in quel capitolo la Passione di Gesù Cristo, e la diede finita, in quel modo che ella oggi si vede, l'anno 1403, con molta sodisfazione de' Pisani. Avendo poi, come s'è detto, finita la capella de' Pugliesi, et essendo molto piaciute ai Fiorentini l'o-pere che vi fece di S. Girolamo, per avere egli espresso vivamente molti affetti et attitudini non state messe in opera fino allora dai pittori stati innanzi a lui, il Comune di Firenze, l'anno che Gabriel Maria signor di Pisa vendé quella città ai Fiorentini per prezzo di dugentomila scudi dopo l'avere sostenuto Giovanni Gambacorta l'assedio tredici mesi et in ultimo accordatosi anch'egli alla vendita, fece dipignere dallo Starnina, per memoria di ciò, nella facciata del palazzo della Parte Guelfa, un San Dionigi vescovo con due Angeli, e sotto a quello ritratta di naturale la città di Pisa, nel che fare egli usò tanta diligenza in ogni cosa e particolarmente nel colorirla a fresco, che nonostante l'aria e le pioggie e l'essere volta a tramontana, ell'è sempre stata tenuta pittura degna di molta lode, e si tiene al presente per essersi mantenuta fresca e bella come s'ella fusse fatta pur ora.

Venuto dunque per questa o per l'altre opere sue Gherardo in reputazione e fama grandissima nella patria e fuori, la morte, invidiosa e nemica sempre delle virtuose azzioni, in sul più bello dell'operare troncò la infinita speranza di molto maggior cose che il mondo si aveva promesso di lui; perché in età d'anni XLVIIII inaspettatamente giunto al suo fine, con essequie onoratissime fu sepellito nella chiesa di S. Iacopo sopra Arno.

Furono discepoli di Gherardo Masolino da Panicale, che fu prima eccellente orefice e poi pittore, et alcuni altri che per non esser stati molto valenti uomini non accade ragionarne.

Il ritratto di Gherardo è nella storia sopradetta di S. Girolamo in una delle figure che sono intorno al Santo quando muore, in proffilo con un capuccio intorno alla testa et indosso un mantello affibbiato. Nel nostro libro sono alcuni disegni di Gherardo fatti di penna in carta pecora che non sono se non ragionevoli, etc.

FINE DELLA VITA DI GHERARDO STARNINA

VITA DI LIPPO

PITTORE FIORENTINO

Sempre fu tenuta e sarà la invenzione madre verissima dell'architettura, della pittura e della poesia, anzi pure di tutte le migliori arti e di tutte le cose maravigliose che dagl'uomini si fanno; perciò che ella gradisce gl'artefici molto e di loro mostra i ghiribizzi et i capricci de' fantastichi cervelli che truovano la varietà delle cose; le novità delle quali esaltano sempre con maravigliosa lode tutti quelli che in cose onorate adoperandosi, con straordinaria bellezza danno forma, sotto coperta e velata ombra alle cose che fanno, talora lodando altrui con destrezza, e talvolta biasimando senza essere apertamente intesi.

Lippo dunque, pittore fiorentino che tanto fu vario e raro nell'invenzione quanto furono veramente infelici l'opere sue e la vita che gli durò poco, nacque in Fiorenza intorno agl'anni di nostra salute 1354, e se bene si mise all'arte della pittura assai ben tardi e già grande, nondimeno fu in modo aiutato dalla natura che a ciò l'inclinava e dall'ingegno che aveva bellissimo, e che presto fece in essa maravigliosi frutti; perciò che, cominciando in Fiorenza i suoi lavori, fece in

S. Benedetto, grande e bel monasterio fuor della porta a Pinti, dell'Ordine di Camaldoli, oggi rovinato, molte figure che furono tenute bellissime, e particolarmente tutta una capella di sua mano, che mostrava quanto un sollecito studio faccia tostamente fare cose grandi a chi per disiderio di gloria onoratamente s'affatica. Da Fiorenza essendo condotto in Arezzo, nella chiesa di Santo Antonio alla capella de' Magi fece in fresco una storia grande, dove eglino adorano Cristo, et in Vescovado la capella di San Iacopo e San Cristofano, per la famiglia degl'Ubertini, le quali tutte cose, avendo egli invenzione nel comporre le storie e nel colorire, furono bellissime, e massimamente essendo egli stato il primo che cominciasse a scherzare, per dir così, con le figure, e svegliare gl'animi di coloro che furono dopo lui, la qual cosa inanzi non era stata, non che messa in uso, pure acennata. Avendo poi molte cose lavorato in Bologna, et in Pistoia una tavola che fu ragionevole, se ne tornò a Fiorenza, dove in Santa Maria Maggiore dipinse nella cappella de' Beccundi l'anno 1383 le storie di San Giovanni Evangelista; allato alla quale capella, che è accanto alla maggiore a man sinistra, seguitano nella facciata della chiesa, di mano del medesimo, sei storie del medesimo santo, molto ben composte et ingegnosamente ordinate, dove fra l'altre cose e molto vivamente espresse un San Giovanni che fa mettere da San Dionigi Areopagita la veste di se stesso sopra alcuni morti che nel nome di Gesù Cristo rianno la vita, con molta maraviglia d'alcuni che presenti al fatto a pena il credono agl'occhi loro medesimi. Così anche nelle figure de' morti si vede grandissimo artifizio in alcuni scorti, ne' quali apertamente si dimostra che Lippo conobbe e tentò in parte alcune difficultà dell'arte della pittura. Lippo medesimamente fu quegli che dipinse i portelli nel tempio di San Giovanni, cioè del tabernacolo dove sono gl'Angeli et il San Giovanni di rilievo di mano d'Andrea, nei quali lavorò a tempera molto diligentemente istorie di San Giovanni Battista. E perché si dilettò anco di lavorare di musaico, nel detto San Giovanni sopra la porta che va alla Misericordia, fra le finestre, fece un principio, che fu tenuto bellissimo e la migliore opera di musaico che in quel luogo fino allora fusse stata fatta e racconciò ancora alcune cose, pure di musaico, che in quel tempio erano guaste. Dipinse ancora fuor di Fiorenza, in San Giovanni fra l'Arcora, fuor della porta a Faenza, che fu rovinato per l'assedio di detta città, allato a una Passione di Cristo fatta da Buffalmacco, molte figure a fresco che furono tenute bellissime da chiunche le vide. Lavorò similmente a fresco in certi spedaletti della porta a Faenza et in Santo Antonio dentro a detta porta, vicino allo spedale, certi poveri in diverse bellissime maniere et attitudini, e dentro nel chiostro fece con bella e nuova invenzione una visione nella quale figurò quando Santo Antonio vede i lacci del mondo et appresso a quelli la volontà e gl'appetiti degl'uomini, che sono dall'una e dagl'altri tirati alle cose diverse di questo mondo, il che tutto fece con molta considerazione e giudizio. Lavorò ancora Lippo cose di musaico in molti luoghi d'Italia e, nella Parte guelfa in Firenze fece una figura con la testa invetriata, et in Pisa ancora sono molte cose sue. Ma nondimeno si può dire che egli fusse veramente infelice, poiché non solo la maggior parte delle fatiche sue sono oggi per terra e nelle rovine dell'assedio di Fiorenza andate in perdizione, ma ancora per avere egli molto infelicemente terminato il corso degl'anni suoi, conciò sia che, essendo Lippo persona litigiosa e che più amava la discordia che la pace, per avere una mattina detto bruttissime parole a un suo avversario al Tribunale della Mercanzia, egli fusse una sera, che se ne tornava a casa, da colui appostato e con un coltello di maniera ferito nel petto che pochi giorni dopo miseramente si morì. Furono le sue piture circa il MCCCCX.

Fu nei medesimi tempi di Lippo, in Bologna, un altro pittore chiamato similmente Lippo Dalmasi, il quale fu valen-te uomo, e fra l'altre cose dipinse, come si può vedere in San Petronio di Bologna, l'anno 1407, una Nostra Donna che è tenuta in molta venerazione, et in fresco l'arco sopra la porta di San Proclo, e nella chiesa di San Francesco nella tribuna dell'altar maggiore fece un Cristo grande in mezzo a San Pietro e San Paulo, con buona grazia e maniera; e sotto questa opera si vede scritto il nome suo con lettere grandi. Disegnò costui ragionevolmente, come si può vedere nel nostro libro; et insegnò l'arte a Messer Galante da Bologna, che disegnò poi molto meglio, come si può vedere nel detto libro in un ritratto dal vivo con abito corto e le maniche a gozzi.

FINE DELLA VITA DI LIPPO PITTORE FIORENTINO

VITA DI DON LORENZO MONACO DEGLI ANGELI DI FIRENZE

PITTORE

A una persona buona e religiosa, credo io che sia di gran contento il trovarsi alle mani qualche esercizio onorato o di lettere o di musica o di pittura o di altre liberali e meccaniche arti, che non siano biasimevoli, ma più tosto di utile agl'altri uomini e di giovamento; perciò che dopo i divini uffici, si passa onoratamente il tempo col diletto che si piglia nelle dolci fatiche dei piacevoli esercizii; a che si aggiugne che non solo è stimato e tenuto in pregio dagl'altri, solo che invidiosi non siano e maligni mentre che vive, ma che ancora è dopo la morte da tutti gli uomini onorato, per l'opere e buon nome che di lui resta a coloro che rimangono. E nel vero, chi dispensa il tempo in questa maniera, vive in quieta contemplazione e senza molestia alcuna di que' stimoli ambiziosi che negli scioperati et oziosi, che per lo più sono ignoranti, con loro vergogna e danno quasi sempre si veggiono. E se pur avviene che un così fatto virtuoso dai maligni sia tallora percosso, può tanto il valore della virtù che il tempo ricuopre e sotterra la malignità de' cattivi, et il virtuoso ne' secoli che succedono rimane sempre chiaro et illustre.

Don Lorenzo dunque pittore fiorentino, essendo monaco della Relligione di Camaldoli e nel monasterio degl'Angeli (il qual monasterio ebbe il suo principio l'anno 1294 da fra' Guittone d'Arezzo dell'Ordine e Milizia della Vergine Madre di Gesù Cristo, o vero, come volgarmente erano i religiosi di quell'Ordine chiamati, de' frati Gaudenti), attese ne' suoi primi anni con tanto studio al disegno et alla pittura, che egli fu poi meritamente in quello esercizio fra i migliori dell'età sua annoverato. Le prime opere di questo monaco pittore, il quale tenne la maniera di Taddeo Gaddi e degl'altri suoi, furono nel suo monasterio degli Agnoli, dove, oltre molte altre cose, dipinse la tavola dell'altar maggiore, che ancor oggi nella loro chiesa si vede, la quale fu posta su, finita del tutto, come per lettere scritte da basso nel fornimento si può vedere, l'anno 1413. Dipinse similmente don Lorenzo in una tavola, che era nel monasterio di San Benedetto del medesimo ordine di Camaldoli, fuor della porta a Pinti, il quale fu rovinato per l'assedio di Firenze l'anno 1529, una coronazione di Nostra Donna sì come avea anco fatto nella tavola della sua chiesa degl'Angeli; la quale tavola di San Benedetto è oggi nel primo chiostro del detto monasterio degl'Angeli nella capella degl'Alberti a man ritta. In quel medesimo tempo e forse prima, in S. Trinita di Firenze, dipinse a fresco la capella e la tavola degl'Ardinghelli, che in quel tempo fu molto lodata; dove fece di naturale il ritratto di Dante e del Petrarca; in S. Piero maggiore dipinse la capella de' Fioravanti, et in una capella di S. Piero Scheraggio dipinse la tavola; e nella detta chiesa di S. Trinita la capella de' Bartolini, in S. Iacopo sopra Arno si vede anco una tavola di sua mano molto ben lavorata e condotta con infinita diligenza secondo la maniera di que' tempi. Similmente nella Certosa fuor di Fiorenza dipinse alcune cose con buona pratica, et in S. Michele di Pisa, monasterio dell'Ordine suo, alcune tavole che sono ragionevoli; et in Firenze nella chiesa de' Romiti, pur di Camaldoli (che oggi, essendo rovinata insieme col monasterio, ha lasciato solamente il nome a quella parte di là d'Arno che dal nome di quel santo luogo si chiama Camaldoli) oltre a molte altre cose fece un Crucifisso in tavola et un S. Giovanni che furono tenuti bellissimi.

Finalmente, infermatosi d'una postema crudele che lo tenne oppresso molti mesi, si morì d'anni cinquantacinque, e fu da' suoi monaci, come le sue virtù meritavano, onoratamente nel capitolo del loro monasterio sotterrato. E perché spesso, come la sperienza ne dimostra, da un solo germe, col tempo, mediante lo studio et ingegno de-gl'uomini, ne surgono molti, nel detto monasterio degl'Angeli, dove sempre per a dietro attesero i monaci alla pittura et

al disegno, non solo il detto don Lorenzo fu eccellente in fra di loro ma vi fiorirono ancora per lungo spazio di molti anni e prima e poi uomini eccellenti nelle cose del disegno. Onde non mi pare da passare in niun modo con silenzio un don Iacopo fiorentino che fu molto inanzi al detto don Lorenzo, perciò che, come fu ottimo e costumatissimo religioso, così fu il miglior scrittore di lettere grosse che fusse prima o sia stato poi non solo in Toscana ma in tutta Europa, come chiaramente ne dimostrano, non solo i venti pezzi grandissimi di libri da coro che egli lasciò nel suo monasterio, che sono i più belli quanto allo scritto e maggiori che siano forse in Italia, ma infiniti altri ancora che in Roma et in Vinezia et in molti altri luoghi si ritruovano; e massimamente in S. Michele et in S. Matia di Murano, monasterio della sua Relligione camaldolese. Per le quali opere meritò questo buon padre, molti e molti anni poi che fu passato a miglior vita, non pure che don Paulo Orlandini, monaco dottissimo nel medesimo monasterio, lo celebrasse con molti versi latini ma che ancora fusse, come è, la sua man destra, con che scrisse i detti libri, in un tabernacolo serbata con molta venerazione, insieme con quella d'un altro monaco, chiamato don Silvestro, il quale non meno eccellentemente, per quanto portò la condizione di que' tempi, miniò i detti libri, che gl'avesse scritti don Iacopo; et io che molte volte gli ho veduti, resto maravigliato che fussero condotti con tanto disegno e con tanta diligenza in que' tempi che tutte l'arti del disegno erano poco meno che perdute, perciò che furono l'opere di questi monaci intorno agl'anni di nostra salute 1350, e poco e prima e poi, come in ciascuno di detti libri si vede. Dicesi et ancora alcuni vecchi se ne ricordano, che quando Papa Leone X venne a Firenze, egli volle vedere e molto ben considerare i detti libri, ricordandosi avergli udito molto lodare al Magnifico Lorenzo de' Medici suo padre, e che poi che gli ebbe con attenzione guardati et ammirati mentre stavano tutti aperti sopra le prospere del coro, disse: “Se fussero secondo la Chiesa Romana e non, come sono, secondo l'ordine monastico et uso di Camaldoli, ne vorremmo alcuni pezzi, dando giusta ricompensa ai monaci, per S. Piero di Roma”, do-ve già n'erano, e forse ne sono, due altri di mano de' medesimi monaci molto belli. Sono nel medesimo monasterio de-gl'Angeli molti ricami antichi, lavorati con molto bella maniera e con molto disegno dai padri antichi di quel luogo, mentre stavano in perpetua clausura, col nome non di monaci ma di romiti, senza uscir mai del monasterio, nella guisa che fanno le suore e monache de' tempi nostri; la quale clausura durò insino all'anno 1470.

Ma per tornare a don Lorenzo, insegnò costui a Francesco Fiorentino, il quale, dopo la morte sua, fece il tabernacolo che è in sul canto di S. Maria Novella, in capo alla via della Scala per andare alla sala del Papa; et a un altro discepolo, che fu Pisano, il quale dipinse nella chiesa di S. Francesco di Pisa, alla capella di Rutilio di Ser Baccio Maggiolini, la Nostra Donna, un S. Piero, S. Giovanni Battista, S. Francesco e S. Ranieri, con tre storie di figure piccole nella predella dell'altare. La qual opera, che fu fatta nel 1315, per cosa lavorata a tempera fu tenuta ragionevole. Nel nostro libro de' disegni ho di mano di don Lorenzo le virtù teologiche, fatte di chiaro scuro con buon disegno e bella e graziosa maniera, in tanto che sono per avventura migliori che i disegni di qual si voglia altro maestro di que' tempi. Fu ragionevole dipintore ne' tempi di don Lorenzo Antonio Vite da Pistoia, il qual dipinse, oltre molte altre cose, come s'è detto nello Starnina, nel palazzo del Ceppo di Prato, la vita di Francesco di Marco, fondatore di quel luogo pio.

FINE DELLA VITA DI DON LORENZO MONACO DEGLI ANGELI

VITA DI TADDEO BARTOLI

PITTORE

Meritano quegli artefici che per guadagnarsi nome si mettono a molte fatiche nella pittura, che l'opere loro siano poste non in luogo oscuro e disonorato, onde siano da chi non intende più là che tanto biasimate, ma in parte che per la nobiltà del luogo, per i lumi e per l'aria possano essere rettamente da ognuno vedute e considerate, come è stata et è ancora l'opera publica della capella che Taddeo Bartoli pittor sanese fece nel palazzo di Siena alla Signoria.

Taddeo dunque nacque di Bartolo di maestro Fredi, il quale fu dipintore nell'età sua mediocre, e dipinse in S. Gimignano nella Pieve, entrando a man sinistra, tutta la facciata d'istorie del Testamento Vecchio. Nella quale opera, che in vero non fu molto buona, si legge ancor nel mezzo questo epitaffio: “Anno Domini 1356 Bartolus Magistri Fredi de Senis me pinxit”. Nel qual tempo bisogna che Bartolo fusse giovane, perché si vede in una tavola fatta pur da lui l'anno 1388 in Santo Agostino della medesima terra entrando in chiesa per la porta principale, a man manca, dove è la Circoncisione di Nostro Signore con certi Santi, che egli ebbe molto miglior maniera così nel disegno come nel colorito, perciò che vi sono alcune teste assai belle, se bene i piedi di quelle figure sono della maniera antica, et insomma si veggiono molte altre opere di mano di Bartolo per que' paesi.

Ma per tornare a Taddeo, essendogli data a fare nella sua patria, come si è detto, la capella del palazzo della Signoria, come al miglior maestro di que' tempi, ella fu da lui con tanta diligenza lavorata e rispetto al luogo tanto onorata e per sì fatta maniera dalla Signoria guiderdonata, che Taddeo n'acrebbe di molto la gloria e la fama sua; onde non solamente fece poi, con suo molto onore et utile grandissimo, molte tavole nella sua patria, ma fu chiamato con gran favore e dimandato alla Signoria di Siena da Francesco da Carrara signor di Padoa, perché andasse, come fece, a fare alcune cose in quella nobilissima città, dove, nella Rena particolarmente e nel Santo, lavorò alcune tavole et altre cose con molta diligenza e con suo molto onore e sodisfazione di quel signore e di tutta la città. Tornato poi in Toscana, lavorò in S. Gimignano una tavola a tempera che tiene della maniera d'Ugolino Sanese, la qual tavola è oggi dietro all'altar maggiore della Pieve e guarda il coro de' preti. Dopo, andato a Siena, non vi dimorò molto che da uno de' Lanfranchi, Operaio del duomo, fu chiamato a Pisa, dove trasferitosi, fece nella capella della Nunziata a fresco quando la Madonna saglie i gradi del tempio, dove in capo il sacerdote l'aspetta in pontificale, molto pulitamente: nel volto del quale sacerdote ritrasse il detto operaio, et appresso a quello se stesso. Finito questo lavoro, il medesimo Operaio gli fece dipignere in Campo Santo, sopra la capella, una Nostra Donna incoronata da Gesù Cristo, con molti Angeli, in attitudini bellissime e molto ben coloriti. Fece similmente Taddeo, per la capella della sagrestia di S. Francesco di Pisa, in una tavola dipinta a tempera, una Nostra Donna et alcuni Santi, mettendovi il nome suo e l'anno ch'ella fu dipinta, che fu l'anno 1394. Et intorno a questi medesimi tempi, lavorò in Volterra certe tavole a tempera, et in Monte Uliveto una tavola, e nel muro un Inferno a fresco, nel quale seguì l'invenzione di Dante, quanto attiene alla divisione de' peccati e forma delle pene: ma nel sito o non seppe, o non potette, o non volle imitarlo. Mandò ancora in Arezzo una tavola che è in S. Agostino, dove ritrasse papa Gregorio Undecimo, cioè quello che dopo essere stata la corte tante decine d'anni in Francia, la ritornò in Italia. Dopo queste opere, ritornatosene a Siena, non vi fece molto lunga stanza, perché fu chiamato a lavorare a Perugia nella chiesa di S. Domenico, dove nella capella di S. Caterina dipinse a fresco tutta la vita di essa Santa, et in S. Francesco, a canto alla porta della sagrestia, alcune figure le quali, ancor che oggi poco si discernino, sono conosciute per di mano di Taddeo, avendo egli tenuto sempre una maniera medesima. Seguendo poco poi la morte di Biroldo signor di Perugia che fu amazzato l'anno 1398, si ritornò Taddeo a Siena; dove, lavorando continuamente, attese in modo agli studi dell'arte per farsi valente uomo, che si può affermare, se forse non seguì l'intento suo, che certo non fu per difetto o negligenza che mettesse nel fare, ma sì bene per indisposizione d'un male opilativo che l'assassi-nò di maniera, che non potette conseguire pienamente il suo desiderio.

Morì Taddeo, avendo insegnato l'arte a suo nipote chiamato Domenico, d'anni 59, e le pitture sue furono intorno a-gl'anni di nostra salute 1410. Lasciò dunque, come si è detto, Domenico Bartoli suo nipote e discepolo, che attendendo all'arte della pittura, dipinse con maggiore e migliore pratica; e nelle storie che fece mostrò molto più copiosità, variandole in diverse cose, che non aveva fatto il zio. Sono nel pellegrinario dello spedale grande di Siena due storie grandi lavorate in fresco da Domenico, dove e prospettive et altri ornamenti si veggiono assai ingegnosamente composti. Dicesi essere stato Domenico modesto e gentile e d'una singolare amorevolezza e liberalissima cortesia, e che ciò non fece manco onore al nome suo, che l'arte stessa della pittura. Furono l'opere di costui intorno agl'anni del Signore 1436; e l'ultime furono in S. Trinita di Firenze, una tavola dentrovi la Nunziata, e nella chiesa del Carmine la tavola dell'altar maggiore.

Fu ne' medesimi tempi e quasi della medesima maniera, ma fece più chiaro il colorito e le figure più basse, Alvaro di Piero di Portogallo, che in Volterra fece più tavole et in S. Antonio di Pisa n'è una et in altri luoghi altre, che per non essere di molta eccellenza non occorre farne altra memoria. Nel nostro libro è una carta disegnata da Taddeo molto praticamente, nella quale è un Cristo e due Angeli, etc.

FINE DELLA VITA DI TADDEO BARTOLI

VITA DI LORENZO DI BICCI

PITTORE

Quando gli uomini che sono eccellenti in uno qualsivoglia onorato esercizio, accompagnano la virtù dell'operare con la gentilezza de' costumi e delle buone creanze e particolarmente con la cortesia, servendo chiunche ha bisogno dell'opera loro presto e volentieri, eglino senza alcun fatto conseguono con molta lode loro e con utile tutto quello che si può, in un certo modo, in questo mondo desiderare. Come fece Lorenzo di Bicci pittor fiorentino, il quale essendo nato in Firenze l'anno 1400 quando apunto l'Italia cominciava a esser travagliata dalle guerre, che poco appresso la condussono a mal termine, fu quasi nella puerizia in bonissimo credito; perciò che avendo sotto la disciplina paterna i buoni costumi, e da Spinello pittore apparato l'arte della pittura, ebbe sempre nome non solo di eccellente pittore, ma di cortesissimo et onorato valente uomo.

Avendo dunque Lorenzo così giovinetto fatto alcune opere a fresco in Firenze e fuora per adestrarsi, Giovanni di Bicci de' Medici, veduta la buona maniera sua, gli fece dipigner nella sala della casa vecchia de' Medici, che poi restò a Lorenzo fratel carnale di Cosimo Vecchio, murato che fu il palazzo grande, tutti quegli uomini famosi che ancor oggi assai ben conservati vi si veggiono; la quale opera finita, perché Lorenzo di Bicci disiderava, come ancor fanno i medici che si esperimentano nell'arte loro sopra la pelle de' poveri uomini di contado, esercitarsi ne' suoi studi della pittura dove le cose non sono così minutamente considerate, per qualche tempo accettò l'opere che gli vennono per le mani; onde fuor della porta a S. Friano dipinse al ponte a Scandicci un tabernacolo nella maniera che ancor oggi si vede, et a Cerbaia sotto un portico, dipinse in una facciata, in compagnia d'una Nostra Donna, molti Santi assai acconciamente. Essendogli poi dalla famiglia de' Martini fatta allogazione d'una capella in S. Marco di Firenze, fece nelle facciate a fresco molte storie della Madonna, e nella tavola essa Vergine in mezzo a molti Santi; e nella medesima chiesa, sopra la capella di S. Giovanni Evangelista della famiglia de' Landi, dipinse a fresco un Agnolo Raffaello e Tobia; e poi, l'anno 1418, per Ricciardo di Messer Niccolò Spinelli, fece nella facciata del convento di S. Croce in sulla piazza in una storia grande a fresco, un S. Tommaso che cerca la piaga a Gesù Cristo, et appresso et intorno a lui tutti gli altri Apostoli, che reverenti et ingenocchioni stanno a veder cotal caso. Et appresso alla detta storia fece similmente a fresco un S. Cristofano alto braccia dodici e mezzo che è cosa rara; perché insino allora, eccetto il S. Cristofano di Buffalmacco, non era stata veduta la maggior figura, né per cosa grande, se bene non è di buona maniera, la più ragionevole e più proporzionata immagine di quella in tutte le sue parti; senzaché l'una e l'altra di queste pitture furono lavorate con tanta pratica che, ancora che siano state all'aria molti anni e percosse dalle pioggie e dalla tempesta per esser volte a tramontana, non hanno mai perduta la vivezza de' colori, né sono rimase in alcuna parte offese. Fece ancora dentro la porta che è in mezzo a queste figure, chiamata la porta del Martello, il medesimo Lorenzo, a richiesta del detto Ricciardo e del guardiano del convento, un Crucifisso con molte figure; e nelle facciate intorno la confermazione della Regola di S. Francesco fatta da Papa Onorio, et appresso il martirio d'alcuni frati di quell'Ordine che andarono a predicare la fede fra i Saracini; negl'archi e nelle volte fece alcuni re di Francia, frati e divoti di S. Francesco e gli ritrasse di naturale, e così molti uomini dotti di quell'Ordine e segnalati per dignità, cioè vescovi, cardinali e papi: infra i quali sono ritratti di naturale in due tondi delle volte papa Nicola Quarto et Alessandro Quinto; alle quali tutte figure, ancor che facesse Lorenzo gl'abiti bigi, gli variò nondimeno, per la buona pratica che egli aveva nel lavorare, di maniera che tutti sono fra loro differenti; alcuni pendono in rossigno, altri in azzurriccio, altri sono scuri et altri più chiari, et insomma sono tutti varii e degni di considerazione; e, quello che è più, si dice che fece questa opera con tanta facilità e prestezza, che facendolo una volta chiamare il guardiano che gli faceva le spese a desinare, quando a punto aveva fatto l'intonaco per una figura e cominciatala, egli rispose: “Fate le scodelle, che io faccio questa figura e vengo”. Onde a gran ragione si dice che Lorenzo ebbe tanta velocità nelle mani, tanta pratica ne' colori, e fu tanto risoluto, che più non fu niun altro già mai. È di mano di costui il tabernacolo in fresco ch'è in sul canto delle monache di Foligno e la Madonna et alcuni San-ti che sono sopra la porta della chiesa di quel monasterio, fra i quali è un S. Francesco che sposa la povertà. Dipinse anco nella chiesa di Camaldoli di Firenze, per la Compagnia de' Martiri, alcune storie del martirio d'alcuni Santi, e nella chiesa due capelle che mettono in mezzo la capella maggiore. E perché queste pitture piacquero assai a tutta la città universalmente, gli fu, dopo che l'ebbe finite, data a dipignere nel Carmine, dalla famiglia de' Salvestrini - la quale è oggi quasi spenta, non essendone, ch'io sappia, altri che un frate degli Angeli di Firenze, chiamato fra' Nemesio, buono e costumato religioso -, una facciata della chiesa del Carmine; dove egli fece i martiri quando, essendo condennati alla morte, sono spogliati nudi e fatti caminare scalzi sopra triboli, seminati dai ministri de' tiranni mentre andavano a esser posti in croce, sì come più in alto si veggiono esser posti in varie e stravaganti attitudini; in questa opera, la quale fu la maggiore che fusse stata fatta insino allora, si vede fatto, secondo il parere di que' tempi, ogni cosa con molta pratica e disegno, essendo tutta piena di questi affetti che fa diversamente far la natura a coloro che con violenza sono fatti morire; onde io non mi maraviglio se molti valenti uomini si sono saputi servir d'alcune cose che in questa pittura si veggiono.

Fece dopo queste nella medesima chiesa molte altre figure, e particolarmente nel tramezzo due capelle; e ne' medesimi tempi il tabernacolo del canto alla Cuculia, e quello che è nella via de' Martelli nella faccia delle case; e sopra la porta del Martello di Santo Spirito, in fresco, un S. Agostino che porge a' suoi frati la Regola. In S. Trinita dipinse a fresco la vita di S. Giovanni Gualberto nella cappella di Neri Compagni; e nella cappella maggiore di S. Lucia, nella via de' Bardi, alcune storie in fresco della vita di quella santa per Niccolò da Uzzano, che vi fu da lui ritratto di naturale insieme con alcuni altri cittadini; il quale Niccolò col parere e modello di Lorenzo, murò vicino a detta chiesa il suo palazzo et il magnifico principio per una sapienza o vero studio, fra il convento de' Servi e quello di San Marco, cioè dove sono oggi i lioni. La quale opera, veramente lodevolissima e più tosto da magnanimo principe che da privato cittadino, non ebbe il suo fine perché i danari, che in grandissima somma Niccolò lasciò in sul Monte di Firenze per la fabrica e per l'entrata di quello studio, furono in alcune guerre o altri bisogni della città consumati dai fiorentini. E se bene non potrà mai la fortuna oscurare la memoria e la grandezza dell'animo di Niccolò da Uzzano non è però che l'universale dal non si essere finita questa opera non riceva danno grandissimo; laonde, chi disidera giovare in simili modi al mondo e lasciare di sé onorata memoria, faccia da sé mentre ha vita e non si fidi della fede de' posteri e degl'eredi, perché rade volte si vede avere avuto effetto interamente cosa che si sia lasciata perché si faccia dai sucessori.

Ma tornando a Lorenzo, egli dipinse, oltre quello che si è detto, in sul ponte Rubaconte a fresco in un tabernacolo, una Nostra Donna e certi Santi che furono ragionevoli. Né molto dopo, essendo ser Michele di Fruosino spedalingo di Santa Maria Nuova di Firenze, il quale spedale ebbe principio da Folco Portinari cittadino fiorentino, egli deliberò, sì come erano cresciute le facultà dello spedale, che così fusse accresciuta la sua chiesa dedicata a Santo Egidio, che allora era fuor di Firenze e piccola affatto. Onde, presone consiglio da Lorenzo di Bicci suo amicissimo, cominciò a' dì cinque di settembre, l'anno 1418, la nuova chiesa, la quale fu in un anno finita nel modo ch'ella sta oggi, e poi consegrata solennemente da papa Martino Quinto a richiesta di detto ser Michele, che fu ottavo spedalingo, e degl'uomini della famiglia de' Portinari. La quale sagrazione dipinse poi Lorenzo, come volle ser Michele, nella facciata di quella chiesa, ritraendovi di naturale quel papa et alcuni cardinali; la quale opera, come cosa nuova e bella, fu allora molto lo-data; onde meritò d'essere il primo che dipignesse nella principale chiesa della sua città, cioè in Santa Maria del Fiore, dove sotto le finestre di ciascuna capella dipinse quel Santo al quale ell'è intitolata, e nei pilastri poi e per la chiesa i dodici Apostoli con le croci della consegrazione, essendo quel tempio stato solennissimamente quello stesso anno consegrato da papa Eugenio Quarto viniziano. Nella medesima chiesa gli fecero dipignere gl'Operai, per ordine del publico, nel muro a fresco, un deposito finto di marmo, per memoria del cardinale de' Corsini che ivi è sopra la cassa ritratto di naturale; e sopra quello un altro simile, per memoria di maestro Luigi Marsili famosissimo teologo, il quale andò ambasciadore con Messer Luigi Guicciardini e Messer Guccio di Gino, onoratissimi cavalieri, al duca d'Angiò. Fu poi Lorenzo condotto in Arezzo da don Laurentino abbate di San Bernardo, monasterio dell'Ordine di Monte Oliveto, dove dipinse, per Messer Carlo Marsupini, a fresco, istorie della vita di San Bernardo nella capella maggiore; ma volendo poi dipignere nel chiostro del convento la vita di San Benedetto, poi dico che egli avesse per Francesco Vecchio de' Bacci dipinta la maggior capella della chiesa di San Francesco, dove fece solo la volta e mezzo l'arco, s'amalò di mal di petto; per che, facendosi portare a Firenze, lasciò che Marco da Monte Pulciano suo discepolo, col disegno che aveva egli fatto e lasciato a don Laurentino, facesse nel detto chiostro le storie della vita di San Benedetto; il che fece Marco, come seppe il meglio, e diede finita l'anno 1448 a' dì 24 d'aprile tutta l'opera di chiaro scuro, come si vede esservi scritto di sua mano, con versi e parole che non sono men goffi che siano le pitture. Tornato Lorenzo alla patria, risanato che fu, nella medesima facciata del convento di S. Croce, dove aveva fatto il S. Cristofano, dipinse l'assunzione di Nostra Donna in cielo, circundata da un coro d'Angeli, et a basso un S. Tommaso che riceve la cintola; nel far la quale opera, per esser Lorenzo malaticcio, si fece aiutare a Donatello allora giovanetto; onde con sì fatto aiuto fu finita di sorte l'an-no 1450, che io credo ch'ella sia la miglior opera, e per disegno e per colorito, che mai facesse Lorenzo; il quale non molto dopo, essendo vecchio et affaticato, si morì d'età di sessanta anni in circa, lasciando due figliuoli che attesero alla pittura, l'uno de' quali, che ebbe nome Bicci, gli diede aiuto in fare molti lavori e l'altro, che fu chiamato Neri, ritrasse suo padre e se stesso nella capella de' Lenzi in Ogni Santi, in due tondi con lettere intorno che dicono il nome dell'uno e dell'altro. Nella quale capella de' Lenzi facendo il medesimo alcune storie della Nostra Donna, si ingegnò di contrafare molti abiti di que' tempi, così di maschi come di femine, e nella capella fece la tavola a tempera. Parimente, nella Badia di S. Felice, in piazza di Firenze, dell'Ordine di Camaldoli, fece alcune tavole, et una all'altare maggiore di S. Michele d'Arezzo del medesimo Ordine; e fuor d'Arezzo, a S. Maria delle Grazie, nella chiesa di S. Bernardino, una Madonna che ha sotto il manto il popolo d'Arezzo, e da un lato quel S. Bernardino inginocchioni con una croce di legno in mano, sì come costumava di portare quando andava per Arezzo predicando, e dall'altro lato e d'intorno S. Niccolò e S. Michelagnolo. E nella predella sono dipinte storie de' fatti di detto S. Bernardino e de' miracoli che fece, e particolarmente in quel luogo. Il medesimo Neri fece in S. Romolo di Firenze la tavola dell'altar maggiore, et in S. Trinita, nella capella degli Spini, la vita di S. Giovanni Gualberto a fresco, e la tavola a tempera che è sopra l'altare: dalle quali opere si conosce che se Neri fusse vivuto e non mortosi d'età di trentasei anni, che egli averebbe fatto molte più opere e migliori che non fece Lorenzo suo padre. Il quale, essendo stato l'ultimo de' maestri della maniera vecchia di Giotto, sarà anco la sua vita l'ultima di questa Prima Parte, la quale con l'aiuto di Dio benedetto avemo condotta a fine.

FINE DELLA VITA DI LORENZO DI BICCI E DELLA PRIMA PARTE DELL'OPERA

DELLE

VITE DE' PITTORI, SCULTORI

ET ARCHITETTORI

CHE SONO STATI DA CIMABUE IN QUA

SCRITTE DA MESSER GIORGIO VASARI

PITTORE ARETINO PARTE SECONDA

PROEMIO

Quando io presi primieramente a descrivere queste Vite, non fu mia intenzione fare una nota delli artefici et uno inventario, dirò così, dell'opere loro, né giudicai mai degno fine di queste mie, non so come belle, certo lunghe e fastidio-se fatiche, ritrovare il numero et i nomi e le patrie loro, et insegnare in che città et in che luogo appunto di esse si trovassino al presente le loro pitture o sculture o fabriche; ché questo io l'arei potuto fare con una semplice tavola, senza interporre in parte alcuna il giudizio mio. Ma vedendo che gli scrittori delle istorie, quegli che per comune consenso hanno nome di avere scritto con miglior giudizio, non solo non si sono contentati di narrare semplicemente i casi seguiti, ma con ogni diligenza e con maggior curiosità che hanno potuto, sono iti investigando i modi et i mezzi e le vie che hanno usati i valenti uomini nel maneggiare l'imprese, e sonsi ingegnati di toccare gli errori, et appresso i bei colpi e' ripari e' partiti prudentemente qualche volta presi ne' governi delle faccende, e tutto quello insomma che sagacemente o straccuratamente, con prudenza o con pietà o con magnanimità hanno in esse operato, come quelli che conoscevano la istoria essere veramente lo specchio della vita umana, non per narrare asciuttamente i casi occorsi a un principe o d'una republica, ma per avvertire i giudizii, i consigli, i partiti et i maneggi degli uomini, cagione poi delle felici et infelici azzioni; il che è proprio l'anima dell'istoria; e quello che invero insegna vivere e fa gli uomini prudenti, e che appresso al piacere che si trae del vedere le cose passate come presenti, è il vero fine di quella; per la qual cosa avendo io preso a scriver la istoria de' nobilissimi artefici, per giovar all'arti quanto patiscono le forze mie, et appresso per onorarle, ho tenuto quanto io poteva, ad imitazione di così valenti uomini, il medesimo modo; e mi sono ingegnato non solo di dire quel che hanno fatto, ma di scegliere ancora discorrendo il meglio dal buono, e l'ottimo dal migliore, e notare un poco diligentemente i modi, le arie, le maniere, i tratti e le fantasie de' pittori e degli scultori; investigando, quanto più diligentemente ho saputo, di far conoscere a quegli che questo per se stessi non sanno fare, le cause e le radici delle maniere e del miglioramento e peggioramento delle arti accaduto in diversi tempi et in diverse persone. E perché nel principio di queste Vite io parlai de la nobiltà et antichità di esse arti, quanto a questo proposito si richiedeva, lasciando da parte molte cose di che io mi sarei potuto servire di Plinio e d'altri autori, se io non avessi voluto, contra la credenza forse di molti, lasciar libero a ciascheduno il vedere le altrui fantasie ne' proprii fonti, mi pare che e' si convenga fare al presente quello che, fuggendo il tedio e la lunghezza, mortal nemica delle attenzioni, non mi fu lecito fare allora, cioè aprire più diligentemente l'animo et intenzione mia, e mostrare a che fine io abbia diviso questo corpo delle Vite in tre parti.

Bene è vero che quantunque la grandezza delle arti nasca in alcuno da la diligenza, in un altro da lo studio, in questo da la imitazione, in quello da la cognizione delle scienzie che tutte porgono aiuto a queste, et in chi da le predette cose tutte insieme o da la parte maggiore di quelle, io nientedimanco per avere nelle vite de' particolari ragionato a bastanza de' modi de l'arte, de le maniere e de le cagioni del bene e meglio et ottimo operare di quelli, ragionerò di questa cosa generalmente, e più presto de la qualità de' tempi che de le persone, distinte e divise da me, per non ricercarla troppo minutamente, in tre parti, o vogliamole chiamare età, da la rinascita di queste arti sino al secolo che noi viviamo, per quella manifestissima differenza che in ciascuna di loro si conosce. Conciò sia che nella prima e più antica si sia veduto queste tre arti essere state molto lontane da la loro perfezzione, e come che elle abbiano avuto qualcosa di buono, essere stato accompagnato da tanta imperfezzione, che e' non merita per certo troppa gran lode; ancora che, per aver dato principio e via e modo al meglio che seguitò poi, se non fusse altro, non si può se non dirne bene, e darle un po' più gloria che, se si avesse a giudicare con la perfetta regola dell'arte, non hanno meritato l'opere stesse. Nella seconda poi si veggono manifesto esser le cose migliorate assai e nell'invenzioni e nel condurle con più disegno e con miglior maniere e con maggior diligenza, e così tolto via quella ruggine della vecchiaia e quella goffezza e sproporzione che la grossezza di quel tempo le aveva recata adosso. Ma chi ardirà di dire, in quel tempo essersi trovato uno in ogni cosa perfetto? E che abbia ridotto le cose al termine di oggi e d'invenzione e di disegno e di colorito? E che abbia osservato lo sfuggire dolcemente delle figure con la scurità del colore, che i lumi siano rimasti solamente in sui rilievi, e similmente abbia osservato gli strafori e certe fini straordinarie nelle statue di marmo come in quelle si vede? Questa lode certo è tòcca alla terza età; nella quale mi par potere dir sicuramente che l'arte abbia fatto quello che ad una imitatrice della natura è lecito poter fare, e che ella sia salita tanto alto, che più presto si abbia a temere del calare a basso, che sperare oggimai più augumento.

Queste cose considerando io meco medesimo attentamente, giudico ch'e' sia una proprietà et una particolare natura di queste arti, le quali da uno umile principio vadino appoco appoco migliorando, e finalmente pervenghino al colmo della perfezzione. E questo me lo fa credere il vedere essere intervenuto quasi questo medesimo in altre facultà; che, per essere fra tutte le arti liberali un certo che di parentado, è non piccolo argumento che e' sia vero. Ma nella pittura e scultura in altri tempi debbe essere accaduto questo tanto simile, che, se e' si scambiassino insieme i nomi, sarebbono appunto i medesimi casi. Imperò che e' si vede (se e' si ha a dar fede a coloro che furono vicini a que' tempi, e potettono vedere e giudicare de le fatiche degli antichi) le statue di Canaco esser molto dure e senza vivacità o moto alcuno, e però assai lontane dal vero, e di quelle di Calamide si dice il medesimo, benché fussero alquanto più dolci che le predette. Venne poi Mirone, che non imitò affatto affatto la verità della natura, ma dette alle sue opere tanta proporzione e grazia che elle si potevono ragionevolmente chiamar belle. Successe nel terzo grado Policleto e gli altri tanto celebrati, i quali, come si dice e credere si debbe, interamente le fecero perfette. Questo medesimo progresso dovette accadere nelle pitture ancora, perché e' si dice, e verisimilmente si ha a pensare che fussi così, nell'opere di quelli che con un solo colore dipinsero, e però furon chiamati monocromati, non essere stata una gran perfezzione. Di poi nelle opere di Zeusi e di Polignoto e di Timante, o degli altri che solo ne messono in opera quattro, si lauda in tutto i lineamenti et i dintorni e le forme, e senza dubbio vi si doveva pure desiderare qualcosa. Ma poi in Erione, Nicomaco, Protogene et Apelle, è ogni cosa perfetta e bellissima, e non si può imaginar meglio, avendo essi dipinto non solo le forme e gli atti de' corpi eccellentissimamente, ma ancora gli affetti e le passioni dell'animo. Ma lasciando ire questi, che bisogna referirsene ad altri e molte volte non convengano i giudizii e, che è peggio, né [i] tempi, ancora che io in ciò seguiti i migliori autori, vegnamo a' tempi nostri, dove abbiamo l'occhio assai miglior guida e giudice che non è l'orecchio. Non si vede egli chiaro quanto miglioramento e acquisto fece, per cominciarsi da un capo, l'architettura da Buschetto greco ad Arnolfo tedesco et a Giotto? Vegghinsi le fabriche di que' tempi, i pilastri, le colonne, le base, i capitegli e tutte le cornici con i membri difformi, come n'è in Fiorenza in S. Maria del Fiore, e nell'incrostatura di fuori di S. Giovanni, a S. Miniato al Monte, nel Vescovado di Fiesole, al Duomo di Milano, a S. Vitale di Ravenna, a S. Maria Maggiore di Roma et al Duomo vecchio fuori d'Arezzo; dove, ecettuato quel poco di buono rimasto de' frammenti antichi, non vi è cosa che abbia ordine o fattezza buona. Ma quelli certo la migliorarono assai, e fece non poco acquisto sotto di loro; perché e' la ridussero a migliore proporzione, e fecero le lor fabbriche non solamente stabili e gagliarde, ma ancora in qualche parte ornate; certo è nientedimeno che gli ornamenti loro furono confusi e molto imperfetti, e per dirla così, non con grande ornamento; perché nelle colonne non osservarono quella misura e proporzione che richiedeva l'arte, né distinsero ordine che fusse più dorico, che corinto o ionico o toscano, ma alla mescolata con una loro regola senza regola, faccendole grosse grosse

o sottili sottili, come tornava lor meglio. E le invenzioni furono tutte, parte di lor cervello, parte del resto delle anticaglie vedute da loro. E facevano le piane parte cavate dal buono, parte agiuntovi lor fantasie, che rizzate con le muraglie avevano un'altra forma. Nientedimeno chi comparerà le cose loro a quelle dinanzi, vi vedrà migliore ogni cosa, e vedrà delle cose che [non] danno dispiacere in qualche parte a' tempi nostri, come sono alcuni tempietti di mattoni lavorati di stucchi a S. Ianni Laterano di Roma. Questo medesimo dico de la scultura, la quale in quella prima età della sua rinascita ebbe assai del buono, perché, fuggita la maniera goffa greca, ch'era tanto rozza che teneva ancora più della cava che dell'ingegno degli artefici, essendo quelle loro statue intere intere senza pieghe o attitudine o movenza alcuna, e proprio da chiamarsi statue, dove, essendo poi migliorato il disegno per Giotto, molti migliorarono ancora le figure de' marmi e delle pietre, come fece Andrea Pisano e Nino suo figliuolo, e gl'altri suoi discepoli che furon molto meglio che i primi, e storsono più le lor statue, e dettono loro migliore attitudine assai; come que' due sanesi Agostino et Agnolo, che feciono, come si è detto, la sepoltura di Guido vescovo di Arezzo, e que' Todeschi che feciono la facciata d'Orvieto. Vedesi, adunque, in questo tempo la scultura essersi un poco migliorata e dato qualche forma migliore alle figure, con più bello andar di pieghe di panni, e qualche testa con migliore aria, certe attitudini non tanto intere, et infine cominciato a tentare il buono; ma avere tutta volta mancato di infinite parti per non esser in quel tempo in gran perfezzione il disegno, né vedersi troppe cose di buono da potere imitare. Laonde que' maestri che furono in questo tempo, e da me son stati messi nella prima parte, meriteranno quella lode e d'esser tenuti in quel conto che meritano le cose fatte da loro, pur che si consideri, come anche quelle delli architetti e de' pittori di que' tempi, che non ebbono innanzi aiuto, et ebbono a trovare la via da per loro; et il principio, ancora che piccolo, è degno sempre di lode non piccola.

Non corse troppo miglior fortuna la pittura in questi tempi, se non che essendo allora più in uso per la divozione de' popoli, ebbe più artefici, e per questo fece più evidente progresso che quelle due. Così si vede che la maniera greca, prima col principio di Cimabue, poi con l'aiuto di Giotto, si spense in tutto e ne nacque una nuova la quale io volentieri chiamo maniera di Giotto, perché fu trovata da lui e da' suoi discepoli, e poi universalmente da tutti venerata et imitata. E si vede in questa levato via il proffilo che ricigneva per tutto le figure, e quegli occhi spiritati e' piedi ritti in punta e le mani aguzze et il non avere ombre et altre mostruosità di que' Greci, e dato una buona grazia nelle teste e morbidezza nel colorito. E Giotto in particolare fece migliori attitudini alle sue figure, e mostrò qualche principio di dare una vivezza alle teste, e piegò i panni che traevano più alla natura che non quegli innanzi, e scoperse in parte qualcosa de lo sfuggire e scortare le figure. Oltre a questo egli diede principio agli affetti che si conoscesse in parte il timore, la speranza, l'ira e lo amore; e ridusse a una morbidezza la sua maniera che prima era e ruvida e scabrosa; e se non fece gli occhi con quel bel girare che fa il vivo e con la fine de' suoi lagrimatoi et i capegli morbidi, e le barbe piumose, e le mani con quelle sue nodature e muscoli, e gli ignudi come il vero, scusilo la difficultà dell'arte et il non aver visto pittori migliori di lui. E pigli ognuno in quella povertà dell'arte e de' tempi, la bontà del giudizio nelle sue istorie, l'osservan-za dell'arie, e l'obedienza di un naturale molto facile, perché pur si vede che le figure obbedivano a quel che elle avevano a fare; e perciò si mostra che egli ebbe un giudizio molto buono, se non perfetto. E questo medesimo si vede poi negli altri, come in Taddeo Gaddi nel colorito, il quale è più dolce et ha più forza; e dette megliori incarnazioni e colore ne' panni, e più gagliardezza ne' moti alle sue figure. In Simon Sanese si vede il decoro nel compor le storie; in Stefano Scimmia et in Tommaso suo figliuolo, che arecarono grande utile e perfezzione al disegno, et invenzione alla prospettiva e lo sfumare et unire de' colori, riservando sempre la maniera di Giotto. Il simile feciono nella pratica e destrezza Spinello aretino, Parri suo figliuolo, Iacopo di Casentino, Antonio Veniziano, Lippo e Gherardo Starnini e gli altri pittori che lavorarono dopo Giotto, seguitando la sua aria, lineamento, colorito, maniera et ancora migliorandola qualche poco, ma non tanto però che e' paresse ch'e' la volessino tirare ad altro segno. Laonde chi considererà questo mio discorso vedrà queste tre arti fino qui essere state come dire abbozzate, e mancar loro assai di quella perfezzione che elle meritavano; e certo, se non veniva meglio, poco giovava questo miglioramento e non era da tenerne troppo conto. Né voglio che alcuno creda che io sia sì grosso, né di sì poco giudizio, che io non conosca che le cose di Giotto e di Andrea Pisano e Nino e degli altri tutti, che per la similitudine delle maniere ho messi insieme nella Prima Parte, se elle si compareranno a quelle di coloro che dopo loro hanno operato, non meriteranno lode straordinaria né anche mediocre; né è che io non abbia ciò veduto, quando io gli ho laudati. Ma chi considererà la qualità di que' tempi, la carestia degli artefici, la difficultà de' buoni aiuti, le terrà non belle, come ho detto io, ma miracolose, et arà piacere infinito di vedere i primi principii e quelle scintille di buono che nelle pitture e sculture cominciavono a risuscitare. Non fu certo la vittoria di Lucio Marzio in Spagna tanto grande, che molte non avessino i Romani delle maggiori. Ma avendo rispetto al tempo, al luogo, al caso, alla persona et al numero, ella fu tenuta stupenda et ancor oggi pur degna delle lodi, che infinite e grandissime le son date dagli scrittori. Così a me, per tutti i sopra detti rispetti, è parso che e' meritino non solamente d'essere scritti da me con diligenza, ma laudati con quello amore e sicurtà che io ho fatto. E penso che non sarà stato fastidioso a' miei artefici l'aver udite queste lor Vite e considerato le lor maniere e' lor modi: e ne ritrarranno forse non poco utile, il che mi sia carissimo e lo reputerò a buon premio delle mie fatiche, nelle quali non ho cerco altro che far loro, in quanto io ho potuto, utile e diletto.

Ora, poi che noi abbiamo levate da balia, per un modo di dir così fatto, queste tre arti, e cavatele da la fanciullezza, ne viene la seconda età, dove si vedrà infinitamente migliorato ogni cosa: e la invenzione più copiosa di figure, più ricca d'ornamenti, et il disegno più fondato e più naturale verso il vivo, et inoltre una fine nell'opre condotte con manco pratica, ma pensatamente con diligenza; la maniera più leggiadra, i colori più vaghi, in modo che poco ci resterà a ridurre ogni cosa al perfetto, e che elle imitino appunto la verità della natura. Perché prima con lo studio e con la diligenza del gran Filippo Brunelleschi l'architettura ritrovò le misure e le proporzioni degli antichi, così nelle colonne tonde come ne' pilastri quadri e nelle cantonate rustiche e pulite, et allora si distinse ordine per ordine e fecesi vedere la differenza che era tra loro. Ordinossi che le cose andassino per regola, seguitassino con più ordine, e fussino spartite con misura. Crebbesi la forza et il fondamento al disegno, e dettesi alle cose una buona grazia, e fecesi conoscere l'eccellen-zia di quella arte. Ritrovossi la bellezza e varietà de' capitelli e delle cornici, in tal modo che si vide le piante de' tempii e degli altri suoi edifizii esser benissimo intese, e le fabriche ornate, magnifiche e proporzionatissime, come si vede nella stupendissima machina della cupola di S. Maria del Fiore di Fiorenza, nella bellezza e grazia della sua lanterna, ne l'ornata, varia e graziosa chiesa di S. Spirito, e nel non manco bello di quella edifizio di S. Lorenzo, nella bizzarrissima invenzione del Tempio in otto facce degli Angioli, e nella ariosissima chiesa e convento della Badia di Fiesole, e nel magnifico e grandissimo principio del palazzo de' Pitti. Oltra il comodo e grande edifizio che Francesco di Giorgio fece nel palazzo e chiesa del Duomo di Urbino, et il fortissimo e ricco castello di Napoli, e lo inespugnabile castello di Milano, senza molte altre fabbriche notabili di quel tempo, et ancora che non ci fusse la finezza et una certa grazia esquisita et appunto nelle cornici, e certe pulitezze e leggiadrie nello intaccar le foglie e far certi stremi ne' fogliami, et altre perfezzioni che furon di poi, come si vedrà nella terza parte, dove seguiteranno quegli che faranno tutto quel di perfetto nella grazia, nella fine e nella copia e nella prestezza che non feceno gli altri architetti vecchi, nondimeno elle si possono sicuratamente chiamar belle e buone. Non le chiamo già perfette, perché, veduto poi meglio in questa arte, mi par potere ragionevolmente affermare che le mancava qualcosa. E se bene e' vi è qualche parte miracolosa e de la quale ne' tempi nostri per ancora non si è fatto meglio, né per avventura si farà in que' che verranno, come verbigrazia la lanterna della cupola di S. Maria del Fiore, e, per grandezza, essa cupola, dove non solo Filippo ebbe animo di paragonar gli antichi ne' corpi delle fabbriche, ma vincerli nella altezza delle muraglie, pur si parla universalmente in genere, e non si debbe da la perfezzione e bontà d'una cosa sola, argomentare l'eccellenza del tutto. Il che della pittura ancora dico e de la scultura, nelle quali si vede ancora oggi cose rarissime de' maestri di questa seconda età, come quelle di Masaccio nel Carmine, che fece uno ignudo che triema del freddo, et in altre pitture vivezze e spiriti; ma in genere e' non aggiunsono a la perfezzione de' terzi, de' quali parleremo al suo tempo, bisognandoci qui ragionare de' secondi; i quali per dire prima degli scultori, molto si allontanarono dalla maniera de' primi, e tanto la migliorarono, che lasciorno poco ai terzi. Et ebbono una lor maniera tanto più graziosa, più naturale, più ordinata, di più disegno e proporzione, che le loro statue cominciarono a parere presso che persone vive, e non più statue come le prime; come ne fanno fede quelle opere, che in quella rinovazione della maniera si lavorarono, come si vedrà in questa seconda parte, dove le figure di Iacopo della Quercia sanese hanno più moto e più grazia e più disegno e diligenza, quelle di Filippo più bel ricercare di muscoli e miglior proporzione e più giudizio, e così quelle de' loro discepoli. Ma più vi aggiunse Lorenzo Ghiberti nell'opera del-le porte di S. Giovanni, dove mostrò invenzione, ordine, maniera e disegno, che par che le sue figure si muovino et abbiano l'anima. Ma non mi risolvo in tutto, ancora che fussi ne' lor tempi Donato, se io me lo voglia metter fra i terzi, restando l'opre sua a paragone degli antichi buoni; dirò bene che in questa parte si può chiamar lui regola degli altri, per aver in sé solo le parti tutte che a una a una erano sparte in molti; poiché e' ridusse in moto le sue figure dando loro una certa vivacità e prontezza, che posson stare e con le cose moderne e, come io dissi, con le antiche medesimamente. Et il medesimo augumento fece in questo tempo la pittura, de la quale l'eccellentissimo Masaccio levò in tutto la maniera di Giotto, nelle teste, ne' panni, ne' casamenti, negli ignudi, nel colorito, negli scorti che egli rinovò, e messe in luce quella maniera moderna, che fu in que' tempi e sino a oggi è da tutti i nostri artefici seguitata e di tempo in tempo con miglior grazia, invenzione, ornamenti, arricchita et abbellita; come particularmente si vedrà nelle vite di ciascuno, e si conoscerà una nuova maniera di colorito, di scorci, d'attitudini naturali; e molto più espressi moti dell'animo et i gesti del corpo, con cercare di appressarsi più al vero delle cose naturali nel disegno; e le arie del viso che somigliassino interamente gli uomini, sì che fussino conosciuti per chi eglino erano fatti. Così cercaron far quel che vedevono nel naturale e non più; e così vennon ad esser più considerate e meglio intese le cose loro, e questo diede loro ardimento di metter regola alle prospettive e farle scortar appunto, come faccevano, di rilievo, naturali e in propria forma, e così andarono osservando l'ombre et i lumi, gli sbattimenti e le altre cose difficili, e le composizioni delle storie con più propria similitudine, e tentaron fare i paesi più simili al vero, e gli àlbori, l'erbe, i fiori, l'arie, i nuvoli et altre cose della natura, tanto che si potrà dire arditamente che queste arti sieno non solo allevate, ma ancora ridotte nel fiore della lor gioventù, e da sperare quel frutto che intervenne di poi, e che in breve elle avessino a venire a la loro perfetta età.

Daremo, adunque, con lo aiuto di Dio principio alla Vita di Iacopo della Quercia sanese, e poi agli altri architetti e scultori, fino a che perverremo a Masaccio; il quale, per essere stato primo a migliorare il disegno nella pittura, mostrerrà quanto obligo se gli deve per la sua nuova rinascita. E poi che ho eletto Iacopo sopra detto per onorato principio di questa Seconda Parte, seguitando l'ordine delle maniere, verrò aprendo sempre colle Vite medesime, la dificultà di sì belle, dificili et onoratissime arti.

IL FINE

VITA DI IACOPO DALLA QUERCIA

SCULTORE SANESE

Fu adunque Iacopo di maestro Piero di Filippo dalla Quercia, luogo del contado di Siena, scultore, il primo dopo Andrea Pisano, l'Orgagna e gl'altri di sopra nominati, che operando nella scultura con maggior studio e diligenza, cominciasse a mostrare che si poteva appressare alla natura, et il primo che desse animo e speranza agl'altri di poterla, in un certo modo, pareggiare. Le prime opere sue da mettere in conto, furono da lui fatte in Siena, essendo d'anni XIX, con questa occasione. Avendo i Sanesi l'essercito fuori contra i Fiorentini, sotto Gian Tedesco, nipote di Saccone da Pietramala, e Giovanni d'Azzo Ubaldini capitani, ammalò in campo Giovanni d'Azzo, onde, portato a Siena, vi si morì; per che, dispiacendo la sua morte ai Sanesi, gli feciono fare nell'essequie, che furono onoratissime, una capanna di legname a uso di piramide, e sopra quella porre di mano di Iacopo la statua di esso Giovanni a cavallo maggior del vivo, fatta con molto giudizio e con invenzione, avendo, il che non era stato fatto insino allora, trovato Iacopo, per condurre quell'opera, il modo di fare l'ossa del cavallo e della figura di pezzi di legno e di piane confitti insieme, e fasciati poi di fieno e di stoppa, e con funi legato ogni cosa strettamente insieme, e sopra messo terra mescolata con cimatura di panno lino, pasta e colla. Il qual modo di far fu veramente et è il miglior di tutti gl'altri per simili cose; perché, se bene l'opere, che in questo modo si fanno, sono in apparenza gravi, riescono nondimeno, poi che son fatte e secche, leggere e coperte di bianco, simili al marmo e molto vaghe all'occhio, sì come fu la detta opera di Iacopo. Al che si aggiugne, che le statue fatte a questo modo e con le dette mescolanze, non si fendono, come farebbono se fussero di terra schietta solamente. Et in questa maniera si fanno oggi i modelli delle sculture con grandissimo comodo degl'artefici che, mediante quelle, hanno sempre l'essempio inanzi e le giuste misure delle sculture che fanno; di che si deve avere non piccolo obligo a Iacopo che, secondo si dice, ne fu inventore. Fece Iacopo dopo questa opera in Siena due tavole di legno di tiglio, intagliando in quelle le figure, le barbe et i capegli, con tanta pacienza, che fu a vederle una maraviglia. E dopo queste tavole, che furono messe in Duomo, fece di marmo alcuni profeti non molto grandi che sono nella facciata del detto Duomo; nell'opera del quale avrebbe continuato di lavorare, se la peste, la fame e le discordie cittadine de' Sanesi, dopo aver più volte tumultuato, non avessero mal condotta quella città e cacciatone Orlando Malevolti, col favore del quale era Iacopo con riputazione adoperato nella patria.

Partito dunque da Siena, si condusse, per mezzo d'alcuni amici, a Lucca, e quivi a Paulo Guinigi, che n'era signore, fece per la moglie che poco inanzi era morta, nella chiesa di S. Martino una sepoltura, nel basamento della quale condusse alcuni putti di marmo che reggono un festone tanto pulitamente che parevano di carne, e nella cassa posta sopra il detto basamento fece con infinita diligenza l'immagine della moglie d'esso Paulo Guinigi che dentro vi fu sepolta, e a' piedi d'essa fece nel medesimo sasso un cane di tondo rilievo, per la fede da lei portata al marito. La qual cassa, partito

o più tosto cacciato che fu Paulo l'anno 1429 di Lucca, e che la città rimase libera, fu levata di quel luogo, e per l'odio che alla memoria del Guinigio portavano i Lucchesi, quasi del tutto rovinata. Pure la reverenza, che portarono alla bellezza della figura e di tanti ornamenti gli ratenne, e fu cagione che poco appresso la cassa e la figura furono con diligenza all'entrata della porta della sagrestia collocate, dove al presente sono e la capella del Guinigio fatta della comunità. Iacopo intanto, avendo inteso che in Fiorenza l'Arte de' Mercatanti di Calimara voleva dare a far di bronzo una delle porte del tempio di S. Giovanni, dove aveva la prima lavorato, come si è detto, Andrea Pisano, se n'era venuto a Fiorenza per farsi conoscere, atteso massimamente che cotale lavoro si doveva allogare a chi nel fare una di quelle storie di bronzo, avesse dato di sé e della virtù sua miglior saggio.

Venuto dunque a Fiorenza, fece non pur il modello, ma diede finita del tutto e pulita una molto ben condotta storia, la quale piacque tanto, che se non avesse avuto per concorrenti gli eccellentissimi Donatello e Filippo Brunelleschi, i quali in verità nei loro saggi lo superarono, sarebbe tocco a lui a far quel lavoro di tanta importanza. Ma essendo andata la bisogna altramente, egli se n'andò a Bologna, dove, col favore di Giovanni Bentivogli, gli fu dato a fare di marmo dagl'Operai di San Petronio, la porta principale di quella chiesa, la quale egli seguitò di lavorare d'ordine tedesco, per non alterare il modo, che già era stato cominciato, riempiendo dove mancava l'ordine de' pilastri che reggono la cornice e l'arco, di storie lavorate con infinito amore nello spazio di dodici anni che egli mise in quell'opera, dove fece di sua mano tutti i fogliami e l'ornamento di detta porta, con quella maggiore diligenza e studio che gli fu possibile. Nei pilastri che reggono l'architrave, la cornice e l'arco, sono cinque storie per pilastro e cinque nell'architrave, che in tutto son quindici. Nelle quali tutte intagliò di basso rilievo istorie del Testamento Vecchio, cioè da che Dio creò l'uomo insino al Diluvio e l'Arca di Noè, facendo grandissimo giovamento alla scultura, perché dagl'antichi insino allora non era stato chi avesse lavorato di basso rilievo alcuna cosa, onde era quel modo di fare più tosto perduto che smarrito. Nell'arco di questa porta fece tre figure di marmo, grandi quanto il vivo e tutte tonde, cioè una Nostra Donna, col Putto in collo, molto bella, San Petronio et un altro Santo molto ben disposti e con belle attitudini, onde i Bolognesi, che non pensavano che si potesse fare opera di marmo, non che migliore, eguale a quella che Agostino et Agnolo sanesi avevano fatto di maniera vecchia in San Francesco all'altar maggiore nella loro città, restarono ingannati vedendo questa di gran lunga più bella. Dopo la quale, essendo ricerco Iacopo di ritornare a Lucca, vi andò ben volentieri, e vi fece in San Friano, per Federigo di Maestro Trenta del Veglia, in una tavola di marmo, una Vergine col Figliuolo in braccio, San Bastiano, Santa Lucia, San Ieronimo e San Gismondo con buona maniera, grazia e disegno, e da basso nella predella di mezzo rilievo, sotto ciascun Santo alcuna storia della vita di quello, il che fu cosa molto vaga e piacevole, avendo Iacopo con bella arte fatto sfuggire le figure in su' piani, e nel diminuire più basse. Similmente diede molto animo agl'altri d'acqui-stare alle loro opere grazia e bellezza con nuovi modi, avendo in due lapide grandi, fatte di basso rilievo per due sepolture, ritratto di naturale Federigo padrone dell'opera e la moglie. Nelle quali lapide sono queste parole: “Hoc opus fecit Iacobus Magistri Petri de Senis 1422”.

Venendo poi Iacopo a Firenze, gl'Operai di Santa Maria del Fiore, per la buona relazione avuta di lui, gli diedero a fare di marmo il frontespizio, che è sopra la porta di quella chiesa la quale va alla Nunziata; dove egli fece in una mandorla la Madonna, la quale da un coro d'Angeli è portata, sonando eglino e cantando, in cielo con le più belle movenze e con le più belle attitudini, vedendosi che hanno moto e fierezza nel volare, che fussero insino allora state fatte mai. Similmente la Madonna è vestita con tanta grazia et onestà, che non si può immaginare meglio, essendo il girare delle pieghe molto bello e morbido, e vedendosi ne' lembi de' panni, che e' vanno accompagnando l'ignudo di quella figura, che scuopre coprendo ogni svoltare di membra. Sotto la quale Madonna è un San Tommaso che riceve la cintola. Insomma questa opera fu condotta in quattro anni da Iacopo con tutta quella maggior perfezione che a lui fu possibile, perciò che oltre al disiderio che aveva naturalmente di far bene, la concorrenza di Donato, di Filippo e di Lorenzo di Bartolo, de' quali già si vedevano alcune opere molto lodate, lo sforzarono anco da vantaggio a fare quello che fece; il che fu tanto, che anco oggi è dai moderni artefici guardata questa opera come cosa rarissima. Dall'altra banda della Madonna, dirimpetto a San Tomaso, fece Iacopo un orso che monta in sur un pero, sopra il quale capriccio, come si disse allora molte cose, così se ne potrebbe anco da noi dire alcune altre, ma le tacerò per lasciare a ognuno sopra cotale invenzione credere e pensare a suo modo.

Disiderando dopo ciò Iacopo di rivedere la patria, se ne tornò a Siena, dove, arrivato che fu, se gli porse, secondo il desiderio suo, occasione di lasciare in quella di sé qualche onorata memoria. Perciò che la Signoria di Siena, risoluta di fare un ornamento ricchissimo di marmi all'acqua che in sulla piazza avevano condotta Agnolo et Agostino Sanesi l'an-no 1343, allogarono quell'opera a Iacopo per prezzo di duemiladugento scudi d'oro, onde egli, fatto un modello e fatti venire i marmi, vi mise mano e la finì di fare con molta sodisfazione de' suoi cittadini, che non più Iacopo dalla Quercia, ma Iacopo dalla Fonte fu poi sempre chiamato. Intagliò dunque nel mezzo di questa opera la gloriosa Vergine Maria, avvocata particolare di quella città, un poco maggiore dell'altre figure, e con maniera graziosa e singolare. Intorno poi fece le sette virtù teologiche, le teste delle quali, che sono delicate e piacevoli, fece con bell'aria e con certi modi che mostrano che egli cominciò a trovare il buono [nel]le difficultà dell'arte et a dare grazia al marmo, levando via quella vecchiaia che avevano insino allora usato gli scultori, facendo le loro figure intere e senza una grazia al mondo; là dove Iacopo le fece morbide e carnose, e finì il marmo con pacienza e delicatezza. Fecevi, oltre ciò, alcune storie del Testamento Vecchio, cioè la creazione de' primi parenti et il mangiar del pomo vietato, dove nella figura della femmina si vede un'aria nel viso sì bella, et una grazia et attitudine della persona tanto reverente verso Adamo nel porgergli il pomo, che non pare che possa ricusarlo; senza il rimanente dell'opera, che è tutta piena di bellissime considerazioni et adornata di bellissimi fanciulletti et altri ornamenti di leoni e di lupe, insegne della città, condotti tutti da Iacopo con amore, pratica e giudizio in ispazio di dodici anni. Sono di sua mano similmente tre storie bellissime di bronzo, della vita di San Giovanbattista, di mezzo rilievo, le quali sono intorno al battesimo di San Giovanni, sotto il Duomo; et alcune figure ancora tonde e pur di bronzo, alte un braccio, che sono fra l'una e l'altra delle dette istorie, le quali sono veramente belle e degne di lode. Per queste opere, adunque, come eccellente e per la bontà della vita come costumato, meritò Iacopo essere dalla Signoria di Siena fatto cavaliere, e poco dopo Operaio del Duomo. Il quale uffizio esercitò di maniera che né prima né poi fu quell'opera meglio governata, avendo egli in quel Duomo, se bene non visse, poi che ebbe cotal carico avuto, se non tre anni, fatto molti acconcimi utili et onorevoli. E se bene Iacopo fu solamente scultore, disegnò nondimeno ragionevolmente, come ne dimostrano alcune carte da lui disegnate che sono nel nostro libro, le quali paiono più tosto di mano d'un miniatore che d'uno scultore. Et il ritratto suo, fatto come quello che di sopra si vede, ho avuto da maestro Domenico Beccafumi pittore sanese, il quale mi ha assai cose raccontato della virtù, bontà e gentilezza di Iacopo, il quale, stracco dalle fatiche e dal continuo lavorare, si morì finalmente di anni sessantaquattro et in Siena sua patria fu dagl'amici suoi e parenti, anzi da tutta la città pianto et onoratamente sotterrato. E nel vero non fu se non buona fortuna la sua, che tanta virtù fusse nella sua patria riconosciuta; poiché rade volte adiviene che i virtuosi uomini siano nella patria universalmente amati et onorati.

Fu discepolo di Iacopo Matteo, scultore lucchese, che nella sua città fece l'anno 1444 per Domenico Galigano lucchese, nella chiesa di San Martino, il tempietto a otto facce di marmo, dove è l'imagine di Santa Croce, scultura stata miracolosamente, secondo che si dice, lavorata da Niccodemo, uno de' settantadue discepoli del Salvatore; il quale tempio non è veramente se non molto bello e proporzionato. Fece il medesimo di scultura una figura d'un San Bastiano di marmo tutto tondo di braccia tre, molto bello, per essere stato fatto con buon disegno, con bella attitudine e lavorato pulitamente. È di sua mano ancora una tavola, dove in tre nicchie sono tre figure belle affatto, nella chiesa dove si dice essere il corpo di S. Regolo, e la tavola similmente che è in S. Michele, dove sono tre figure di marmo, e la statua parimente che è in sul canto della medesima chiesa dalla banda di fuori, cioè una Nostra Donna, che mostra che Matteo andò sforzandosi di paragonare Iacopo suo maestro.

Niccolò Bolognese ancora fu discepolo di Iacopo e condusse a fine, essendo imperfetta, divinamente fra l'altre cose, l'arca di marmo piena di storie e figure che già fece Nicola Pisano a Bologna, dove è il corpo di S. Domenico e ne riportò, oltre l'utile, questo nome d'onore, che fu poi sempre chiamato maestro Niccolò dell'Arca. Finì costui quell'opera l'anno 1460, e fece poi nella facciata del palazzo dove sta oggi il Legato di Bologna, una Nostra Donna di bronzo alta quattro braccia, e la pose su l'anno 1478. Insomma fu costui valente maestro e degno discepolo di Iacopo dalla Quercia sanese.

FINE DELLA VITA DI IACOPO SCULTORE SANESE

VITA DI NICCOLÒ ARETINO

SCULTORE

Fu ne' medesimi tempi e nella medesima facultà della scultura e quasi della medesima bontà nell'arte Niccolò di Piero, cittadino aretino, al quale quanto fu la natura liberale delle doti sue, cioè d'ingegno e di vivacità d'animo, tanto fu avara la fortuna de' suoi beni. Costui dunque, per essere povero compagno e per avere alcuna ingiuria ricevuta dai suoi più prossimi nella patria, si partì, per venirsene a Firenze, d'Arezzo, dove sotto la disciplina di maestro Moccio scultore sanese, il quale, come si è detto altrove, lavorò alcune cose in Arezzo, aveva con molto frutto atteso alla scultura, come che non fusse detto maestro Moccio molto eccellente. E così arrivato Niccolò a Firenze, da prima lavorò per molti mesi qualunche cosa gli venne alle mani, sì perché la povertà et il bisogno l'assassinavano e sì per la concorrenza d'alcuni giovani che con molto studio e fatica, gareggiando virtuosamente, nella scultura s'esercitavano. Finalmente, essendo dopo molte fatiche riuscito Niccolò assai buono scultore, gli furono fatte fare da gl'Operai di Santa Maria del Fiore, per lo campanile, due statue, le quali essendo in quello poste verso la canonica, mettono in mezzo quelle che fece poi Do-nato; e furono tenute, per non si essere veduto di tondo rilievo meglio, ragionevoli. Partito poi di Firenze per la peste dell'anno 1383, se n'andò alla patria; dove, trovando che per la detta peste gl'uomini della Fraternità di Santa Maria del-la Misericordia, della quale si è di sopra ragionato, avevano molti beni acquistato per molti lasci stati fatti da diverse persone della città, per la divozione che avevano a quel luogo pio et agl'uomini di quello, che senza tema di niuno pericolo, in tutte le pestilenze governano gl'infermi e sotterrano i morti, e che per ciò volevano fare la facciata di quel luogo di pietra bigia, per non avere commodità di marmi, tolse a fare quel luogo stato cominciato inanzi d'ordine tedesco, e lo condusse, aiutato da molti scarpellini da Settignano, a fine perfettamente, facendo di sua mano, nel mezzo tondo della facciata, una Madonna col Figliuolo in braccio, e certi Angeli che le tengono aperto il manto, sotto il quale pare che si riposi il popolo di quella città, per lo quale intercedono da basso in ginocchioni San Laurentino e Pergentino. In due nicchie, poi, che sono dalle bande, fece due statue di tre braccia l'una; cioè San Gregorio papa e San Donato vescovo e protettore di quella città, con buona grazia e ragionevole maniera. E per quanto si vede, aveva, quando fece queste opere, già fatto in sua giovanezza sopra la porta del Vescovado, tre figure grandi di terra cotta che oggi sono in gran parte state consumate dal ghiaccio; sì come è ancora un San Luca di macigno stato fatto dal medesimo mentre era giovanetto, e posto nella facciata del detto Vescovado. Fece similmente in Pieve, alla Capella di San Biagio, la figura di detto Santo di terra cotta, bellissima; e nella chiesa di S. Antonio, lo stesso Santo pur di rilievo, e di terra cotta, et un altro Santo a sedere sopra la porta dello spedale di detto luogo. Mentre faceva queste et alcune altre opere simili, rovinando per un terremuoto le mura del Borgo a San Sepolcro, fu mandato per Niccolò, acciò facesse, sì come fece con buon giudizio, il disegno di quella muraglia che riuscì molto meglio e più forte che la prima. E così, continuando di lavorare quando in Arezzo, quando ne' luoghi convicini, si stava Niccolò assai quietamente et agiato nella patria, quando la guerra, capital nimica di queste arti, fu cagione che se ne partì; perché essendo cacciati da Pietra Mala i figliuoli di Piero Saccone et il castello rovinato insino ai fondamenti, era la città d'Arezzo et il contado tutto sottosopra. Perciò, dunque, partitosi di quel paese, Niccolò se ne venne a Firenze, dove altre volte aveva lavorato; e fece per gl'Operai di S. Maria del Fiore una statua di braccia quattro di marmo, che poi fu posta alla porta principale di quel tempio, a man manca; nella quale statua, che è un Vangelista a sedere, mostrò Niccolò d'essere veramente valente scultore. E ne fu molto lodato non si essendo veduto insino allora, come si vide poi, alcuna cosa migliore tutta tonda e di rilievo. Essendo poi condotto a Roma di ordine di Papa Bonifazio IX, fortificò e diede miglior forma a Castel S. Agnolo, come migliore di tutti gl'ar-chitetti del suo tempo. E ritornato a Firenze, fece in sul canto d'Or San Michele, che è verso l'Arte della Lana, per i maestri di Zecca, due figurette di marmo, nel pilastro sopra la nicchia, dove è oggi il S. Matteo che fu fatto poi, le quali furono tanto ben fatte et in modo accomodate sopra la cima di quel tabernacolo, che furono allora e sono state sempre poi molto lodate. E parve che in quelle avanzasse Niccolò se stesso, non avendo mai fatto cosa migliore. Insomma elleno sono tali, che possono stare appetto ad ogni altra opera simile; onde n'acquistò tanto credito che meritò essere nel numero di coloro che furono in considerazione per fare le porte di bronzo di S. Giovanni; se bene, fatto il saggio, rimase a dietro e furono allogate, come si dirà al suo luogo, ad altri. Dopo queste cose, andatosene Niccolò a Milano, fu fatto capo nell'Opera del Duomo di quella città, e vi fece alcune cose di marmo che piacquero pur assai. Finalmente essendo dagl'Aretini richiamato alla patria, perché facesse un tabernacolo pel Sagramento, nel tornarsene gli fu forza fermarsi in Bologna e fare, nel convento de' frati Minori, la sepoltura di Papa Alessandro Quinto, che in quella città aveva finito il corso degl'anni suoi. E come che egli molto ricusasse quell'opera, non potette però non conscendere ai preghi di Messer Lionardo Bruni Aretino, che era stato molto favorito segretario di quel Pontefice. Fece dunque Niccolò il detto sepolcro, e vi ritrasse quel Papa di naturale. Ben è vero che per la incommodità de' marmi et altre pietre, fu fatto il sepolcro e gl'ornamenti di stucchi e di pietre cotte, e similmente la statua del Papa sopra la cassa, la quale è posta dietro al coro della detta chiesa. La quale opera finita, si ammalò Niccolò gravamente, e poco appresso si morì d'anni 67 e fu nella medesima chiesa sotterrato l'anno 1417. Et il suo ritratto fu fatto da Galasso ferrarese suo amicissimo, il quale dipigneva a que' tempi in Bologna a concorrenza di Iacopo e Simone pittori bolognesi e d'un Cristofano, non so se ferrarese, o come altri dicono, da Modena; i quali tutti dipinsono, in una chiesa, detta la Casa di Mezzo, fuor della porta di

S. Mammolo, molte cose a fresco. Cristofano fece da una banda da che Dio fa Adamo insino alla morte di Moisè, e Simone et Iacopo trenta storie, da che nasce Cristo insino alla cena che fece con i discepoli. E Galasso poi fece la Passione, come si vede al nome di ciascuno che vi è scritto da basso. E queste pitture furono fatte l'anno 1404. Dopo le quali fu dipinto il resto della chiesa, da altri maestri, di storie di Davitte re assai pulitamente. E nel vero queste così fatte pitture non sono tenute, se non a ragione, in molta stima dai Bolognesi, sì perché come vecchie sono ragionevoli, e sì perché il lavoro essendosi mantenuto fresco e vivace, merita molta lode. Dicono alcuni che il detto Galasso lavorò anco a olio, essendo vecchissimo, ma io né in Ferrara né in altro luogo, ho trovato altri lavori di suo, che a fresco. Fu discepolo di Galasso, Cosmè, che dipinse in S. Domenico di Ferrara una capella e gli sportelli che serrano l'organo del Duomo e molte altre cose che sono migliori che non furono le pitture di Galasso suo maestro. Fu Niccolò buon disegnatore, come si può vedere nel nostro libro, dove è di sua mano uno Evangelista e tre teste di cavallo, disegnate bene affatto.

FINE DELLA VITA DI NICCOLÒ ARETINO, etc.

VITA DI DELLO

PITTOR FIORENTINO

Se bene Dello fiorentino ebbe mentre visse et ha avuto sempre poi nome di pittore solamente, egli attese nondimeno anco alla scultura, anzi le prime opere sue furono di scultura, essendo che fece, molto inanzi che cominciasse a dipignere, di terra cotta, nell'arco che è sopra la porta della chiesa di S. Maria Nuova, una incoronazione di Nostra Donna e dentro in chiesa i dodici Apostoli; e nella chiesa de' Servi un Cristo morto in grembo alla Vergine et altr'opere assai per tutta la città. Ma vedendo (oltre che era capriccioso) che poco guadagnava in far di terra e che la sua povertà aveva di maggior aiuto bisogno, si risolvette, avendo buon disegno, d'attendere alla pittura, e gli riuscì agevolmente; perciò che imparò presto a colorire con buona pratica, come ne dimostrano molte pitture fatte nella sua città, e massimamente di figure piccole, nelle quali egli ebbe miglior grazia che nelle grandi assai. La qual cosa gli venne molto a proposito, perché, usandosi in que' tempi per le camere de' cittadini cassoni grandi di legname a uso di sepolture e con altre varie fogge ne' coperchi, niuno era che i detti cassoni non facesse dipignere; et oltre alle storie che si facevano nel corpo dinanzi e nelle teste, in sui cantoni e tallora altrove, si facevano fare l'arme o vero insegne delle casate. E le storie, che nel corpo dinanzi si facevano, erano per lo più di favole tolte da Ovidio e da altri poeti, o vero storie raccontate dagli istorici greci o latini, e similmente cacce, giostre, novelle d'amore et altre cose somiglianti, secondo che meglio amava ciascuno. Il didentro poi si foderava di tele o di drappi, secondo il grado e potere di coloro che gli facevano fare, per meglio conservarvi dentro le veste di drappo et altre cose preziose. E, che è più, si dipignevano in cotal maniera non solamente i cassoni, ma i lettucci, le spalliere, le cornici che ricignevano intorno e altri così fatti ornamenti da camera, che in que' tempi magnificamente si usavano, come infiniti per tutta la città se ne possono vedere. E per molti anni fu di sorte questa cosa in uso, che eziandio i più eccellenti pittori in così fatti lavori si esercitavano, senza vergognarsi, come oggi molti farebbono, di dipignere e mettere d'oro simili cose. E che ciò sia vero, si è veduto insino a' giorni nostri, oltre molti altri, alcuni cassoni, spalliere e cornici nelle camere del Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici, nei quali era dipinto di mano di pittori non mica plebei, ma eccellenti maestri, tutte le giostre, torneamenti, cacce, feste et altri spettacoli fatti ne' tempi suoi, con giudizio, con invenzione e con arte maravigliosa. Delle quali cose se ne veggiono, non solo nel palazzo e nelle case vecchie de' Medici, ma in tutte le più nobili case di Firenze ancora alcune reliquie. E ci so-no alcuni che attenendosi a quelle usanze vecchie, magnifiche veramente et orrevolissime, non hanno sì fatte cose leva-te per dar luogo agl'ornamenti et usanze moderne.

Dello, dunque, essendo molto pratico e buon pittore, e massimamente come si è detto in far pitture piccole con molta grazia, per molti anni, con suo molto utile et onore, ad altro non attese che a lavorare e dipignere cassoni, spalliere, lettucci et altri ornamenti della maniera che si è detto di sopra, intanto che si può dire ch'ella fusse la sua principale e propria professione. Ma perché niuna cosa di questo mondo ha fermezza, né dura lungo tempo, quantunque buona e lodevole, da quel primo modo di fare, assottigliandosi gl'ingegni, si venne non è molto a far ornamenti più ricchi et agl'in-tagli di noce messi d'oro che fanno ricchissimo ornamento, et al dipignere e colorire a olio in simili masserizie istorie bellissime, che hanno fatto e fanno conoscere così la magnificenza de' cittadini che l'usano, come l'eccellenza de' pittori. Ma per venire all'opere di Dello, il quale fu il primo che con diligenza e buona pratica in sì fatte opere si adoperasse, egli dipinse particolarmente a Giovanni de' Medici tutto il fornimento d'una camera che fu tenuto cosa veramente rara et in quel genere bellissima, come alcune reliquie che ancora ce ne sono, dimostrano. E Donatello, essendo giovanetto, dicono che gli aiutò, facendovi di sua mano con stucco, gesso, colla e matton pesto, alcune storie et ornamenti di basso rilievo, che poi messi d'oro, accompagnarono con bellissimo vedere le storie dipinte; e di questa opera e d'altre molte simili, fa menzione con lungo ragionamento Drea Cennini nella sua opera, della quale si è detto di sopra a bastanza; e perché di queste cose vecchie è ben fatto serbare qualche memoria, nel palazzo del signor Duca Cosimo n'ho fatto conservare alcune e di mano propria di Dello, dove sono e saranno sempre degne d'essere considerate, almeno per gl'abiti varii di que' tempi, così da uomini come da donne, che in esse si veggiono. Lavorò ancora Dello in fresco nel chiostro di S. Maria Novella in un cantone di verde terra la storia d'Isaac quando dà la benedizione a Esaù. E poco dopo questa opera, essendo condotto in Ispagna al servigio del Re, venne in tanto credito, che molto più disiderare da alcuno artefice non si sarebbe potuto. E se bene non si sa particolarmente che opere facesse in quelle parti essendone tornato richissimo et onorato molto, si può giudicare ch'elle fussero assai e belle e buone. Dopo qualche anno, essendo stato delle sue fatiche realmente rimunerato, venne capriccio a Dello di tornare a Firenze, per far vedere agl'amici come da estrema povertà fosse a gran ricchezze salito. Onde, andato per la licenza a quel Re, non solo l'ottenne graziosamente (come che volentieri l'arebbe ratenuto se fusse stato in piacere di Dello), ma per maggiore segno di gratitudine fu fatto da quel liberalissimo Re cavaliere; per che, tornando a Firenze per avere le bandiere e la confermazione de' privilegii, gli furono denegate per cagione di Filippo Spano degli Scolari che in quel tempo, come gran Siniscalco del Re d'Ungheria, tornò vittorioso de' Turchi. Ma avendo Dello scritto subitamente in Ispagna al Re, dolendosi di questa ingiuria, il Re scrisse alla Signoria in favore di lui sì caldamente, che gli fu senza contrasto conceduta la disiderata e dovuta onoranza. Dicesi che, tornando Dello a casa a cavallo con le bandiere, vestito di broccato et onorato dalla Signoria, fu proverbiato nel passare per Vacchereccia, dove allora erano molte botteghe d'orefici, da certi domestici amici che in gioventù l'avevano conosciuto, o per ischerno o per piacevolezza che lo facessero, e che egli rivolto dove aveva udito la voce, fece con ambe le mani le fiche e senza dire alcuna cosa passò via, sì che quasi nessuno se n'accorse, se non se quelli stessi che l'avevano uccellato. Per questo e per altri segni che gli fecero conoscere che nella patria non meno si adoperava contra di lui l'invidia che già s'avesse fatto la malignità quando era poverissimo, deliberò di tornarsene in Ispagna. E così, scritto et avuto risposta dal Re, se ne tornò in quelle parti, dove fu ricevuto con favore grande e veduto poi sempre volentieri e dove attese a lavorar e vivere come signore, dipignendo sempre da indi inanzi col grembiule di broccato.

Così, dunque, diede luogo all'invidia et appresso di quel Re onoratamente visse e morì d'anni quarantanove, e fu dal medesimo fatto sepellire onorevolmente con questo epifaffio:

Dellus eques Florentinus, picturae arte percelebris: Regisque Hispaniarum liberalitate et ornamentis amplissimus. H. S. E. S. T. T. L.

Non fu Dello molto buon disegnatore, ma fu bene fra i primi che cominciassero a scoprir con qualche giudizio i muscoli ne' corpi ignudi, come si vede in alcuni disegni di chiaro scuro fatti da lui nel nostro libro. Fu ritratto in S. Maria Novella da Paulo Ucelli di chiaro scuro, nella storia dove Noè è inebriato da Cam suo figliuolo.

FINE DELLA VITA DI DELLO PITTOR FIORENTINO

VITA DI NANNI D'ANTONIO DI BANCO

SCULTORE

Nanni d'Antonio di Banco, il quale, come fu assai ricco di patrimonio, così non fu basso al tutto di sangue, dilettandosi della scultura non solamente non si vergognò d'impararla e di esercitarla, ma se lo tenne a gloria non piccola, e vi fece dentro tal frutto che la sua fama durerà sempre, e tanto più sarà celebrata quanto si saprà che egli attese a questa nobile arte non per bisogno, ma per vero amore di essa virtù. Costui, il quale fu uno de' discepoli di Donato, se bene è da me posto inanzi al maestro perché morì molto inanzi a lui, fu persona alquanto tardetta, ma modesta, umile e benigna nella conversazione.

È di sua mano in Fiorenza il San Filippo di marmo che è in un pilastro di fuori dell'oratorio d'Or San Michele, la qual opera fu da prima allogata a Donato dall'Arte de' Calzolai, e poi, per non essere stati con esso lui d'accordo del prezzo, riallogata, quasi per far dispetto a Donato, a Nanni, il quale promise che si pigliarebbe quel pagamento e non altro che essi gli darebbono. Ma la bisogna non andò così, perché, finita la statua e condotta al suo luogo, domandò del-l'opera sua molto maggior prezzo che non aveva fatto da principio Donato; per che, rimessa la stima di quella dall'una parte e l'altra in Donato, credevano al fermo i consoli di quell'arte che egli per invidia, non l'avendo fatta, la stimasse molto meno che s'ella fusse sua opera; ma rimasero della loro credenza ingannati, perciò che Donato giudicò che a Nanni fusse molto più pagata la statua che egli non aveva chiesto. Al qual giudizio non volendo in modo niuno starsene i Consoli, gridando dicevano a Donato: “Perché tu, che facevi questa opera per minor prezzo, la stimi più essendo di man d'un altro e ci strigni a dargliene più che egli stesso non chiede? E pur conosci, sì come noi altresì facciamo, ch'el-la sarebbe delle tue mani uscita molto migliore”. Rispose Donato ridendo: “Questo buon uomo non è nell'arte quello che sono io, e dura nel lavorare molto più fatica di me, però sete forzati volendo sodisfarlo, come uomini giusti che mi parete, pagarlo del tempo che vi ha speso”.

E così ebbe effetto il lodo di Donato, nel quale n'avevano fatto compromesso d'accordo ambe le parti. Questa opera posa assai bene e ha buona grazia e vivezza nella testa; i panni non sono crudi e non sono se non bene indosso alla figura accommodati. Sotto questa nicchia sono in un'altra quattro Santi di marmo, i quali furono fatti fare al medesimo Nanni dall'Arte de' Fabbri, Legnaiuoli e Muratori; e si dice che, avendoli finiti tutti tondi e spiccati l'uno dall'altro e murata la nicchia, che a mala fatica non ve ne entravano dentro se non tre, avendo egli nell'attitudini loro ad alcuni aperte le braccia, e che disperato e malcontento, pregò Donato che volesse col consiglio suo riparare alla disgrazia e poca avvertenza sua, e che Donato ridendosi del caso disse: “Se tu prometti di pagare una cena a me et a tutti i miei giovani di bottega, mi dà il cuore di fare entrare i Santi nella nicchia senza fastidio nessuno”. Il che avendo Nanni promesso di fa-re ben volentieri, Donato lo mandò a pigliare certe misure a Prato et a fare alcuni altri negozii di pochi giorni. E così essendo Nanni partito, Donato con tutti i suoi discepoli e garzoni andatosene al lavoro, scantonò a quelle statue, a che le spalle et a chi le braccia talmente, che facendo luogo l'una all'altra le accostò insieme, facendo apparire una mano sopra le spalle di una di loro. E così il giudizio di Donato avendole unitamente commesse, ricoperse di maniera l'errore di Nanni che, murate ancora in quel luogo, mostrano indizii manifestissimi di concordia e di fratellanza; e chi non sa la cosa non si accorge di quello errore. Nanni, trovato nel suo ritorno che Donato aveva corretto il tutto e rimediato a ogni disordine, gli rendette grazie infinite, et a lui e suoi creati pagò la cena di bonissima voglia. Sotto i piedi di questi quattro santi, nell'ornamento del tabernacolo, è nel marmo di mezzo rilievo una storia, dove uno scultore fa un fanciullo molto pronto et un maestro che mura con due che l'aiutano; e queste tutte figurine si veggiono molto ben disposte et attente a quello che fanno.

Nella faccia di S. Maria del Fiore è di mano del medesimo, dalla banda sinistra, entrando in chiesa per la porta del mezzo, uno evangelista che, secondo que' tempi, è ragionevole figura. Stimasi che il Santo Lò, che è intorno al detto oratorio d'Or San Michele, stato fatto fare dall'Arte de' Maniscalchi, sia di mano del medesimo Nanni, e così il taberna-colo di marmo, nel basamento del quale è da basso in una storia S. Lò maniscalco che ferra un cavallo indemoniato, tanto ben fatto che ne meritò Nanni molta lode. Ma in altre opere l'averebbe molto maggiore meritata e conseguita, se non si fusse morto, come fece, giovane. Fu nondimeno per queste poche opere tenuto Nanni ragionevole scultore; e perché era cittadino ottenne molti uffici nella sua patria Fiorenza, e perché in quelli et in tutti gl'altri affari si portò come giusto uomo e ragionevole, fu molto amato. Morì di mal di fianco l'anno 1430, e di sua età XLVII.

FINE DELLA VITA DI NANNI D'ANTONIO DI BANCO

VITA DI LUCA DELLA ROBBIA

SCULTORE

Nacque Luca della Robbia scultore fiorentino l'anno 1388 nelle case de' suoi antichi, che sono sotto la chiesa di S. Bernaba in Fiorenza, e fu in quelle alevato costumatamente insino a che non pure leggere e scrivere, ma far di conto ebbe, secondo il costume de' più de' Fiorentini, per quanto gli faceva bisogno, apparato. E dopo fu dal padre messo a imparare l'arte dell'orefice con Lionardo di ser Giovanni tenuto allora in Fiorenza il miglior maestro che fusse di quel-l'arte. Sotto costui adunque avendo imparato Luca a disegnare et a lavorare di cera, cresciutogli l'animo si diede a fare alcune cose di marmo e di bronzo; le quali, essendogli riuscite assai bene, furono cagione che, abbandonato del tutto il mestier dell'orefice, egli si diede di maniera alla scultura, che mai faceva altro che tutto il giorno scarpellare e la notte disegnare; e ciò fece con tanto studio, che molte volte, sentendosi di notte aghiadare i piedi, per non partirsi dal disegno, si mise per riscaldargli a tenerli in una cesta di bruscioli, cioè di quelle piallature che i lignaiuoli levano dall'asse quando con la pialla le lavorano. Né io di ciò mi maraviglio punto, essendo che niuno mai divenne in qualsivoglia esercizio eccellente, il quale e caldo e gelo e fame e sete et altri disagi non cominciasse ancor fanciullo a sopportare, laonde sono coloro del tutto ingannati, i quali si avisano di potere negl'agi e con tutti i commodi del mondo ad onorati gradi pervenire; non dormendo, ma vegghiando e studiando continuamente s'acquista. Aveva a malapena quindici anni Luca, quando, insieme con altri giovani scultori, fu condotto in Arimini, per fare alcune figure et altri ornamenti di marmo a Sigismondo di Pandolfo Malatesti signore di quella città, il quale allora nella chiesa di S. Francesco faceva fare una ca-pella, e per la moglie sua, già morta, una sepoltura; nella quale opera diede onorato saggio del saper suo Luca in alcuni bassi rilievi che ancora vi si veggiono, prima che fusse dagl'Operai di S. Maria del Fiore richiamato a Firenze, dove fece, per lo campanile di quella chiesa, cinque storiette di marmo, che sono da quella parte che è verso la chiesa, le quali mancavano, secondo il disegno di Giotto, a canto a quelle dove sono le scienze et arti, che già fece, come si è detto, Andrea Pisano. Nella prima Luca fece Donato che insegna la gramatica; nella seconda Platone et Aristotile per la filosofia; nella terza uno che suona un liuto, per la musica; nella quarta un Tolomeo per l'astrologia e nella quinta Euclide per la geometria; le quali storie per pulitezza, grazia e disegno avanzarono d'assai le due fatte da Giotto, come si disse, dove in una per la pittura Apelle dipigne e nell'altra Fidia per la scultura lavora con lo scarpello. Per lo che i detti Operai, che oltre ai meriti di Luca furono a ciò fare persuasi da Messer Vieri de' Medici, allora gran cittadino popolare, il quale molto amava Luca, gli diedero a fare l'anno 1405 l'ornamento di marmo dell'organo che grandissimo faceva allora far l'Opera, per metterlo sopra la porta della sagrestia di detto tempio. Della quale opera fece Luca nel basamento in alcune storie, i cori della musica che in varii modi cantano; e vi mise tanto studio e così bene gli riuscì quel lavoro, che, ancora che sia alto da terra sedici braccia, si scorge il gonfiare delle gole di chi canta, il battere delle mani da chi regge la musica in sulle spalle de' minori, et insomma diverse maniere di suoni, canti, balli et altre azzioni piacevoli che porge il diletto della musica. Sopra il cornicione poi di questo ornamento, fece Luca due figure di metallo dorate, cioè due Angeli nudi, condotti molto pulitamente, sì come è tutta l'opera, che fu tenuta cosa rara; se bene Donatello, che poi fece l'ornamento dell'altro organo che è dirimpetto a questo, fece il suo con molto più giudizio e pratica che non aveva fatto Luca, come si dirà al luogo suo, per avere egli quell'opera condotta quasi tutta in bozze e non finita pulitamente, acciò che apparisse di lontano assai meglio, come fa, che quella di Luca, la quale, se bene è fatta con buon disegno e diligenza, ella fa nondimeno con la sua pulitezza e finimento, che l'occhio per la lontananza la perde e non la scorge bene come si fa quella di Donato, quasi solamente abbozzata. Alla quale cosa deono molto avere avvertenza gl'artefici perciò che la sperienza fa conoscere che tutte le cose che vanno lontane, o siano pitture o siano sculture o qualsivoglia altra somigliante cosa, hanno più fierezza e maggior forza se sono una bella bozza che se sono finite; et oltre che la lontananza fa questo effetto, pare anco che nelle bozze molte volte, nascendo in un subito dal furore dell'arte, si sprima il suo concetto in pochi colpi, e che per contrario lo stento e la troppa diligenza alcuna fiata toglia la forza et il sapere a coloro che non sanno mai levare le mani dall'opera che fanno. E chi sa che l'arti del disegno, per non dir la pittura solamente, sono alla poesia simili, sa ancora che come le poesie dettate dal furore poetico sono le vere e le buone e migliori che le stentate, così l'opere degli uomini eccellenti nell'arti del disegno sono migliori quando sono fatte a un tratto dalla forza di quel furore, che quando si vanno ghiribizzando a poco a poco con istento e con fatica; e chi ha da principio, come si dee avere, nella idea quello che vuol fare, camina sempre risoluto alla perfezzione con molta agevolezza. Tuttavia, perché gl'ingegni non sono tutti d'una stampa, sono alcuni ancora, ma rari, che non fanno bene se non adagio, e per tacere de' pittori, fra i poeti si dice che il reverendissimo e dottissimo Bembo penò tallora a fare un sonetto molti mesi e forse anni, se a coloro si può creder che l'affermano; il che non è gran fatto che avvenga alcuna volta ad alcuni uomini delle nostre arti; ma per lo più è la regola in contrario, come si è detto di sopra; come che il volgo migliore giudichi una certa delicatezza esteriore et apparente, che poi manca nelle cose essenziali, ricoperte dalla diligenza che il buono fatto con ragione e giudizio, ma non così di fuori ripulito e lisciato.

Ma per tornare a Luca, finita la detta opera che piacque molto, gli fu allogata la porta di bronzo della detta sagrestia, nella quale scompartì in dieci quadri, cioè in cinque per parte, con fare in ogni quadratura delle cantonate, nell'orna-mento, una testa d'uomo; et in ciascuna testa variò, facendovi giovani, vecchi, di mezza età, e chi con la barba e chi raso, et insomma in diversi modi tutti belli in quel genere, onde il telaio di quell'opera ne restò ornatissimo. Nelle storie poi de' quadri fece, per cominciarmi di sopra, la Madonna col Figliuolo in braccio con bellissima grazia, e nell'altro Iesù Cristo che esce del sepolcro; di sotto a questi, in ciascuno dei primi quattro quadri, è una figura, cioè un Evangelista, e sotto questi i quattro Dottori della Chiesa, che in varie attitudini scrivono. E tutto questo lavoro è tanto pulito e netto, che è una maraviglia, e fa conoscere che molto giovò a Luca essere stato orefice. Ma perché, fatto egli conto dopo queste opere di quanto gli fusse venuto nelle mani e del tempo che in farle aveva speso, conobbe che pochissimo aveva avanzato e che la fatica era stata grandissima, si risolvette di lasciare il marmo et il bronzo e vedere se maggior frutto potesse altronde cavare. Per che, considerando che la terra si lavorava agevolmente con poca fatica, e che mancava solo trovare un modo mediante il quale l'opere che in quella si facevano si potessono lungo tempo conservare, andò tanto ghiribizzando che trovò modo da diffenderle dall'ingiurie del tempo; per che, dopo avere molte cose esperimentato, trovò che il dar loro una coperta d'invetriato addosso, fatto con stagno, terra ghetta, antimonio et altri minerali e misture, cotte al fuoco d'una fornace a posta, faceva benissimo questo effetto e faceva l'opere di terra quasi eterne. Del quale modo di fare, come quello che ne fu inventore, riportò lode grandissima e gliene averanno obligo tutti i secoli che verranno. Essendogli dunque riuscito in ciò tutto quello che disiderava, volle che le prime opere fussero quelle che sono nell'arco che è sopra la porta di bronzo, che egli sotto l'organo di S. Maria del Fiore aveva fatta per la sagrestia; nelle quali fece una Resurrezzione di Cristo tanto bella in quel tempo che, posta su, fu come cosa veramente rara ammirata. Da che mossi i detti Operai, vollono che l'arco della porta dell'altra sagrestia, dove aveva fatto Donatello l'ornamento di quell'altro organo, fusse nella medesima maniera da Luca ripieno di simili figure et opere di terra cotta; onde Luca vi fece un Gesù Cristo che ascende in cielo, molto bello.

Ora, non bastando a Luca questa bella invenzione tanto vaga e tanto utile, e massimamente per i luoghi dove sono acque e dove per l'umido o altre cagioni non hanno luogo le pitture, andò pensando più oltre, e, dove faceva le dette opere di terra semplicemente bianche, vi aggiunse il modo di dare loro il colore, con maraviglia e piacere incredibile d'ognuno; onde il Magnifico Piero di Cosimo de' Medici, fra i primi che facessero lavorar a Luca cose di terra colorite, gli fece fare tutta la volta in mezzo tondo d'uno scrittoio, nel palazzo edificato, come si dirà, da Cosimo suo padre, con varie fantasie, et il pavimento similmente, che fu cosa singolare e molto utile per la state. Et è certo una maraviglia, che essendo la cosa allora molto difficile e bisognando avere molti avvertimenti nel cuocere la terra, che Luca conducesse questi lavori a tanta perfezzione, che così la volta come il pavimento paiono, non di molti, ma d'un pezzo solo. La fama delle quali opere spargendosi non pure per Italia, ma per tutta l'Europa, erano tanti coloro che ne volevano, che i mercatanti fiorentini, facendo continuamente lavorare a Luca con suo molto utile, ne mandavano per tutto il mondo. E perché egli solo non poteva al tutto suplire, levò dallo scarpello Ottaviano et Agostino suoi fratelli e gli mise a fare di questi lavori, nei quali egli insieme con esso loro guadagnavano molto più, che insino allora con lo scarpello fatto non avevano; perciò che, oltre all'opere che di loro furono in Francia et in Ispagna mandate, lavorarono ancora molte cose in Toscana, e particularmente al detto Piero de' Medici, nella chiesa di S. Miniato a Monte, la volta della capella di marmo che posa sopra quattro colonne nel mezzo della chiesa, facendovi un partimento d'ottangoli bellissimo. Ma il più notabile lavoro che in questo genere uscisse delle mani loro, fu, nella medesima chiesa, la volta della capella di S. Iacopo, dove è sotterrato il cardinale di Portogallo, nella quale, se bene è senza spigoli, fecero in quattro tondi ne' cantoni i quattro Evangelisti, e nel mezzo della volta in un tondo lo Spirito Santo, rimpiendo il resto de' vani a scaglie che girano secondo la volta e diminuiscono a poco a poco insino al centro, di maniera che non si può in quel genere veder meglio, né cosa murata e commessa con più diligenza di questa. Nella chiesa poi di S. Piero Buon Consiglio sotto Mercato Vecchio, fece in un archetto sopra la porta la Nostra Donna con alcuni Angeli intorno molto vivaci, e sopra una porta d'una chiesina vicina a S. Pier Maggiore, in un mezzo tondo, un'altra Madonna et alcuni Angeli che sono tenuti bellissimi. E nel capitolo similmente di S. Croce, fatto dalla famiglia de' Pazzi e d'ordine di Pippo di ser Brunellesco, fece tutti gl'invetriati di figure che dentro e fuori vi si veggiono. Et in Ispagna si dice che mandò Luca al Re alcune figure di tondo rilievo molto belle insieme con alcuni lavori di marmo. Per Napoli ancora fece, in Fiorenza, la sepoltura di marmo all'Infante fratello del Duca di Calavria, con molti ornamenti d'invetriati, aiutato da Agostino suo fratello.

Dopo le quali cose, cercò Luca di trovare il modo di dipignere le figure e le storie in sul piano di terra cotta, per dar vita alle pitture, e ne fece sperimento in un tondo, che è sopra il tabernacolo de' quattro Santi intorno a Or San Michele, nel piano del quale fece in cinque luoghi gl'istrumenti et insegne dell'arti de' fabricanti, con ornamenti bellissimi. E due altri tondi fece nel medesimo luogo di rilievo, in uno per l'Arte degli Speziali una Nostra Donna e nell'altro, per la Mercatanzia, un giglio sopra una balla, che ha intorno un festone di frutti e foglie di varie sorti, tanto ben fatte che paiono naturali e non di terra cotta dipinta. Fece ancora, per Messer Benozzo Federighi, vescovo di Fiesole, nella chiesa di S. Brancazio, una sepoltura di marmo, e sopra quella esso Federigo a giacere ritratto di naturale e tre altre mezze figure; e nell'ornamento de' pilastri di quell'opera dipinse nel piano certi festoni a mazzi di frutti e foglie sì vive e naturali che col pennello in tavola non si farebbe altrimenti a olio; et invero questa opera è maravigliosa e rarissima avendo in essa Luca fatto i lumi e l'ombre tanto bene, che non pare quasi che a fuoco ciò sia possibile. E se questo artefice fusse vivuto più lungamente che non fece, si sarebbono anco vedute maggior cose uscire delle sue mani; perché, poco prima che morisse, aveva cominciato a fare storie e figure dipinte in piano, delle quali vidi già io alcuni pezzi in casa sua, che mi fanno credere che ciò gli sarebbe agevolmente riuscito, se la morte, che quasi sempre rapisce i migliori quando sono per fare qualche giovamento al mondo, non l'avesse levato, prima che bisogno non era, di vita.

Rimase, dopo Luca, Ottaviano et Agostino suoi fratelli e d'Agostino nacque un altro Luca, che fu ne' suoi tempi litteratissimo. Agostino dunque, seguitando dopo Luca l'arte, fece in Perugia l'anno 1461 la facciata di S. Bernardino e dentrovi tre storie di basso rilievo e quattro figure tonde molto ben condotte e con delicata maniera. Et in questa opera pose il suo nome con queste parole: Augustini florentini lapicidae.

Della medesima famiglia, Andrea nipote di Luca lavorò di marmo benissimo, come si vede nella capella di S. Maria delle Grazie fuor d'Arezzo, dove per la comunità fece in un grande ornamento di marmo molte figurette e tonde e di mezzo rilievo, in un ornamento, dico, a una Vergine di mano di Parri di Spinello Aretino. Il medesimo fece di terra cotta, in quella città, la tavola della capella di Puccio di Magio in S. Francesco, e quella della Circoncisione per la famiglia de' Bacci. Similmente in S. Maria in Grado è di sua mano una tavola bellissima con molte figure, e nella compagnia della Trinità, all'altar maggiore, è di sua mano, in una tavola, un Dio Padre che sostiene con le braccia Cristo crucifisso circondato da una moltitudine d'angeli, e da basso San Donato e S. Bernardo ginocchioni. Similmente nella chiesa et in altri luoghi del Sasso della Vernia fece molte tavole che si sono mantenute in quel luogo deserto, dove niuna pittura, né anche pochissimi anni si sarebbe conservata. Lo stesso Andrea lavorò in Fiorenza tutte le figure che sono nella loggia dello spedale di S. Paulo, di terra invetriata, che sono assai buone, e similmente i putti, che fasciati e nudi sono fra un arco e l'altro ne' tondi della loggia dello spedale degl'Innocenti, i quali tutti sono veramente mirabili e mostrano la gran virtù et arte d'Andrea; senza molte altre, anzi infinite, opere che fece nello spazio della sua vita, che gli durò anni ottantaquattro. Morì Andrea l'anno 1528 et io, essendo ancor fanciullo, parlando con esso lui gli udii dire, anzi gloriarsi, d'essersi trovato a portar Donato alla sepoltura; e mi ricorda che quel buon vecchio di ciò ragionando n'aveva vanagloria.

Ma per tornare a Luca, egli fu con gl'altri suoi sepellito in San Pier Maggiore, nella sepoltura di casa loro; e dopo lui nella medesima fu riposto Andrea, il qual lasciò due figliuoli frati in San Marco stati vestiti dal reverendo fra' Girolamo Savonarola, del quale furono sempre que' della Robbia molto divoti, e lo ritrassero in quella maniera che ancora oggi si vede nelle medaglie. Il medesimo, oltre i detti due frati, ebbe tre altri figliuoli: Giovanni, che attese all'arte e che ebbe tre figliuoli, Marco, Lucantonio e Simone che morirno di peste l'anno 1527 essendo in buona espettazione; e Luca e Girolamo, che attesono alla scultura; de' quali due, Luca fu molto diligente negl'invetriati e fece di sua mano, oltre a molte altre opere, i pavimenti delle logge papali, che fece fare in Roma, con ordine di Raffaello da Urbino, papa Leone Decimo, e quelli ancora di molte camere dove fece l'imprese di quel Pontefice; Girolamo, che era il minore di tutti, attese a lavorare di marmo e di terra e di bronzo, e già era per la concorrenza di Iacopo Sansovino, Baccio Bandinelli et altri maestri de' suoi tempi, fattosi valente uomo, quando da alcuni mercatanti fiorentini fu condotto in Francia, dove fece molte opere per lo re Francesco a Madrì, luogo non molto lontano da Parigi, e particolarmente un palazzo con molte figure et altri ornamenti, d'una pietra che è come fra noi il gesso di Volterra, ma di miglior natura perché è tenera quando si lavora e poi col tempo diventa dura. Lavorò ancora di terra molte cose in Orliens e per tutto quel regno fece opere, acquistandosi fama e bonissime facultà. Dopo queste cose, intendendo che in Fiorenza non era rimaso se non Luca suo fratello, trovandosi ricco e solo al servigio del re Francesco, condusse ancor lui in quelle parti, per lasciarlo in credito e buono aviamento; ma il fatto non andò così, perché Luca in poco tempo vi si morì, e Girolamo di nuovo si trovò solo e senza nessuno de' suoi; per che, risolutosi di tornare a godersi nella patria le ricchezze che si aveva con fatica e sudore guadagnate, et anco lasciare in quella qualche memoria, si acconciava a vivere in Fiorenza l'anno 1553, quando fu quasi forzato mutar pensiero; perché, vedendo il Duca Cosimo, dal quale sperava dovere essere con onor adoperato, occupato nella guerra di Siena, se ne tornò a morire in Francia. E la sua casa non solo rimase chiusa e la famiglia spenta, ma restò l'arte priva del vero modo di lavorare gl'invetriati, perciò che, se bene dopo loro si è qualcuno esercitato in quella sorte di scultura, non è però niuno già mai a gran pezza arivato all'eccellenza di Luca vecchio, d'Andrea e degl'altri di quella famiglia.

Onde, se io mi sono disteso in questa materia forse più che non pareva che bisognasse, scusimi ognuno, poiché l'a-vere trovato Luca queste nuove sculture, le quali non ebbero, che si sappia, gl'antichi Romani, richiedeva che, come ho fatto, se ne ragionasse allungo. E se, dopo la vita di Luca vecchio, ho succintamente detto alcune cose de' suoi descendenti che sono stati insino a' giorni nostri, ho così fatto per non avere altra volta a rientrare in questa materia. Luca dunque, passando da un lavoro ad un altro, e dal marmo al bronzo e dal bronzo alla terra, ciò fece non per infingardagine, né per essere, come molti sono, fantastico, instabile e non contento dell'arte sua, ma perché si sentiva dalla natura tirato a cose nuove, e dal bisogno a uno essercizio secondo il gusto suo e di manco fatica e più guadagno. Onde ne venne arricchito il mondo e l'arti del disegno d'un'arte nuova, utile e bellissima, et egli di gloria e lode immortale e perpetua.

Ebbe Luca bonissimo disegno e grazioso, come si può vedere in alcune carte del nostro libro, lumeggiate di biacca; in una delle quali è il suo ritratto fatto da lui stesso, con molta diligenza, guardandosi in una spera.

IL FINE DELLA VITA DI LUCA DELLA ROBBIA SCULTORE

VITA DI PAULO UCCELLO

PITTOR FIORENTINO

Paulo Uccello sarebbe stato il più leggiadro e capriccioso ingegno che avesse avuto, da Giotto in qua, l'arte della pittura se egli si fusse affaticato tanto nelle figure et animali, quanto egli si affaticò e perse tempo nelle cose di prospettiva; le quali ancor che sieno ingegnose e belle, chi le segue troppo fuor di misura, getta il tempo dietro al tempo, affatica la natura, e l'ingegno empie di difficultà, e bene spesso di fertile e facile lo fa tornar sterile e difficile, e se ne cava (da chi più attende a lei che alle figure) la maniera secca e piena di proffili; il che genera il voler troppo minutamente tritar le cose; oltre che bene spesso si diventa solitario, strano, malinconico e povero, come Paulo Uccello, il quale, do-tato dalla natura d'uno ingegno sofistico e sottile, non ebbe altro diletto che d'investigare alcune cose di prospettiva difficili et impossibili, le quali, ancor che capricciose fussero e belle, l'impedirono nondimeno tanto nelle figure, che poi, invecchiando, sempre le fece peggio. E non è dubbio che chi con gli studii troppo terribili violenta la natura, se ben da un canto egli assottiglia l'ingegno, tutto quel che fa non par mai fatto con quella facilità e grazia, che naturalmente fanno coloro che temperatamente, con una considerata intelligenza piena di giudizio, mettono i colpi a' luoghi loro, fuggendo certe sottilità, che più presto recano a dosso all'opere un non so che di stento, di secco, di difficile e di cattiva maniera, che muove a compassione chi le guarda, più tosto che a maraviglia; atteso che l'ingegno vuol essere affaticato quando l'intelletto ha voglia di operare, e che 'l furore è acceso, perché allora si vede uscirne parti eccellenti e divini, e concetti maravigliosi. Paulo dunque andò, senza intermettere mai tempo alcuno, dietro sempre alle cose dell'arte più difficili; tanto che ridusse a perfezzione il modo di tirare le prospettive dalle piante de' casamenti e da' profili degli edifizii condotti in sino alle cime delle cornici e de' tetti, per via dell'intersecare le linee, facendo che le scortassino e diminuissino al centro, per aver prima fermato o alto o basso, dove voleva, la veduta dell'occhio; e tanto insomma si adoperò in queste difficultà, che introdusse via modo e regola di mettere le figure in su' piani dove elle posano i piedi e di mano in mano dove elle scortassino e diminuendo a proporzione sfuggissino, il che prima si andava facendo a caso. Trovò similmente il modo di girare le crociere e gli archi delle volte, lo scortare de' palchi con gli sfondati delle travi, le colonne tonde per far in un canto vivo del muro d'una casa, che nel canto si ripieghino e tirate in prospettiva rompino il canto e lo faccia per il piano. Per le quali considerazioni si ridusse a starsi solo e quasi salvatico, senza molte pratiche, le settimane e i mesi in casa senza lasciarsi vedere. Et avvenga che queste fussino cose difficili e belle, s'egli avesse speso quel tempo nello studio delle figure, ancor che le facesse con assai buon disegno, l'arebbe condotte del tutto perfettissime; ma consumando il tempo in questi ghiribizzi, si trovò mentre che visse più povero che famoso. Onde Donatello scultore suo amicissimo li disse molte volte, mostrandogli Paulo mazzochi a punte e quadri tirati in prospettiva per diverse vedute, e palle a 72 facce a punte di diamanti e in ogni faccia brucioli avvolti su per e' bastoni, e altre bizzarrie in che spendeva e consumava il tempo: “Eh, Paulo, questa tua prospettiva ti fa lasciare il certo per l'incerto; queste son cose che non servono se non a questi che fanno le tarsie; perciò che empiono i fregi di brucioli, di chiocciole tonde e quadre e d'altre cose simili”.

Le pitture prime di Paulo furono in fresco, in una nicchia bislunga tirata in prospettiva nello spedale di Lelmo, cioè un Santo Antonio abbate e S. Cosimo e Damiano che lo mettono in mezzo. In Annalena (monastero di donne) fece dua figure, et in S. Trinita, sopra alla porta sinistra dentro alla chiesa, in fresco, storie di S. Francesco, cioè il ricevere delle stìmate, il riparare alla chiesa reggendola con le spalle e lo abboccarsi con S. Domenico. Lavorò ancora in S. Maria Maggiore, in una capella allato alla porta del fianco che va a S. Giovanni dove è la tavola e predella di Masaccio, una Nunziata in fresco, nella qual fece un casamento degno di considerazione, e cosa nuova e difficile in que' tempi, per essere stata la prima, che si mostrasse con bella maniera agli artefici, e con grazia e proporzione mostrando il modo di fare sfuggire le linee, e fare che in un piano lo spazio che è poco e piccolo acquisti tanto che paia assai lontano e largo e coloro che con giudizio sanno a questo con grazia aggiugnere l'ombre a' suoi luoghi e i lumi con colori, fanno senza dubbio che l'occhio s'inganna, ché pare che la pittura sia viva e di rilievo. E non gli bastando questo, volle anco mostrare maggiore difficultà in alcune colonne che scortano per via di prospettiva, le quali ripiegandosi rompono il canto vivo della volta dove sono i quattro Evangelisti, la qual cosa fu tenuta bella e difficile; e invero Paulo in quella professione fu ingegnoso e valente. Lavorò anco in S. Miniato fuor di Fiorenza, in un chiostro, di verde terra e in parte colorito, la vita de' Santi padri nelle quali non osservò molto l'unione di fare d'un solo colore come si deono le storie, perché fece i campi azzurri, le città di color rosso, e gli edifici variati secondo che gli parve, et in questo mancò, perché le cose che si fingono di pietra non possono e non deon essere tinte d'altro colore. Dicesi che mentre Paulo lavorava questa opra, un abbate che era allora in quel luogo gli faceva mangiar quasi non altro che formaggio; per che, essendogli venuto annoia, deliberò Paulo, come timido ch'egli era, di non vi andare più a lavorare, onde, facendolo cercar l'abbate, quando sentiva domandarsi da' frati, non voleva mai esser in casa, e se per avventura alcune coppie di quell'ordine scontrava per Fiorenza, si dava a correre quanto più poteva, da essi fuggendo. Per il che due di loro più curiosi e di lui più giovani, lo raggiunsero un giorno e gli domandarono per qual cagione egli non tornasse a finir l'opra cominciata e perché, veggendo frati, si fuggisse; rispose Paulo: “Voi mi avete rovinato in modo che non solo fuggo da voi, ma non posso anco praticare né passare dove siano legnaiuoli, e di tutto è stato causa la poca discrezione dell'abbate vostro; il quale, fra torte e minestre fatte sempre con cacio, mi ha messo in corpo tanto formaggio, che io ho paura, essendo già tutto cacio, di non esser messo in opra per mastrice; e se più oltre continuassi, non sarei più forse Paulo, ma cacio”. I frati, partiti da lui con risa grandissime, dissero ogni cosa all'abate, il quale, fattolo tornare al lavoro, gli ordinò altra vita che di formaggio.

Dopo dipinse nel Carmine, nella cappella di San Girolamo de' Pugliesi, il dossale di San Cosimo e Damiano. In casa de' Medici dipinse in tela a tempera alcune storie di animali, de' quali sempre si dilettò, e per fargli bene vi mise grandissimo studio; e, che è più, tenne sempre per casa dipinti uccelli, gatti, cani e d'ogni sorte di animali strani che potette aver in disegno, non potendo tenere de' vivi per esser povero; e perché si dilettò più degli uccelli che d'altro, fu cognominato Paulo Uccelli. Et in detta casa, fra l'altre storie d'animali, fece alcuni leoni che combattevano fra loro, con movenze e fierezze tanto terribili, che parevono vivi. Ma cosa rara era, fra l'altre, una storia dove un serpente, combattendo con un leone, mostrava con movimento gagliardo la sua fierezza et il veleno che gli schizzava per bocca e per gli occhi, mentre una contadinella ch'è presente guarda un bue, fatto in iscorto bellissimo del quale n'è il disegno proprio di mano di Paulo nel nostro libro de' disegni, e similmente della villanella tutta piena di paura e in atto di correre, fuggendo dinanzi a quegli animali. Sonovi similmente certi pastori molto naturali et un paese che fu tenuto cosa molto bella nel suo tempo. E nell'altre tele fece alcune mostre d'uomini d'arme a cavallo, di que' tempi, con assai ritratti di naturale. Gli fu fatto poi allogagione nel chiostro di Santa Maria Novella d'alcune storie, le prime delle quali sono quando s'entra di chiesa nel chiostro: la creazion degli animali, con vario et infinito numero d'acquatici, terrestri e volatili. E perché era capricciosissimo e come si è detto si dilettava grandemente di far bene gl'animali, mostrò in certi lioni, che si voglion mordere, quanto sia di superbo in quelli, et in alcuni cervi e daini la velocità et il timore; oltre che sono gli uccelli et i pesci con le penne e squamme vivissimi. Fecevi la creazion dell'uomo e della femina, et il peccar loro, con bella maniera, affaticata e ben condotta. Et in questa opera si dilettò a far gl'alberi di colore, i quali allora non era costume di far molto bene, così ne' paesi egli fu il primo che si guadagnasse nome fra i vecchi di lavorare e quegli ben condurre a più perfezzione che non avevano fatto gl'altri pittori inanzi a lui, se ben di poi è venuto chi gli ha fatti più perfetti, perché, con tanta fatica, non poté mai dar loro quella morbidezza né quella unione che è stata data loro a' tempi nostri nel colorirli a olio. Ma fu ben assai, che Paulo con l'ordine della prospettiva gli andò diminuendo e ritraendo come stanno quivi appunto, facendovi tutto quel che vedeva, cioè campi arati, fossati et altre minuzie della natura, in quella sua maniera secca e tagliente; là dove se egli avesse scelto il buono delle cose e messo in opera quelle parti appunto che tornano be-ne in pittura, sarebbono stati del tutto perfettissimi. Finito ch'ebbe questo, lavorò nel medesimo chiostro sotto due storie di mano d'altri, e più basso fece il Diluvio con l'Arca di Noè, et in essa con tanta fatica e con tanta arte e diligenza lavorò i morti, la tempesta, il furore de' venti, i lampi delle saette, il troncar degl'alberi e la paura degli uomini, che più non si può dire. Et in iscorto fece in prospettiva un morto al quale un corbo gli cava gli occhi, et un putto annegato, che per aver il corpo pien d'acqua, fa di quello un arco grandissimo. Dimostrovvi ancora varii affetti umani, come il poco timo-re dell'acqua in due che a cavallo combattono, e l'estrema paura del morire in una femina et in un maschio che sono a cavallo in sun'una bufola, la quale per le parti di dreto empiendosi d'acqua, fa disperare in tutto coloro di poter salvarsi: opera tutta di tanta bontà et eccellenza, che gli acquistò grandissima fama. Diminuì le figure ancora per via di linee in prospettiva, e fece mazzocchi et altre cose in tal opra certo bellissime. Sotto questa storia dipinse ancora l'inebriazione di Noè, col dispregio di Cam suo figliuolo, nel quale ritrasse Dello pittore e scultore fiorentino suo amico, e Sem e Iafet altri suoi figlioli che lo ricuoprono, mostrando esso le sue vergogne. Fece quivi parimente in prospettiva una botte che gira per ogni lato, cosa tenuta molto bella, e così una pergola piena d'uva, i cui legnami di piane squadrate vanno diminuendo al punto; ma ingannossi, perché il diminuire del piano di sotto, dove posano i piedi le figure, va con le linee della pergola, e la botte non va con le medesime linee che sfuggano; onde mi sono maravigliato assai, che un tanto ac-curato e diligente facesse un errore così notabile. Fecevi anco il sagrifizio con l'Arca aperta, tirata in prospettiva con gl'ordini delle stanghe nell'altezza partita per ordine, dove gli uccelli stavano accomodati, i quali si veggono uscir fuora volando in iscorto di più ragioni, e nell'aria si vede Dio Padre che appare sopra al sagrifizio che fa Noè con i figliuoli; e questa di quante figure fece Paulo in questa opera è la più difficile, perché vola col capo in scorto verso il muro e ha tanta forza che pare che 'l rilievo di quella figura lo buchi e lo sfondi. E oltre ciò, ha quivi Noè attorno molti diversi et infiniti animali bellissimi. Insomma diede a tutta questa opera morbidezza e grazia tanta, che ell'è senza comparazione superiore e migliore di tutte l'altre sue; onde fu, non pure allora, ma oggi grandemente lodata. Fece in Santa Maria del Fiore, per la memoria di Giovanni Acuto inglese, capitano de' Fiorentini, che era morto l'anno 1393, un cavallo di terra verde tenuto bellissimo e di grandezza straordinaria, e sopra quello l'immagine di esso capitano di chiaro scuro di color di verde terra, in un quadro alto braccia dieci nel mezzo d'una facciata della chiesa, dove tirò Paulo in prospettiva una gran cassa da morti, fingendo che 'l corpo vi fusse dentro; e sopra vi pose l'immagine di lui armato da capitano, a cavallo. La quale opera fu tenuta et è ancora cosa bellissima per pittura di quella sorte; e se Paulo non avesse fatto che quel cavallo muove le gambe da una banda sola, il che naturalmente i cavagli non fanno perché cascherebbano (il che forse gli avenne perché non era avvezzo a cavalcare, né praticò con cavalli come con gl'altri animali) sarebbe questa opera perfettissima perché la proporzione di quel cavallo, che è grandissimo, è molto bella; e nel basamento vi sono queste lettere: “Pauli Uccelli opus”.

Fece nel medesimo tempo e nella medesima chiesa, di colorito, la sfera dell'ore sopra alla porta principale dentro la chiesa, con quattro teste ne' canti colorite in fresco. Lavorò anco, di colore di verde terra, la loggia che è volta a ponente, sopra l'orto del munistero degli Angeli, cioè sotto ciascuno arco una storia de' fatti di S. Benedetto abbate, e delle più notabili cose della sua vita, insin alla morte; dove, fra molti tratti che vi sono bellissimi, ve n'ha uno dove un monasterio, per opera del demonio, rovina, e sotto i sassi e' legni rimane un frate morto; né è manco notabile la paura d'un altro monaco, che fuggendo ha i panni che, girando intorno all'ignudo, svolazzano con bellissima grazia. Nel che destò in modo l'animo agl'artefici, che eglino hanno poi seguitato sempre questa maniera. È bellissima ancora la figura di San Benedetto dove egli con gravità e divozione nel conspetto de' suoi monaci risuscita il frate morto. Finalmente in tutte quelle storie sono tratti da essere considerati, e massimamente in certi luoghi dove sono tirati in prospettiva infino a-gl'embrici e' tegoli del tetto. E nella morte di San Benedetto, mentre i suoi monaci gli fanno l'essequie e lo piangono, sono alcuni infermi e decrepiti a vederlo, molto belli. È da considerare ancora, che fra molti amorevoli e divoti di quel Santo, vi è un monaco vecchio con dua grucce sotto le braccia, nel qual si vede un affetto mirabile e forse speranza di riaver la sanità. In questa opera non sono paesi di colore, né molti casamenti o prospettive difficili, ma sì bene gran disegno e del buono assai. In molte case di Firenze sono assai quadri in prospettiva, per vani di lettucci, letti et altre cose piccole, di mano del medesimo; et in Gualfonda particolarmente, nell'orto che era de' Bartolini, è in un terrazzo, di sua mano 4 storie in legname piene di guerre, cioè cavalli et uomini armati, con portature di que' tempi bellissime; e fra gl'uomini è ritratto Paulo Orsino, Ottobuono da Parma, Luca da Canale e Carlo Malatesti signor di Rimini, tutti capitani generali di que' tempi. Et i detti quadri furono a' nostri tempi, perché erano guasti et avevon patito, fatti racconciare da Giuliano Bugiardini, che più tosto ha loro nociuto che giovato.

Fu condotto Paulo da Donato a Padova, quando vi lavorò, e vi dipinse nell'entrata della casa de' Vitali di verde terra alcuni giganti che, secondo ho trovato in una lettera latina che scrive Girolamo Campagnola a Messer Leonico Tomeo filosofo, sono tanto belli che Andrea Mantegna ne faceva grandissimo conto. Lavorò Paulo in fresco la volta de' Peruzzi a triangoli in prospettiva, et in su' cantoni dipinse nelle quadrature i quattro Elementi e a ciascuno fece un animale a proposito: alla terra una talpa, all'acqua un pesce, al fuoco la salamandra et all'aria il camaleonte che ne vive e piglia ogni colore. E perché non ne aveva mai veduti, fece un camello che apre la bocca et inghiottisce aria empiendosene il ventre; simplicità certo grandissima, alludendo per lo nome del camello a un animale che è simile a un ramarro, secco e piccolo, col fare una bestiaccia disadatta e grande. Grandi furono veramente le fatiche di Paulo nella pittura, avendo disegnato tanto che lasciò a' suoi parenti, secondo che da loro medesimi ho ritratto, le casse piene di disegni. Ma se be-ne il disegnar è assai, meglio è nondimeno mettere in opera, poiché hanno maggior vita l'opere che le carte disegnate. E se bene nel nostro libro de' disegni sono assai cose di figure, di prospettive, d'uccelli e d'animali, belli a maraviglia, di tutti è migliore un mazzocchio tirato con linee sole, tanto bello che altro che la pacienza di Paulo non l'averebbe condotto. Amò Paulo, se bene era persona stratta, la virtù degli artefici suoi, e perché ne rimanesse a' posteri memoria, ritrasse di sua mano in una tavola lunga cinque uomini segnalati, e la teneva in casa per memoria loro: l'uno era Giotto pittore, per il lume e principio dell'arte, Filippo di ser Brunelleschi il secondo, per l'architettura, Donatello per la scultura, e se stesso per la prospettiva et animali, e per la matematica Giovanni Manetti suo amico, col quale conferiva assai e ragionava delle cose di Euclide. Dicesi che essendogli dato a fare sopra la porta di S. Tommaso in Mercato Vecchio, lo stesso Santo che a Cristo cerca la piaga, che egli mise in quell'opera tutto lo studio che seppe, dicendo che voleva mostrar in quella quanto valeva e sapeva. E così fece fare una serrata di tavole, acciò nessuno potesse vedere l'opera sua se non quando fusse finita. Per che, scontrandolo un giorno Donato tutto solo, gli disse: “E che opera sia questa tua, che così serrata la tieni?”; al qual respondendo Paulo disse: “Tu vedrai e basta”. Non lo volle astrigner Donato a dir più oltre, pensando, come era solito, vedere quando fusse tempo qualche miracolo. Trovandosi poi una mattina Donato per comperar frutte in Mercato Vecchio, vide Paulo che scopriva l'opera sua; per che, salutandolo cortesemente, fu dimandato da esso Paulo, che curiosamente desiderava udirne il giudizio suo, quello che gli paresse di quella pittura. Donato, guardato che ebbe l'opera ben bene, disse: “Eh Paulo, ora che sarebbe tempo di coprire e tu scuopri”. Allora, contristandosi Paulo grandemente, si sentì avere di quella sua ultima fatica molto più biasimo che non aspettava di averne lode, e non avendo ardire, come avvilito, d'uscir più fuora, si rinchiuse in casa, attendendo alla prospettiva, che sempre lo tenne povero et intenebrato insino alla morte. E così, divenuto vecchissimo e poca contentezza avendo nella sua vecchiaia, morì l'anno ottantatreesimo della sua vita, nel 1432, e fu sepolto in Santa Maria Novella.

Lasciò di sé una figliuola che sapeva disegnare, e la moglie, la qual soleva dire che tutta la notte Paulo stava nello scrittoio per trovar i termini della prospettiva, e che quando ella lo chiamava a dormire, egli le diceva: “Oh che dolce cosa è questa prospettiva!”. Et invero, s'ella fu dolce a lui, ella non fu anco se non cara et utile, per opera sua, a coloro che in quella si sono dopo di lui esercitati.

IL FINE DELLA VITA DI PAULO UCCELLO PITTORE

VITA DI LORENZO GHIBERTI SCULTORE

Non è dubio, che in tutte le città, coloro che con qualche virtù vengon in qualche fama fra li uomini, non siano il più delle volte un santissimo lume d'esempio a molti che dopo lor nascono et in quella medesima età vivono, oltra le lodi infinite e lo straordinario premio ch'essi vivendo ne riportano. Né è cosa che più desti gli animi delle genti e faccia parere loro men faticosa la disciplina degli studi, che l'onore e l'utilità che si cava poi dal sudore delle virtù; perciò che elle rendono facile a ciascheduno ogni impresa difficile, e con maggiore impeto fanno accrescere la virtù loro, quando con le lode del mondo s'inalzano. Per che infiniti, che ciò sentono e veggono, si mettono alle fatiche, per venire in grado di meritare quello che veggono aver meritato un suo compatriota. E per questo anticamente o si premiavano con richezze i virtuosi, o si onoravano con trionfi et imagini. Ma perché rade volte è che la virtù non sia perseguitata dall'in-vidia, bisogna ingegnarsi, quanto si può il più, ch'ella sia da una estrema eccellenza superata, o almeno fatta gagliarda e forte a sostenere gl'impeti di quella come ben seppe e per meriti e per sorte Lorenzo di Cione Ghiberti altrimenti di Bartoluccio, il quale meritò da Donato scultore e Filippo Bruneleschi architetto e scultore, eccellenti artefici, essere posto nel luogo loro conoscendo essi in verità, ancora che il senso gli strignesse forse a fare il contrario, che Lorenzo era migliore maestro di loro nel getto. Fu veramente ciò gloria di quegli e confusione di molti, i quali, presumendo di sé, si mettono in opera et occupano il luogo dell'altrui virtù, e non facendo essi frutto alcuno, ma penando mille anni a fare una cosa, sturbano et opprimono la scienzia degli altri con malignità e con invidia.

Fu dunque Lorenzo figliuolo di Bartoluccio Ghiberti, e dai suoi primi anni imparò l'arte dell'orefice col padre, il quale era eccellente maestro e gl'insegnò quel mestiero, il quale da Lorenzo fu preso talmente, ch'egli lo faceva assai meglio che 'l padre. Ma dilettandosi molto più de l'arte della scultura e del disegno, manegiava qualche volta i colori et alcun'altra gettava figurette piccole di bronzo e le finiva con molta grazia. Dilettossi anco di contraffare i conii delle medaglie antiche, e di naturale nel suo tempo ritrasse molti suoi amici. E mentre egli con Bartoluccio lavorando cerca-va acquistare in quella professione, venne in Fiorenza [la peste] l'anno 1400, secondo che racconta egli medesimo in un libro di sua mano dove ragiona delle cose dell'arte, il quale è appresso al reverendo Messer Cosimo Bartoli gentiluomo fiorentino. Alla quale peste aggiuntesi alcune discordie civili et altri travagli della città, gli fu forza partirsi et andarse in compagnia d'un altro pittore in Romagna; dove, in Arimini, dipinsero al signor Pandolfo Malatesti una camera e molti altri lavori, che da lor furono con diligenza finiti e con sodisfazione di quel signore, che ancora giovanetto si dilettava assai delle cose del disegno. Non restando perciò in quel mentre Lorenzo di studiare le cose del disegno, né di lavorare di rilievo cera, stucchi et altre cose simili, conoscendo egli molto bene che sì fatti rilievi piccoli sono il disegnare degli scultori e che senza cotale disegno non si può da loro condurre alcuna cosa a perfezzione. Ora, non essendo stato molto fuor della patria, cessò la pestilenza; onde la Signoria di Fiorenza e l'Arte de' Mercatanti deliberarno (avendo in quel tempo la scultura gli artefici suoi in eccellenza, così forestieri come Fiorentini) che si dovesse, come si era già molte volte ragionato, [fare] l'altre due porte di S. Giovanni, tempio antichissimo e principale di quella città. Et ordinato fra di loro che si facesse intendere a tutti i maestri, che erano tenuti migliori in Italia, che comparissino in Fiorenza per fare esperimento di loro in una mostra d'una storia di bronzo, simile a una di quelle che già Andrea Pisano aveva fatto nella prima porta, fu scritto questa deliberazione da Bartoluccio a Lorenzo ch'in Pesero lavorava, confortandolo a tornare a Fiorenza a dar saggio di sé; ché questa era una occasione da farsi conoscere e da mostrare l'ingegno suo, oltra che e' ne trarrebbe sì fatto utile, che né l'uno né l'altro arebbono mai più bisogno di lavorare pere. Mossero l'animo di Lorenzo le parole di Bartoluccio di maniera che, quantunque il signor Pandolfo et il pittore e tutta la sua corte gli facessino carezze grandissime, prese Lorenzo da quel signore licenza e dal pittore, i quali pur con fatica e dispiacere loro lo lascioron par-tire, non giovando né promesse né accrescere provisione, parendo a Lorenzo ogn'ora mille anni di tornare a Fiorenza. Partitosi dunque, felicemente a la sua patria si ridusse. Erano già comparsi molti forestieri e fattesi conoscere a' Consoli dell'Arte, da' quali furono eletti di tutto il numero sette maestri, tre Fiorentini e gli altri Toscani, e fu ordinato loro una provisione di danari, e che fra un anno ciascuno dovesse aver finito una storia di bronzo della medesima grandezza ch'erano quelle della prima porta, per saggio. Et elessero che dentro si facesse la storia quando Abraam sacrifica Isac suo figliuolo, nella quale pensorono dovere avere i detti maestri che mostrare, quanto a le difficultà dell'arte, per essere storia che ci va dentro paesi, ignudi, vestiti et animali, e si potevono far le prime figure di rilievo e le seconde di mezzo e le terze di basso. Furono i concorrenti di questa opera Filippo di ser Brunelesco, Donato e Lorenzo di Bartoluccio fiorentini, et Iacopo della Quercia sanese, e Niccolò d'Arezzo suo creato, Francesco di Vandabrina e Simone da Colle detto de' bronzi; i quali tutti dinanzi a' consoli promessono dare condotta la storia nel tempo detto e ciascuno alla sua dato principio, con ogni studio e diligenza mettevano ogni lor forza e sapere per passare d'eccellenza l'un l'altro, tenendo nascoso quel che facevano secretissimamente, per non raffrontare nelle cose medesime. Solo Lorenzo, che aveva Bartoluccio che lo guidava e li faceva far fatiche e molti modelli, innanzi che si risolvessino di mettere in opera nessuno, di continuo menava i cittadini a vedere, e talora i forestieri che passavano, se intendevano del mestiero, per sentire l'animo loro; i quali pareri furon cagione ch'egli condusse un modello molto ben lavorato e senza nessun difetto. E così, fatte le forme e gittatolo di bronzo, venne benissimo, onde egli con Bartoluccio suo padre lo rinettò con amore e pazienza tale, che non si poteva condurre né finire meglio. E venuto il tempo che si aveva a vedere a paragone, fu la sua e le altre di que' maestri finite del tutto, e date a giudizio dell'Arte de' Mercatanti, per che, veduti tutti dai Consoli e da molti altri cittadini, furono diversi i pareri che si fecero sopra di ciò. Erano concorsi in Fiorenza molti forestieri, parte pittori e parte scultori et alcuni orefici, i quali furono chiamati dai Consoli a dover dar giudizio di queste opere insieme con gli altri di quel mestiero che abitavano in Fiorenza. Il qual numero fu di 34 persone, e ciascuno nella sua arte peritissimo. E quantunque fussino in fra di loro differenti di parere, piacendo a chi la maniera di uno e chi quella di un altro, si accordavano nondimeno che Filippo di ser Brunelesco e Lorenzo di Bartoluccio avessino e meglio e più copiosa di figure migliori composta e finita la storia loro, che non aveva fatto Donato la sua, ancora che anco in quella fusse gran disegno. In quella di Iacopo della Quercia erano le figure buone, ma non avevano finezza, se bene erano fatte con disegno e diligenza. L'opera di Francesco di Valdambrina aveva buone teste et era ben rinetta, ma era nel componimento confusa. Quella di Simon da Colle era un bel getto perché ciò fare era sua arte, ma non aveva molto disegno. Il saggio di Niccolò d'Arezzo, che era fatto con buona pratica, aveva le figure tozze et era mal rinetto. Solo quella storia che per saggio fece Lorenzo, la quale ancora si vede dentro all'udienza dell'Arte de' Mercatanti, era in tutte le parti perfettissima: aveva tutta l'opera disegno et era benissimo composta; le figure di quella maniera erano svelte e fatte con grazia et attitudini bellissime, et era finita con tanta diligenza, che pareva fatta non di getto e rinetto con ferri, ma col fiato. Donato e Filippo, visto la diligenza che Lorenzo aveva usata nell'opera sua, si tiroron da un canto, e parlando fra loro, risolverono che l'opera dovesse darsi a Lorenzo, parendo loro che il publico et il privato sarebbe meglio servito, e Lorenzo, essendo giovanetto che non passava 20 anni, arebbe nello esercitarsi a fare in quella professione que' frutti maggiori che prometteva la bella storia, che egli a giudizio loro aveva più degli altri eccellentemente condotta, dicendo che sarebbe stato più tosto opera invidiosa a levargliela, che non era virtuosa a fargliela avere.

Cominciando dunque Lorenzo l'opera di quella porta, per quella che è dirimpetto all'opera di San Giovanni, fece per una parte di quella un telaio grande di legno quanto aveva a esser appunto, scorniciato e con gl'ornamenti delle teste in sulle quadrature, intorno allo spartimento de' vani delle storie e con que' fregi che andavano intorno. Dopo fatta e secca la forma con ogni diligenza, in una stanza che aveva compero dirimpetto a S. Maria Nuova, dove è oggi lo spedale de' Tessitori, che si chiamava l'Aia, fece una fornace grandissima, la quale mi ricordo aver veduto, e gettò di metallo il detto telaio. Ma, come volle la sorte, non venne bene, per che, conosciuto il disordine, senza perdersi d'animo o sgomentarsi, fatta l'altra forma con prestezza senza che niuno lo sapesse, lo rigettò e venne benissimo. Onde così andò seguitando tutta l'opera, gettando ciascuna storia da per sé e rimettendole, nette che erano, al luogo suo. E lo spartimento del-l'istorie fu simile a quello che aveva già fatto Andrea Pisano nella prima porta che gli disegnò Giotto, facendovi venti storie del Testamento Nuovo. Et in otto vani simili a quelli, seguitando le dette storie, da piè fece i quattro Evangelisti, due per porta, e così i quattro Dottori della chiesa nel medesimo modo, i quali sono differenti fra loro di attitudini e di panni: chi scrive, chi legge, altri pensa, e variati, l'un da l'altro si mostrano nella lor prontezza molto ben condotti. Oltre che nel telaio dell'ornamento riquadrato a quadri intorno alle storie, v'è una fregiatura di foglie d'ellera e d'altre ragioni, tramezzate poi da cornici et in su ogni cantonata una testa d'uomo o di femina tutta tonda figurate per profeti e sibille, che son molto belle e nella loro varietà mostrano la bontà dell'ingegno di Lorenzo. Sopra i Dottori et Evangelisti già detti, ne' quattro quadri dappiè, sèguita, da la banda di verso S. Maria del Fiore, il principio; e quivi nel primo quadro è l'Annunziazione di Nostra Donna, dove egli finse nell'attitudine di essa Vergine uno spavento et un sùbito timore, storcendosi con grazia per la venuta dell'Angelo. Et allato a questa fece il nascer di Cristo, dove è la Nostra Donna che, a-vendo partorito, sta a ghiacere, riposandosi; èvvi Giuseppo che contempla i pastori e gl'Angeli che cantano. Nell'altra allato a questa, che è l'altra parte della porta, a un medesimo pari, sèguita la storia della venuta de' Magi, et il loro adorar Cristo dandoli i tributi; dov'è la corte che gli sèguita con cavagli et altri arnesi, fatta con grande ingegno. E così allato a questa è il suo disputare nel tempio fra i Dottori, nella quale è non meno espressa l'ammirazione e l'udienza che danno a Cristo i Dottori, che l'allegrezza di Maria e Giuseppo ritrovandolo. Sèguita sopra a queste, ricominciando sopra l'Annunziazione, la storia del battesimo di Cristo nel Giordano da Giovanni, dove si conosce negli atti loro la riverenza dell'uno e la fede dell'altro. Allato a questa, sèguita il diavolo che tenta Cristo, che, spaventato per le parole di Gesù, fa un'attitudine spaventosa, mostrando per quella il conoscere che egli è figliuolo di Dio. Allato a questa, nell'altra banda, è quando egli caccia del Tempio i venditori, mettendo loro sottosopra gli argenti, le vittime, le colombe e le altre mercanzie; nella quale sono le figure, che cascando l'una sopra l'altra hanno una grazia nella fuga del cadere molto bella e considerata. Seguitò Lorenzo allato a questa il naufragio degl'Apostoli, dove S. Piero uscendo della nave che affonda nell'acqua, Cristo lo sollieva; è questa storia copiosa di varii gesti nelli Apostoli che aiutano la nave, e la fede di S. Pie-ro si conosce nel suo venire a Cristo. Ricomincia sopra la storia del battesimo, da l'altra parte la sua Trasfigurazione nel monte Tabor, dove Lorenzo espresse nelle attitudini de' tre Apostoli lo abbagliare che fanno le cose celesti le viste dei mortali; sì come si conosce ancora Cristo nella sua divinità, col tenere la testa alta e le braccia aperte, in mezzo d'Elia e di Mosè. Et allato a questa è la resurrezzione del morto Lazzaro, il quale uscito del sepolcro, legato i piedi e le mani, sta ritto con maraviglia de' circostanti; èvvi Marta e Maria Maddalena che bacia i piedi del Signore con umiltà e reverenza grandissima. Sèguita allato a questa, ne l'altra parte della porta, quando egli va in su l'asino in Gerusalem e che i figliuoli degli Ebrei, con varie attitudini, gettano le veste per terra e gli ulivi e le palme, oltre agli Apostoli che seguitano il Salvatore. Et allato a questa è la cena degli Apostoli, bellissima e bene spartita, essendo finti a una tavola lunga, mezzi dentro e mezzi fuori. Sopra la storia della Trasfigurazione comincia la adorazione nell'orto, dove si conosce il sonno in tre varie attitudini degli Apostoli. Et allato a questa sèguita quando egli è preso, e che Giuda lo bacia; dove sono molte cose da considerare, per esservi e gli Apostoli che fuggono, et i Giudei che nel pigliar Cristo fanno atti e forze gagliardissime. Nell'altra parte allato a questa è quando egli è legato alla colonna; dove è la figura di Gesù Cristo che nel duolo delle battiture si storce alquanto con una attitudine compassionevole, oltra che si vede in que' Giudei che lo flagellano una rabbia e vendetta molto terribile per i gesti che fanno. Sèguita allato a questa quando lo menano a Pilato, e che e' si lava le mani e lo sentenzia a la croce. Sopa l'adorazione dell'orto, dall'altra banda, nell'ultima fila delle storie, è Cristo che porta la croce e va a la morte, menato da una furia di soldati, i quali con strane attitudini par che lo tirono per forza; oltra il dolore e pianto che fanno co' gesti quelle Marie, che non le vide meglio chi fu presente. Allato a que-sto fece Cristo crocifisso, et in terra a sedere con atti dolenti e pien di sdegno la Nostra Donna e S. Giovanni Vangelista. Sèguita, allato a questa nell'altra parte la sua Resurrezzione; ove, addormentate le guardie dal tuono, stanno come morti, mentre Cristo va in alto con una attitudine che ben pare glorificato nella perfezzione delle belle membra, fatto dalla ingegnosissima industria di Lorenzo. Nell'ultimo vano è la venuta dello Spirito Santo, dove sono attenzioni et attitudini dolcissime in coloro che lo ricevono. E fu condotto questo lavoro a quella fine e perfezzione senza risparmio alcuno di fatiche e di tempo che possa darsi a opera di metallo, considerando che le membra degli ignudi hanno tutte le parti bellissime, et i panni, ancora che tenessino un poco dello andare vecchio di verso Giotto, vi è dentro nondimeno un tutto che va in verso la maniera de' moderni, e si reca in quella grandezza di figure una certa grazia molto leggiadra. E nel vero, i componimenti di ciascuna storia sono tanto ordinati e bene spartiti che meritò conseguire quella lode e maggiore, che da principio gli aveva data Filippo. E così fu onoratissimamente fra i suoi cittadini riconosciuto, e da loro e dagli artefici terrazzani e forestieri sommamente lodato. Costò questa opera fra gli ornamenti di fuori, che son pur di metallo et intagliatovi festoni di frutti et animali, ventiduamila fiorini, e pesò la porta di metallo trentaquattro migliaia di libbre.

Finita questa opera, parve a' Consoli dell'Arte de' Mercatanti esser serviti molto bene, e per le lode dateli da ognuno deliberarono che facesse Lorenzo, in un pilastro fuor d'Or San Michele, in una di quelle nicchie, ch'è quella che volta fra i Cimatori, una statua di bronzo di quatro braccia e mezzo in memoria di S. Giovanni Battista, la quale egli principiò né la staccò mai che egli la rese finita; che fu et è opera molto lodata, et in quella nel manto fece un fregio di lettere scrivendovi il suo nome. In questa opera, la quale fu posta su l'anno 1414, si vide cominciata la buona maniera moderna, nella testa, in un braccio che par di carne, e nelle mani, et in tutte l'attitudini della figura. Onde fu il primo che cominciasse a imitare le cose degli antichi Romani; delle quali fu molto studioso come esser dee chiunche disidera di be-ne operare. E nel frontespizio di quel tabernacolo si provò a far di musaico, faccendovi dentro un mezzo profeta. Era già cresciuta la fama di Lorenzo per tutta Italia e fuori, dell'artifiziosissimo magistero nel getto, di maniera che avendo Iacopo della Fonte et il Vecchietto sanese e Donato fatto per la Signoria di Siena, nel loro San Giovanni, alcune storie e figure di bronzo, che dovevano ornare il battesimo di quel tempio, et avendo visto i Sanesi l'opere di Lorenzo in Fiorenza, si convennono con seco e li feciono fare due storie della vita di S. Giovanni Battista. In una fece quando egli battezzò Cristo, accompagnandola con molte figure et ignude e vestite molto riccamente; e nell'altra quando San Giovanni è preso e menato a Erode; nelle quali storie superò e vinse gl'altri che avevano fatto l'altre, onde ne fu sommamente lo-dato da' Sanesi e dagl'altri che le veggono. Avevano in Fiorenza a far una statua i maestri della Zecca in una di quelle nicchie che sono intorno a Or San Michele dirimpetto a l'Arte della Lana, et aveva a esser un San Matteo d'altezza del

S. Giovanni sopra detto. Onde l'allogorono a Lorenzo che la condusse a perfezzione, e fu lodata molto più che il San Giovanni, avendola fatta più alla moderna. La quale statua fu cagione che i Consoli dell'Arte della Lana deliberorono che e' facesse nel medesimo luogo, nell'altra nicchia allato a quella, una statua di metallo medesimamente, che fusse alta alla medesima proporzione dell'altre due, in persona di S. Stefano loro avvocato. Et egli la condusse a fine e diede una vernice al bronzo molto bella. La quale statua non manco satisfece che avesse[ro] fatto l'altre opere già lavorate da lui. Essendo generale de' frati predicatori in quel tempo Messer Lionardo Dati, per lassare di sé memoria in S. Maria Novella, dove egli aveva fatto professione, et alla patria, fece fabbricare a Lorenzo una sepoltura di bronzo e sopra quella sé a ghiacere morto, ritratto di naturale; e da questa, che piacque e fu lodata, ne nacque una che fu fatta fare in S. Croce da Lodovico degli Albizi e da Niccolò Valori. Dopo queste cose, volendo Cosimo e Lorenzo de' Medici onorare i corpi e reliquie de' tre martiri Proto, Iacinto e Nemesio, fattigli venire di Casentino, dove erano stati in poca venerazione molti anni, fecero fare a Lorenzo una cassa di metallo, dove nel mezzo sono due Angeli di basso rilievo che tengono una ghirlanda d'ulivo, dentro la quale sono i nomi de' detti martiri; et in detta cassa fecero porre le dette reliquie e la collocarono nella chiesa del monasterio degl'Angeli di Firenze, con queste parole da basso dalla banda della chiesa de' monaci, intagliate in marmo: “Clarissimi viri Cosmas et Laurentius fratres, neglectas diu sanctorum reliquias martirum, religioso studio ac fidelissima pietate suis sumptibus aereis loculis condendas, colendasque curarunt”. E dalla banda di fuori, che riesce nella chiesetta verso la strada, sotto un'arme di palle, sono nel marmo intagliate queste altre parole: “Hic condita sunt corpora sanctorum Christi martirum Prothi et Hyacinthi et Nemesii, Anno Domini 1428”. E da que-sta, che riuscì molto onorevole, venne volontà agli Operai di S. Maria del Fiore di far fare la cassa e sepoltura di metal-lo per mettervi il corpo di S. Zanobi, vescovo di Firenze, la quale fu di grandezza di braccia tre e mezzo et alta due. Nella quale fece oltra il garbo della cassa, con diversi e varii ornamenti, nel corpo di essa cassa dinanzi una storia quando esso San Zanobi risuscita il fanciullo lasciatoli in custodia dalla madre, morendo egli, mentre che ella era in peregrinaggio. In un'altra v'è quando un altro è morto dal carro e quando e' risuscita l'uno de' due famigli mandatoli da Santo Ambruogio, che rimase morto uno in su le Alpi, l'altro v'è che se ne duole alla presenza di San Zanobi che, venutoli compassione, disse: “Va', che e' dorme, tu lo troverrai vivo”. E nella parte di dietro sono sei Angioletti che tengono una ghirlanda di foglie d'olmo, nella quale son lettere intagliate in memoria e lode di quel Santo. Questa opera condusse egli e finì con ogni ingegnosa fatica et arte, sì che ella fu lodata straordinariamente come cosa bella.

Mentre che l'opere di Lorenzo ogni giorno accrescevon fama al nome suo, lavorando e servendo infinite persone così in lavori di metallo come d'argento e d'oro, capitò nelle mani a Giovanni figliuolo di Cosimo de' Medici una corniuola assai grande, dentrovi lavorato d'intaglio in cavo quando Apollo fa scorticare Marsia; la quale, secondo che si dice, serviva già a Nerone imperatore per suggello; et essendo per il pezzo della pietra, ch'era pur grande, e per la maraviglia dello intaglio in cavo, cosa rara, Giovanni la diede a Lorenzo, che gli facesse intorno d'oro un ornamento intagliato, et esso, penatovi molti mesi, lo finì del tutto, facendo un'opera non men bella d'intaglio attorno a quella, che si fussi la bontà e perfezione del cavo in quella pietra. La quale opera fu cagione ch'egli d'oro e d'argento lavorasse molte altre cose, che oggi non si ritruovano. Fece d'oro medesimamente a papa Martino un bottone ch'egli teneva nel piviale con figure tonde di rilievo e fra esse gioie di grandissimo prezzo, cosa molto eccellente; e così una mitera maravigliosissima di fogliami d'oro straforati, e fra essi molte figure piccole tutte tonde che furon tenute bellissime. E ne acquistò, oltra al nome, utilità grande da la liberalità di quel Pontefice.

Venne in Fiorenza l'anno 1439 papa Eugenio, per unire la chiesa Greca colla Romana, dove si fece il Concilio. E visto l'opere di Lorenzo, e piaciutogli non manco la presenza sua, che si facessino quelle, gli fece fare una mitera d'oro di peso di libre quindici e le perle di libre cinque e mezzo, le quali erano stimate con le gioie in essa ligate trentamila ducati d'oro. Dicono che in detta opera erano sei perle come nocciuole avellane, e non si può imaginare, secondo che s'è visto poi in un disegno di quella, le più belle bizzarrie di legami nelle gioie e nella varietà di molti putti et altre figure, che servivano a molti varii e graziati ornamenti. Della quale ricevette infinite grazie e per sé e per gli amici da quel Pontefice oltra il primo pagamento. Aveva Fiorenza ricevute tante lode per l'opere eccellenti di questo ingegnosissimo artefice, che e' fu deliberato da' Consoli dell'Arte de' Mercatanti di farli allogazione della terza porta di San Giovanni di metallo medesimamente. E quantunque quella che prima aveva fatta, l'avesse d'ordine loro seguitata e condotta con l'ornamento, che segue intorno alle figure e che fascia il telaio di tutte le porte, simile a quello d'Andrea Pisano, visto quanto Lorenzo l'aveva avanzato, risolverono i consoli a mutare la porta di mezzo, dove era quella d'Andrea, e metterla a l'altra porta, ch'è dirimpetto alla Misericordia, e che Lorenzo facesse quella di nuovo, per porsi nel mezzo giudicando ch'egli avesse a fare tutto quello sforzo che egli poteva maggiore in quell'arte. E se gli rimessono nelle braccia, dicendo che gli davon licenza, che e' facesse in quel modo ch'e' voleva o che pensasse che ella tornasse più ornata, più ricca, più perfetta e più bella ch'e' potesse o sapesse imaginarsi; né guardasse a tempo, né a spesa, acciò che così come egli aveva superato gl'altri statuarii per insino allora, superasse e vincesse tutte l'altre opere sue.

Cominciò Lorenzo detta opera mettendovi tutto quel sapere maggiore ch'egli poteva; e così compartì detta porta in dieci quadri, cinque per parte, che rimaseno i vani delle storie un braccio et un terzo, et a torno per ornamento del telaio che ricigne le storie, sono nicchie in quella parte ritte, e piene di figure quasi tonde, il numero delle quali è venti e tutte bellissime; come uno Sansone ignudo, che abbracciato una colonna, con una mascella in mano, mostra quella perfezzione che maggior può mostrare cosa fatta nel tempo degli antichi ne' loro Ercoli, o di bronzi o di marmi; e come fa testimonio un Iosuè, il quale in atto di locuzione par che parli allo esercito, oltra molti profeti e Sibille adorni l'uno e l'al-tro in varie maniere di panni per il dosso, e di acconciature di capo, di capegli et altri ornamenti, oltra dodici figure, che sono a ghiacere nelle nicchie, che ricingono l'ornamento delle storie per il traverso, faccendo in sulle crociere delle cantonate in certi tondi, teste di femmine e di giovani e di vecchi in numero trentaquattro. Fra le quali nel mezzo di detta porta vicino al nome suo intagliato in essa, è ritratto Bartoluccio suo padre, ch'è quel più vecchio, et il più giovane è esso Lorenzo suo figliuolo, maestro di tutta l'opera; oltra a infiniti fogliami e cornici et altri ornamenti fatti con grandissima maestria. Le storie, che sono in detta porta, sono del Testamento Vecchio; e nella prima è la creazione di Adamo e di Eva sua donna, quali sono perfettissimamente condotti; vedendosi che Lorenzo ha fatto, che sieno di membra più begli che egli ha possuto; volendo mostrare che, come quelli di mano di Dio furono le più belle figure che mai fussero fatte, così questi di suo avessino a passare tutte l'altre ch'erano state fatte da lui ne l'altre opere sue: avertenza certo grandissima. E così fece nella medesma quando e' mangiano il pomo et insieme quando e' son cacciati di Paradiso, le qual figure in quegli atti rispondono a l'effetto, prima del peccato conoscendo la loro vergogna, coprendola con le mani, e poi nella penitenza quando sono dall'Angelo fatti uscir fuori di Paradiso. Nel secondo quadro è fatto Adamo et Eva che hanno Caim et Abel piccoli fanciulli creati da loro; e così vi sono quando de le primizie Abel fa sacrifizio, e Caim de le men buone, dove si scorge negli atti di Caim l'invidia contro il prossimo, et in Abel l'amore in verso Iddio. E quello che è di singular bellezza è il veder Caim arare la terra con un par di buoi, i quali nella fatica del tirare al giogo l'aratro, paiono veri e naturali; così come è il medesimo Abel, che guardando il bestiame Caim li dà la morte; dove si vede quello con attitudine impietosissima e crudele, con un bastone ammazzare il fratello, in sì fatto modo che il bronzo medesimo mostra la languidezza delle membra morte nella bellissima persona d'Abel; e così di basso rilievo da lontano è Id-dio, che domanda a Caim quel che ha fatto d'Abel; contenendosi in ogni quadro gli effetti di quattro storie. Figurò Lorenzo nel terzo quadro come Noè esce dall'Arca la moglie co' suoi figliuoli e figliuole e nuore et insieme tutti gli animali, così volatili come terrestri; i quali, ciascuno nel suo genere, sono intagliati con quella maggior perfezzione che può l'arte imitar la natura; vedendosi l'Arca aperta, e le stagge in prospettiva di bassissimo rilievo, che non si può esprimere la grazia loro. Oltre che le figure di Noè e degli altri suoi, non possono esser più vive, né più pronte mentre faccendo egli sagrifizio, si vede l'arcobaleno, segno di pace fra Iddio e Noè; ma molto più eccellenti di tutte l'altre sono dove egli pianta la vigna, et inebriato del vino mostra le vergogne, e Cam suo figliuolo lo schernisce, e nel vero uno che dorma non può imitarsi meglio, vedendosi lo abandonamento delle membra ebbre, e la considerazione et amore degli altri due figliuoli, che lo ricuoprono con bellissime attitudini. Oltre che v'è e la botte et i pampani e gli altri ordigni della vendemmia, fatti con avvertenza et accomodati in certi luoghi, che non impediscono la storia, ma le fanno un ornamento bellissimo.

Piacque a Lorenzo fare nella quarta storia l'apparire de' tre Angeli nella valle Mambre, e faccendo quegli simili l'u-no all'altro, si vede quel santissimo vecchio adorarli, con una attitudine di mani e di volto molto propria e vivace; oltre che egli con affetto molto bello intagliò i suoi servi, che a' piè del monte con uno asino aspettano Abraam, che era andato a sacrificare il figliuolo. Il quale stando ignudo in su l'altare, il padre con il braccio in alto cerca far l'obbedienza; ma è impedito dall'Angelo, che con una mano lo ritiene e con l'altra accenna dove è il montone da far sacrifizio, e libera Isac da la morte. Questa storia è veramente bellissima, perché fra l'altre cose si vede differenza grandissima fra le delicate membra d'Isac e quelle de' servi e più robusti, in tanto che non pare che vi sia colpo che non sia con arte grandissima tirato. Mostrò anco avanzar se medesmo Lorenzo in quest'opera; nelle difficultà de' casamenti e quando nasce Isaac, Iacob et Esaù, o quando Esaù caccia, per far la volontà del padre; et Iacob, ammaestrato da Rebecca, porge il cavretto cotto, avendo la pelle intorno al collo, mentre è cercato da Isac, in qual gli dà la benedizzione. Nella quale storia so-no cani bellissimi e naturali, oltre le figure che fanno quello effetto istesso, che Iacob et Isac e Rebecca nelli lor fatti, quando eron vivi, facevano. Inanimito Lorenzo per lo studio dell'arte, che di continuo la rendeva più facile, tentò l'in-gegno suo in cose più artifiziose e difficili; onde fece in questo sesto quadro Iosef messo da' suoi fratelli nella cisterna, e quando lo vendono a que' mercanti; e da loro è donato a Faraone, al quale interpreta il sogno della fame; e la provisione per rimedio, e gli onori fatti a Iosef da Faraone. Similmente vi è quando Iacob manda i suoi figliuoli per il grano in Egitto, e che riconosciuti da lui, gli fa ritornare per il padre. Nella quale storia, Lorenzo fece un tempio tondo girato in prospettiva con una difficultà grande, nel quale è dentro figure in diversi modi che caricano grano e farine, et asini straordinarii. Parimente vi è il convito ch'e' fa loro et il nascondere la coppa d'oro nel sacco a Beniamin, e l'essergli trovata, e come egli abbraccia e riconosce i fratelli; la quale istoria per tanti affetti e varietà di cose è tenuta fra tutte l'ope-re la più degna e la più difficile e la più bella.

E veramente Lorenzo non poteva, avendo sì bello ingegno e sì buona grazia in questa maniera di statue, fare che, quando gli venivano in mente i componimenti delle storie belle, e' non facessi bellissime le figure; come appare in que-sto settimo quadro, dove egli figura il monte Sinai, e nella sommità Moisè che da Idio riceve le leggi, riverente e ingenocchioni. A mezzo il monte è Iosuè che l'aspetta e tutto il popolo a' piedi impaurito per i tuoni, saette e tremuoti, in attitudini diverse fatte con una prontezza grandissima. Mostrò appresso diligenza e grande amore nello ottavo quadro, dove egli fece quando Iosuè andò a Ierico, e volse il Giordano, e pose i dodici padiglioni pieni delle dodici tribù; figure molto pronte; ma più belle sono alcune di basso rilievo, quando girando con l'arca intorno alle mura della città predetta con suono di trombe rovinano le mura e gli Ebrei pigliano Ierico; nella quale è diminuito il paese, et abbassato sempre con osservanza da le prime figure ai monti e dai monti a la città, e da la città al lontano del paese di bassissimo rilievo, condotta tutta con una gran perfezzione. E perché Lorenzo di giorno in giorno si fece più pratico in quell'arte, si vide poi nel nono quadro la occisione di Golia gigante al quale Davit taglia la testa con fanciullesca e fiera attitudine; e rompe lo esercito dei Filistei quello di Dio; dove Lorenzo fece cavalli, carri et altre cose da guerra. Dopo fece Davit che tornando con la testa di Golia in mano, il popolo lo incontra sonando e cantando; i quali affetti sono tutti proprii e viva

ci. Restò a far tutto quel che poteva Lorenzo nella decima et ultima storia, dove la regina Sabba visita Salamone, con grandissima corte; nella qual parte fece un casamento tirato in prospettiva, molto bello; e tutte l'altre figure simili alle predette storie, oltra gl'ornamenti degli architravi che vanno intorno a dette porte, dove son frutti e festoni, fatti con la solita bontà. Nella quale opera, da per sé e tutta insieme, si conosce quanto il valore e lo sforzo d'uno artefice statuario possa nelle figure quasi tonde, in quelle mezze, nelle basse e nelle bassissime, oprare con invenzione ne' componimenti delle figure, e stravaganza dell'attitudini, nelle femmine e ne' maschi e nella varietà di casamenti, nelle prospettive e nell'avere nelle graziose arie di ciascun sesso, parimente osservato il decoro in tutta l'opera: ne' vecchi la gravità, e ne' giovani la leggiadria e la grazia. Et invero si può dire che questa opera abbia la sua perfezione in tutte le cose, e che ella sia la più bella opera del mondo e che si sia vista mai fra gli antichi e moderni. E ben debbe essere veramente lodato Lorenzo, da che un giorno Michelagnolo Buonarroti, fermatosi a veder questo lavoro, e dimandato quel che gliene paresse e se queste porte eron belle, rispose: “Elle son tanto belle, che elle starebbon bene alle porte del Paradiso”: lode veramente propria e detta da chi poteva giudicarla. E ben le poté Lorenzo condurre, avendovi, dall'età sua di venti anni che le cominciò, lavorato su quaranta anni con fatiche via più che estreme.

Fu aiutato Lorenzo in ripulire e nettare questa opera, poi che fu gettata, da molti, allora giovani, che poi furono maestri eccellenti, cioè da Filippo Brunelleschi, Masolino da Panicale, Niccolò Lamberti, orefici; Parri Spinelli, Antonio Filareto, Paulo Uccello, Antonio del Pollaiuolo, che allora era giovanetto, e dal molti altri; i quali, praticando insieme intorno a quel lavoro e conferendo, come si fa, stando in compagnia, giovarono non meno a sé stessi, che a Lorenzo. Al quale, oltre al pagamento che ebbe da' Consoli, donò la Signoria un buon podere vicino alla Badia di Settimo. Né passò molto che fu fatto de' Signori et onorato del supremo magistrato della città. Nel che tanto meritano di essere lodati i Fiorentini di gratitudine, quanto biasimati di essere stati verso altri uomini eccellenti della loro patria poco grati.

Fece Lorenzo dopo questa stupendissima opera l'ornamento di bronzo alla porta del medesimo tempio che è dirimpetto alla Misericordia con quei maravigliosi fogliami i quali non potette finire, sopragiugnendoli inaspettatamente la morte quando dava ordine, e già aveva quasi fatto il modello, di rifare la detta porta che già aveva fatta Andrea Pisano, il quale modello è oggi andato male, e lo vidi già, essendo giovanetto, in borgo Allegri, prima che dai descendenti di Lorenzo fusse lasciato andar male.

Ebbe Lorenzo un figliuolo chiamato Bonacorso, il quale finì di sua mano il fregio e quell'ornamento rimaso imperfetto, con grandissima diligenza; quell'ornamento, dico, il quale è la più rara e maravigliosa cosa che si possa veder di bronzo. Non fece poi Bonacorso, perché morì giovane, molt'opere come arebbe fatto, essendo a lui rimaso il segreto di gettar le cose in modo che venissono sottili, e con esso la sperienza et il modo di straforare il metallo in quel modo che si veggiono essere le cose lasciate da Lorenzo; il quale, oltre le cose di sua mano, lasciò agl'eredi molte anticaglie di marmo e di bronzo, come il letto di Policleto che era cosa rarissima, una gamba di bronzo grande quanto è il vivo, et alcune teste di femine e di maschi, con certi vasi stati da lui fatti condurre di Grecia con non piccola spesa. Lasciò parimente alcuni torsi di figure et altre cose molte; le quali tutte furono insieme con le facultà di Lorenzo mandate male; e parte vendute a Messer Giovanni Gaddi, allora cherico di camera e fra esse fu il detto letto di Policleto e l'altre cose migliori. Di Bonacorso rimase un figliuolo, chiamato Vettorio, il quale attese alla scultura, ma con poco profitto, come ne mostrano le teste che a Napoli fece nel palazzo del duca di Gravina, che non sono molto buone, perché non attese mai all'arte con amore, né con diligenza, ma sì bene a mandare in malora le facultà et altre cose che gli furono lasciate dal padre e da l'avolo. Finalmente, andando sotto papa Paulo Terzo in Ascoli per architetto, un suo servitore, per rubarlo, una notte lo scannò, e così spense la sua famiglia, ma non già la fama di Lorenzo, che viverà in eterno.

Ma tornando al detto Lorenzo, egli attese mentre visse a più cose e dilettossi della pittura e di lavorare di vetro; et in Santa Maria del Fiore fece quegli occhi che sono intorno alla cupola; eccetto uno che è di mano di Donato, che è quello dove Cristo incorona la Nostra Donna. Fece similmente Lorenzo li tre che sono sopra la porta principale di essa Santa Maria del Fiore, e tutti quelli delle capelle e delle tribune; e così l'occhio della facciata dinanzi di Santa Croce. In Arezzo fece una finestra per la capella maggior della Pieve, dentrovi la incoronazione di Nostra Donna e due altre figure per Lazzero di Feo di Baccio, mercante ricchissimo; ma perché tutte furono di vetri viniziani carichi di colore fanno i luoghi dove furono poste anzi oscuri che no. Fu Lorenzo dato per compagno al Brunellesco, quando gli fu allogata la Cupola di Santa Maria del Fiore, ma ne fu poi levato, come si dirà nella vita di Filippo.

Scrisse il medesimo Lorenzo un'opera volgare, nella quale trattò di molte varie cose, ma sì fattamente che poco costrutto se ne cava. Solo vi è, per mio giudizio, di buono che, dopo avere ragionato di molti pittori antichi, e particolarmente di quelli citati da Plinio, fa menzione brevemente di Cimabue, di Giotto e di molti altri di que' tempi. E ciò fece con molto più brevità che non doveva, non per altra cagione che per cadere con bel modo in ragionamento di se stesso, e raccontare, come fece, minutamente a una per una tutte l'opere sue. Né tacerò che egli mostra il libro essere stato fatto da altri, e poi nel processo dello scrivere, come quegli che sapea meglio disegnare, scarpellare e gettare di bronzo che tessere storie parlando di se stesso, dice in prima persona: “Io feci, io dissi, io faceva e diceva”.

Finalmente pervenuto all'anno sessantaquattresimo della sua vita, assalito da una grave e continua febbre si morì, lasciando di sé fama immortale nell'opere che egli fece e nelle penne degli scrittori; e fu onorevolmente sotterrato in Santa Croce. Il suo ritratto è nella porta principale di bronzo del tempio di San Giovanni, nel fregio del mezzo quando è chiusa, in un uomo calvo et a lato a lui è Bartoluccio suo padre, et appresso a loro si leggono queste parole: “Laurentii Cionis de Ghibertis mira arte fabricatum”. Furono i disegni di Lorenzo eccellentissimi e fatti con gran rilievo, come si vede nel nostro libro de' disegni, in uno Evangelista di sua mano et in alcuni altri di chiaro scuro bellissimi.

Disegnò anco ragionevolmente Bartoluccio suo padre, come mostra un altro Vangelista di sua mano in sul detto libro, assai meno buono che quello di Lorenzo. I quali disegni con alcuni di Giotto e d'altri ebbi, essendo giovanetto, da Vettorio Ghiberti l'anno 1528, e gl'ho sempre tenuti e tengo in venerazione e perché sono belli e per memoria di tanti uomini. E se quando io aveva stretta amicizia e pratica con Vettorio io avessi quello conosciuto che ora conosco, mi sarebbe agevolmente venuto fatto d'avere avuto molte altre cose che furono di Lorenzo, veramente bellissime. Fra molti versi, che latini e volgari sono stati fatti in diversi tempi, in lode di Lorenzo, per meno essere noiosi a chi legge, ci basterà porre qui di sotto gl'infrascritti:

Dum cernit valvas aurato ex aere nitentes in templo Michael Angelus obstupuit. Attonitusque diu, sic alta silentia rupit: “O divinum opus; o ianua digna polo!”.

FINE DELLA VITA DI LORENZO GHIBERTI SCULTORE

VITA DI MASOLINO

PITTORE

Grandissimo veramente credo che sia il contento di coloro che si avicinano al sommo grado della scienza in che si affaticano; e coloro parimente che oltre al diletto e piacere che sentono virtuosamente operando, godono qualche frutto delle loro fatiche, vivono vita senza dubbio quieta e felicissima. E se per caso avviene che uno nel corso felice della sua vita, caminando alla perfezzione d'una qualche scienza o arte, sia dalla morte sopravenuto, non rimane del tutto spenta la memoria di lui se si sarà, per conseguire il vero fine dell'arte sua, lodevolmente affaticato. Laonde dee ciascuno quanto può fatigare per conseguire la perfezzione, perché se ben è nel mezzo del corso impedito, si loda in lui, se non l'opere che non ha potuto finire, almeno l'ottima intenzione et il sollecito studio, che in quel poco che rimane è conosciuto.

Masolino da Panicale di Valdelsa, il quale fu discepolo di Lorenzo di Bartoluccio Ghiberti e nella sua fanciullezza bonissimo orefice e nel lavoro delle porte il miglior rinettatore che Lorenzo avesse, fu nel fare i panni delle figure molto destro e valente, e nel rinettare ebbe molto buona maniera et intelligenza. Onde nel cesellare fece con più destrezza alcune ammaccature morbidamente, così nelle membra umane come ne' panni. Diedesi costui alla pittura d'età d'anni XIX, et in quella si esercitò poi sempre, imparando il colorire da Gherardo dello Starnina. Et andatosene a Roma per studiare, mentre che vi dimorò, fece la sala di casa Orsina Vecchia in Monte Giordano; poi, per un male che l'aria gli faceva alla testa, tornatosi a Fiorenza, fece nel Carmine allato alla cappella del Crocifisso la figura del S. Pietro che vi si vede ancora. La quale essendo dagli artefici lodata, fu cagione che gli allogarono in detta chiesa la capella de' Brancacci con le storie di S. Pietro, della quale con gran studio condusse a fine una parte, come nella volta dove sono i quattro Vangelisti e dove Cristo toglie dalle reti Andrea e Piero; e dopo il suo piangere il peccato fatto, quando lo negò, et appresso la sua predicazione per convertire i popoli. Fecevi il tempestoso naufragio degli Apostoli, e quando San Piero libera dal male Petronilla sua figliuola. E nella medesima storia fece quando egli e Giovanni vanno al tempio, dove innanzi al portico è quel povero infermo che gli chiede la limosina, al quale non potendo dare né oro, né argento, col segno della croce lo libera. Son fatte le figure per tutta quell'opera con molta buona grazia, e dato loro grandezza nella maniera, morbidezza et unione nel colorire e rilievo e forza nel disegno. La quale opera fu stimata molto per la novità sua e per l'osservanza di molte parti che erono totalmente fuori della maniera di Giotto. Le quali storie, sopragiunto dalla morte, lasciò imperfette.

Fu persona Masolino di bonissimo ingegno, e molto unito e facile nelle sue pitture, le quali con diligenza e con grand'amore a fine si veggono condotte. Questo studio e questa volontà d'affaticarsi ch'era in lui del continovo, gli generò una cattiva complessione di corpo, la quale innanzi al tempo gli terminò la vita e troppo acerbo lo tolse al mondo. Morì Masolino giovane d'età d'anni 37, troncando l'aspettazione che i popoli avevano concetta di lui. Furono le pitture sue circa l'anno 1440. E Paulo Schiavo, che in Fiorenza in sul canto de' Gori fece la Nostra Donna con le figure che scortano i piedi in su la cornice, si ingegnò molto di seguir la maniera di Masolino, l'opere del quale avendo io molte volte considerato, truovo la maniera sua molto variata da quella di coloro che furono inanzi a lui, avendo egli aggiunto maestà alle figure e fatto il panneggiare morbido e con belle falde di pieghe. Sono anco le teste delle sue figure molto migliori che l'altre fatte inanzi, avendo egli trovato un poco meglio il girare degl'occhi, e nei corpi molte altre belle parti, e perché egli cominciò a intender bene l'ombre et i lumi; per ché lavorava di rilievo, fece benissimo molti scorti difficili, come si vede in quel povero che chiede la limosina a San Piero, il quale ha la gamba che manda indietro tanto accordata con le linee de' dintorni nel disegno e l'ombre nel colorito, che pare che ella veramente buchi quel muro. Cominciò similmente Masolino a fare ne' volti delle femine l'arie più dolci et ai giovani gl'abiti più leggiadri, che non ave-vano fatto gl'artefici vecchi; et anco tirò di prospettiva ragionevolmente. Ma quello in che valse più che in tutte l'altre cose fu nel colorire in fresco, perché egli ciò fece tanto bene, che le pitture sue sono sfumate et unite con tanta grazia, che le carni hanno quella maggiore morbidezza che si può imaginare. Onde se avesse avuto l'intera perfezzione del disegno, come arebbe forse avuto se fusse stato di più lunga vita, si sarebbe costui potuto annoverare fra i migliori, perché sono l'opere sue condotte con buona grazia, hanno grandezza nella maniera, morbidezza et unione nel colorito, et assai rilievo e forza nel disegno, se bene non è in tutte le parti perfetto.

FINE DELLA VITA DI MASOLINO

VITA DI PARRI SPINELLI

ARETINO

Parri di Spinello Spinelli dipintore aretino, avendo imparato i primi principii dell'arte dallo stesso suo padre, per mezzo di Messer Lionardo Bruni aretino condotto in Firenze, fu ricevuto da Lorenzo Ghiberti nella scuola dove molti giovani sotto la sua disciplina imparavano; e perché allora si rinettavano le porte di S. Giovanni, fu messo a lavorare intorno a quelle figure, in compagnia di molti altri, come si è detto di sopra. Nel che fare, presa amicizia con Masolino da Panicale perché gli piaceva il suo modo di disegnare, l'andò in molte cose imitando, sì come fece ancora in parte la maniera di Don Lorenzo degl'Angeli. Fece Parri le sue figure molto più svelte e lunghe, che niun pittore che fusse stato inanzi a lui; e dove gl'altri le fanno il più di dieci teste, egli le fece d'undici e talvolta di dodici; né perciò avevano disgrazia, come che fossero sottili e facessero sempre arco o in sul lato destro o in sul manco, perciò che, sì come pareva a lui, avevano, e lo diceva egli stesso, più bravura. Il panneggiare de' panni fu sottilissimo e copioso ne' lembi, i quali alle sue figure cascavano di sopra le braccia insino attorno ai piedi. Colorì benissimo a tempera, et in fresco perfettamente. E fu egli il primo che nel lavorare in fresco lasciasse il fare di verdaccio sotto le carni, per poi con rossetti di color di carne e chiari scuri, a uso d'acquerelli velarle, sì come aveva fatto Giotto e gl'altri vecchi pittori. Anzi usò Parri i colori sodi nel far le mestiche e le tinte, mettendogli con molta discrezione, dove gli parea che meglio stessono, cioè i chiari nel più alto luogo, i mezzani nelle bande, e nella fine de' contorni gli scuri. Col qual modo di fare mostrò nell'o-pere più facilità e diede più lunga vita alle pitture in fresco; perché, messi i colori ai luoghi loro, con un pennello grossetto e molliccio li univa insieme e faceva l'opere con tanta pulitezza, che non si può disiderar meglio, et i coloriti suoi non hanno paragone. Essendo dunque stato Parri fuor della patria molti anni, poi che fu morto il padre fu dai suoi richiamato in Arezzo, là dove, oltre molte cose le quali troppo sarebbe lungo raccontare, ne fece alcune degne di non essere in niuna guisa taciute. Nel Duomo vecchio fece in fresco tre Nostre Donne variate; e dentro alla principal porta di quella chiesa, entrando a man manca, dipinse in fresco una storia del Beato Tommasuolo romito dal Sacco et uomo in quel tempo di santa vita. E perché costui usava di portare in mano uno specchio, dentro al quale vedeva, secondo che egli affermava, la passione di Gesù Cristo, Parri lo ritrasse in quella storia inginocchioni e con quello specchio nella destra mano, la quale egli teneva levata al cielo. E di sopra facendo in un trono di nuvole Gesù Cristo et intorno a lui tutti i misterii della Passione, fece con bellissima arte che tutti riverberavano in quello specchio sì fattamente, che non solo il beato Tommasolo, ma gli vedeva ciascuno che quella pittura mirava. La quale invenzione certo fu capricciosa, difficile e tanto bella che ha insegnato a chi è venuto poi a contraffare molte cose per via di specchi. Né tacerò, poiché sono in questo proposito venuto, quello che operò questo santo uomo una volta in Arezzo, et è questo: non restando egli di affaticarsi continuamente per ridurre gl'Aretini in concordia, ora predicando e talora predicendo molte disavventure, conobbe finalmente che perdeva il tempo. Onde, entrato un giorno nel palazzo dove i sessanta si ragunavano, il detto beato che ogni dì gli vedeva far consiglio e non mai deliberar cosa che fusse se non in danno della città, quando vide la sala esser piena, s'empié un gran lembo della vesta di carboni accesi, e con essi entrato dove erano i sessanta e tutti gl'altri magistrati della città, gli gettò loro fra i piedi arditamente, dicendo: “Signori, il fuoco è fra voi, abbiate cura alla rovina vostra”, e ciò detto si partì. Tanto potette la simplicità e, come volle Dio, il buon ricordo di quel sant'uomo, che quello che non avevano mai potuto le predicazioni e le minacce, adoperò compiutamente la detta azzione, conciò fusse che, uniti indi a non molto insieme, governarono per molti anni poi quella città con molta pace e quiete d'ognuno.

Ma tornando a Parri, dopo la detta opera, dipinse nella chiesa e spedale di S. Cristofano, a canto alla Compagnia della Nunziata, per Monna Mattea de' Testi, moglie di Carcascion Florinaldi che lasciò a quella chiesetta bonissima en-trata, in una capella, a fresco, Cristo crucifisso, et intorno e da capo molti Angeli che, in una certa aria oscura volando, piangono amaramente. A' pie' della croce sono, da una banda la Madalena e l'altre Marie, che tengono in braccio la Nostra Donna tramortita, e dall'altra S. Iacopo e S. Cristofano. Nelle faccie dipinse S. Caterina, S. Niccolò, la Nunziata e Gesù Cristo alla colonna. E sopra la porta di detta chiesa in un arco, una Pietà, S. Giovanni e la Nostra Donna. Ma quelle di dentro sono state (dalla capella in fuori) guaste. E l'arco per mettere una porta di macigno moderno fu rovinato, e per fare ancora, con l'entrate di quella Compagnia, un monasterio per cento monache. Del quale monasterio aveva fatto un modello Giorgio Vasari, molto considerato, ma è stato poi alterato, anzi ridotto in malissima forma da chi ha di tanta fabrica avuto indegnamente il governo; essendo che bene spesso si percuote in certi uomini, come si dice, saccenti, (che per lo più sono ignoranti), i quali, per parere d'intendere, si mettono arrogantemente molte volte a voler far l'architetto, e sopra 'ntendere; e guastando il più delle volte gl'ordini et i modelli fatti da coloro che, consumati negli studi e nella pratica del fare, architettano giudiziosamente; e ciò con danno de' posteri, che perciò vengono privi dell'utile, commodo, bellezza, ornamento e grandezza, che nelle fabriche, e massimamente che hanno a servire al publico, sono richiesti.

Lavorò ancora Parri nella chiesa di S. Bernardo, monasterio de' monaci di Monte Uliveto, dentro alla porta principale, due capelle che la mettono in mezzo: in quella che è a man ritta intitolata alla Trinità, fece un Dio Padre che sostiene con le braccia Cristo crucifisso, e sopra è la colomba dello Spirito Santo in un coro d'Angeli; et in una faccia della medesima dipinse a fresco alcuni Santi perfettamente; nell'altra, dedicata alla Nostra Donna, è la Natività di Cristo, et alcune femine, che in una tinelletta di legno lo lavano con una grazia donnesca troppo bene espressa. Vi sono anco alcuni pastori nel lontano, che guardano le pecorelle, con abiti rusticali di que' tempi, molto pronti, et attentissimi alle parole dell'Angelo, che dice loro che vadano in Nazarette. Nell'altra faccia è l'adorazione de' Magi, con cariaggi, camelli, giraffe e con tutta la corte di que' tre re; i quali offerendo reverentemente i loro tesori, adorano Cristo in grembo alla Madre. Fece oltre ciò, nella volta et in alcuni frontespizii di fuori, alcune storie a fresco bellissime. Dicesi che predicando, mentre Parri faceva quest'opera, fra' Bernardino da Siena, frate di S. Francesco et uomo di santa vita, in Arezzo, che avendo ridotto molti de' suoi frati al vero vivere religioso e convertite molte altre persone, che nel far loro la chiesa di Sargiano, fece fare il modello a Parri; e che dopo, avendo inteso che lontano dalla città un miglio si facevano molte cose brutte in un bosco vicino a una fontana, se n'andò là, seguitato da tutto il popolo d'Arezzo, una mattina con una gran croce di legno in mano, sì come costumava di portare; e che, fatta una solenne predica, fece disfar la fonte e tagliar il bosco, e dar principio poco dopo a una capelletta che vi si fabricò a onore di Nostra Donna, con titolo di S. Maria delle Grazie; dentro la quale volle poi che Parri dipignesse di sua mano, come fece, la Vergine Gloriosa che aprendo le braccia cuopre col suo manto tutto il popolo d'Arezzo. La quale Santissima Vergine ha poi fatto, e fa di continuo in quel luogo, molti miracoli. In questo luogo ha fatto poi la comunità d'Arezzo fare una bellissima chiesa, et in mezzo di quella, accomodata la Nostra Donna fatta da Parri; alla quale sono stati fatti molti ornamenti di marmo e di figure, attorno e sopra l'altare, come si è detto nella vita di Luca della Robbia e di Andrea suo nipote, e come si dirà di mano in mano nelle vite di coloro, l'opere dei quali adornano quel santo luogo.

Parri, non molto dopo, per la divozione che aveva in quel Santo uomo, ritrasse il detto S. Bernardino a fresco in un pilastro grande del Duomo vecchio. Nel qual luogo dipinse ancor in una capella dedicata al medesimo, quel Santo glorificato in cielo, e circondato da una legione d'Angeli, con tre mezze figure: due dalle bande, che erano la Pacienza e la Povertà, et una sopra che era la Castità; le quali tre virtù ebbe in sua compagnia quel Santo insino alla morte. Sotto i piedi aveva alcune mitrie da vescovi e cappelli da cardinali, per dimostrare che, facendosi beffe del mondo, aveva cotali dignità dispregiate. E sotto a queste pitture era ritratta la città d'Arezzo nel modo che ella in que' tempi si trovava. Fece similmente Parri fuor del Duomo, per la Compagnia della Nunziata, in una capelletta o vero maestà, in fresco la Nostra Donna, che annunziata dall'Angelo, per lo spavento tutta si torce. E nel cielo della volta, che è a crociere, fece in ogni angolo due Angeli, che volando in aria e facendo musica con varii strumenti, pare che s'accordino, e che quasi si senta dolcissima armonia; e nelle facce sono quattro Santi, cioè due per lato. Ma quello in che mostrò di avere, variando, espresso il suo concetto, si vede ne' due pilastri che reggono l'arco dinanzi, dove è l'entrata; perciò che in uno è una Carità bellissima, che affettuosamente allatta un figliuolo, a un altro fa festa et il terzo tien per la mano; nell'altro è una Fede con un nuovo modo dipinta, avendo in una mano il calice e la croce, e nell'altra una tazza d'acqua, la quale versa sopra il capo d'un putto, faccendolo cristiano. Le quali tutte figure sono le migliori senza dubbio che mai facesse Parri in tutta la sua vita, e sono eziandio appresso i moderni maravigliose. Dipinse il medesimo dentro la città, nella chiesa di

S. Agostino dentro al coro de' frati, molte figure in fresco, che si conoscono alla maniera de' panni et all'essere lunghe, svelte e torte, come si è detto di sopra. Nella chiesa di San Giustino dipinse in fresco nel tramezzo un S. Martino a ca-vallo, che si taglia un lembo della vesta per darlo a un povero, e due altri Santi. Nel Vescovado ancora, cioè nella facciata d'un muro, dipinse una Nunziata, che oggi è mezzo guasta per essere stata molti anni scoperta. Nella Pieve della medesima città dipinse la capella che è oggi vicina alla stanza dell'Opera, la quale dall'umidità è stata quasi del tutto rovinata. È stata grande veramente la disgrazia di questo povero pittore nelle sue opere, poiché quasi la maggior parte di quelle, o dall'umido o dalle rovine sono state consumate. In una colonna tonda di detta Pieve dipinse a fresco un S. Vincenzio, et in S. Francesco fece, per la famiglia de' Viviani, intorno a una Madonna di mezzo rilievo, alcuni Santi, e sopra nell'arco, gli Apostoli che ricevono lo Spirito Santo, nella volta alcuni altri Santi, e da un lato Cristo con la croce in spalla, che versa dal costato sangue nel calice, et intorno a esso Cristo alcuni Angeli molto ben fatti. Dirimpetto a questa fece per la Compagnia degli Scarpellini, Muratori e Legnaiuoli nella loro capella de' quattro Santi incoronati, una Nostra Donna, i detti Santi con gli strumenti di quelle arti in mano, e di sotto, pure in fresco, due storie de' fatti loro e quando sono decapitati e gettati in mare. Nella quale opera sono attitudini e forze bellissime in coloro che si levano que' corpi insaccati sopra le spalle per portargli al mare, vedendosi in loro prontezza e vivacità. Dipinse ancora in S. Domenico, vicino all'altar maggiore nella facciata destra, una Nostra Donna, S. Antonio e S. Niccolò a fresco, per la famiglia degl'Alberti da Catenaia, del qual luogo erano signori, prima che rovinato quello venissero ad abitare Arezzo e Firenze. E che siano una medesima cosa lo dimostra l'arme degl'uni e degl'altri, che è la medesima. Ben è vero che oggi quelli d'Arezzo, non degl'Alberti ma da Catenaia sono chiamati, e quelli di Firenze non da Catenaia ma degl'Alberti. E mi ricorda aver veduto, et anco letto, che la Badia del Sasso, la quale era nell'Alpe di Catenaia, e che oggi è rovinata e ridotta più a basso verso Arno, fu dagli stessi Alberti edificata alla Congregazione di Camaldoli, et oggi la possiede il monasterio degl'Angeli di Firenze, e la riconosce dalla detta famiglia che in Firenze è nobilissima.

Dipinse Parri nell'udienza vecchia della Fraternità di S. Maria della Misericordia una Nostra Donna che ha sotto il manto il popolo d'Arezzo, nel quale ritrasse di naturale quelli che allora governavano quel luogo pio, con abiti indosso secondo l'usanze di que' tempi. E fra essi uno chiamato Braccio, che oggi quando si parla di lui è chiamato Lazzaro ricco, il quale morì l'anno 1422, e lasciò tutte le sue ricchezze e facultà a quel luogo che le dispensa in servigio de' poveri di Dio, essercitando le sante opere della misericordia con molta carità. Da un lato mette in mezzo questa Madonna S. Gregorio papa, e dall'altro S. Donato vescovo e protettore del popolo aretino. E perché furono in questa opera benissimo serviti da Parri coloro che allora reggevano quella Fraternità, gli feciono fare in una tavola a tempera una Nostra Donna col Figliuolo in braccio, alcuni Angeli che gl'aprono il manto sotto il quale è il detto popolo, e da basso S. Laurentino e Pergentino martiri. La qual tavola si mette ogni anno fuori a dì due di giugno e vi si posa sopra poi che è stata portata dagli uomini di detta Compagnia solennemente a processione insino alla chiesa di detti Santi, una cassa d'argen-to lavorata da Forzore orefice, fratello di Parri, dentro la quale sono i corpi di detti Santi Laurentino e Pergentino; si mette fuori dico, e si fa il detto altare sotto una coperta di tende in sul canto della Croce dove è la detta chiesa, perché essendo ella piccola non potrebbe capire il popolo che a quella festa concorre. La predella sopra la quale posa la detta tavola, contiene di figure piccole il martirio di que' due Santi, tanto ben fatto che è certo per cosa piccola una maraviglia. È di mano di Parri nel Borgo a Piano sotto lo sporto d'una casa, un tabernacolo, dentro al quale è una Nunziata in fresco, che è molto lodata; e nella Compagnia de' Puraccioli a S. Agostino, fé in fresco una S. Caterina vergine e martire bellissima. Similmente nella chiesa di Muriello alla Fraternità de' Cherici, dipinse una Santa Maria Maddalena di tre braccia. Et in S. Domenico, dove all'entrare della porta sono le corde delle campane, dipinse la capella di S. Niccolò in fresco, dentrovi un Crucifisso grande con quattro figure, lavorato tanto bene che par fatto ora. Nell'arco fece due storie di S. Niccolò, cioè quando getta le palle d'oro alle pulzelle, e quando libera due dalla morte; dove si vede il carnefice apparecchiato a tagliare loro la testa, molto ben fatto. Mentre che Parri faceva quest'opera, fu assaltato da certi suoi parenti armati con i quali piativa non so che dote; ma perché vi sopragiunsono subito alcuni, fu soccorso di maniera che non gli feciono alcun male. Ma fu nondimeno, secondo che si dice, la paura che egli ebbe cagione che, oltre al fare le figure pendenti in sur un lato, le fece quasi sempre da indi in poi spaventaticce. E perché si trovò molte fiate lacero dalle male lingue e dai morsi dell'invidie, fece in questa capella una storia di lingue che abruciavano, et alcuni diavoli che intorno a quelle facevano fuoco; in aria era un Cristo che le malediceva e da un lato queste parole: “A lingua dolosa”. Fu Parri molto studioso delle cose dell'arte e disegnò benissimo, come ne dimostrano molti disegni che ho veduti di sua mano; e particolarmente un fregio di venti storie della vita di S. Donato, fatto per una sua sorella che ricamava eccellentemente. E si stima lo facesse perché s'avesse a fare ornamento all'altar maggiore di Vescovado. E nel nostro libro sono alcune carte da lui disegnate di penna molto bene. Fu ritratto Parri da Marco da Monte Pulciano, discepolo di Spinello, nel chiostro di S. Bernardo d'Arezzo.

Visse anni LVI; e si abreviò la vita, per essere di natura malinconico, solitario e troppo assiduo negli studi dell'arte et al lavorare. Fu sotterrato in S. Agostino nel medesimo sepolcro dove era stato posto Spinello suo padre, e recò dispiacere la sua morte a tutti i virtuosi, che di lui ebbono cognizione, etc.

FINE DELLA VITA DI PARRI SPINELLI PITTORE

VITA DI MASACCIO DA S. GIOVANNI DI VALDARNO

PITTORE

È costume della natura, quando ella fa una persona molto eccellente in alcuna professione, molte volte non la far sola, ma in quel tempo medesimo, e vicino a quella, farne un'altra a sua concorrenza, a cagione che elle possino giovare l'uno all'altra nella virtù e nella emulazione. La qual cosa, oltra il singular giovamento di quegli stessi che in ciò concorrono, accende ancora oltra modo gli animi di chi viene dopo quella età a sforzarsi con ogni studio e con ogni industria, di pervenire a quello onore et a quella gloriosa reputazione, che ne' passati tutto 'l giorno altamente sente lodare. E che questo sia il vero, lo aver Fiorenza prodotto in una medesima età Filippo, Donato, Lorenzo, Paulo Uccello e Masaccio, eccellentissimi ciascuno nel genere suo, non solamente levò via le rozze e goffe maniere, mantenutesi fino a quel tempo, ma per le belle opere di costoro incitò et accese tanto gli animi di chi venne poi, che l'operare in questi mestieri si è ridotto in quella grandezza et in quella perfezzione che si vede ne' tempi nostri. Di che abbiamo noi, nel vero, obligo grande a que' primi, che mediante le loro fatiche ci mostrarono la vera via da caminare al grado supremo; e quanto alla maniera buona delle pitture, a Masaccio massimamente, per avere egli, come disideroso d'acquistar fama, considerato, - non essendo la pittura altro che un contraffar tutte le cose della natura vive col disegno e co' colori semplicemente, come ci sono prodotte da lei, - che colui che ciò più perfettamente consegue si può dire eccellente. La qual cosa, dico, conosciuta da Masaccio, fu cagione che mediante un continuo studio imparò tanto, che si può anoverare fra i primi che per la maggior parte levassino le durezze, imperfezzioni e difficultà dell'arte, e che egli desse principio alle belle attitudini, movenze, fierezze e vivacità, et a un certo rilievo veramente proprio e naturale. Il che infino a lui non aveva mai fatto niun pittore. E perché fu di ottimo giudizio, considerò che tutte le figure, che non posavano né scortavano coi piedi in sul piano, ma stavano in punta di piedi, mancavano d'ogni bontà e maniera nelle cose essenziali; e coloro che le fanno mostrano di non intender lo scorto. E se bene Paulo Uccello vi si era messo et aveva fatto qualche cosa agevolando in parte questa difficultà, Masaccio nondimeno, variando in molti modi, fece molto meglio gli scorti, e per ogni sorte di veduta, che niun altro che insino allora fusse stato. E dipinse le cose sue con buona unione e morbidezza, accompagnando con le incarnazioni delle teste e dei nudi i colori de' panni, i quali si dilettò di fare con poche pieghe e facili, come fa il vivo e naturale. Il che è stato di grande utile a gl'artefici, e ne merita essere comendato, come se ne fusse stato inventore; perché invero le cose fatte inanzi a lui si possono chiamar dipinte, e le sue vive, veraci e naturali, allato a quelle state fatte dagli altri.

L'origine di costui fu da Castello San Giovanni di Valdarno, e dicono che quivi si veggono ancora alcune figure fatte da lui nella sua prima fanciullezza. Fu persona astrattissima e molto a caso, come quello che avendo fisso tutto l'ani-mo e la volontà alle cose dell'arte sola, si curava poco di sé e manco di altrui. E perché e' non volle pensar già mai in maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e non che altro, al vestire stesso, non costumando riscuotere i danari da' suoi debitori, se non quando era in bisogno estremo, per Tommaso, che era il suo nome, fu da tutti detto Masaccio. Non già perché e' fusse vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta straccurataggine, con la quale nientedimanco era egli tanto amorevole nel fare altrui servizio e piacere, che più oltre non può bramarsi.

Cominciò l'arte nel tempo che Masolino da Panicale lavorava nel Carmine di Fiorenza la cappella de' Brancacci, seguitando sempre quanto e' poteva le vestigie di Filippo e di Donato, ancora che l'arte fusse diversa. E cercando continuamente nell'operare, di fare le figure vivissime e con bella prontezza a la similitudine del vero. E tanto modernamente trasse fuori degli altri i suoi lineamenti et il suo dipignere, che l'opere sue sicuramente possono stare al paragone con ogni disegno e colorito moderno. Fu studiosissimo nello operare, e nelle difficultà della prospettiva artifizioso e mirabile, come si vede in una sua istoria di figure piccole, che oggi è in casa Ridolfo del Ghirlandaio, nella quale, oltre il Cristo che libera lo indemoniato, sono casamenti bellissimi in prospettiva, tirati in una maniera che e' dimostrano in un tempo medesimo il didentro et il difuori, per avere egli presa la loro veduta, non in faccia, ma in su le cantonate per maggior difficultà. Cercò più degli altri maestri di fare gli ignudi e gli scorti nelle figure, poco usati avanti di lui. Fu facilissimo nel far suo, et è, come si è detto, molto semplice nel panneggiare. È di sua mano una tavola fatta a tempera, nella quale è una Nostra Donna in grembo a Sant'Anna, col Figliuolo in collo; la quale tavola è oggi in S. Ambruogio di Firenze nella capella che è allato alla porta, che va al parlatorio delle monache. Nella chiesa ancora di San Niccolò di là d'Arno, è nel tramezzo una tavola di mano di Masaccio dipinta a tempera, nella quale, oltra la Nostra Donna che vi è dall'Angelo annunziata, vi è un casamento pieno di colonne, tirato in prospettiva, molto bello perché, al disegno delle linee che è perfetto, lo fece di maniera con i colori sfuggire, che a poco a poco abagliatamente si perde di vista: nel che mostrò assai d'intender la prospettiva.

Nella Badia di Firenze dipinse a fresco in un pilastro, dirimpetto a uno di quegli che reggono l'arco dell'altar maggiore, Santo Ivo di Brettagna, figurandolo dentro a una nicchia, perché i piedi scortassino alla veduta di sotto. La qual cosa non essendo sì bene stata usata da altri, gl'acquistò non piccola lode, e sotto il detto Santo sopra un'altra cornice, gli fece intorno vedove, pupilli e poveri, che da quel Santo sono nelle loro bisogne aiutati. In Santa Maria Novella ancora dipinse a fresco sotto il tramezzo della chiesa una Trinità che è posta sopra l'altar di S. Ignazio, e la Nostra Donna e S. Giovanni Evangelista, che la mettono in mezzo contemplando Cristo crucifisso. Dalle bande sono ginocchioni due figure, che per quanto si può giudicare, sono ritratti di coloro che la feciono dipignere; ma si scorgono poco, essendo ricoperti da un ornamento messo d'oro. Ma quello che vi è bellissimo oltre alle figure, è una volta a mezza botte tirata in prospettiva, e spartita in quadri pieni di rosoni, che diminuiscono e scortano così bene, che pare che sia bucato quel muro. Dipinse ancora in Santa Maria Maggiore, a canto alla porta del fianco, la quale va a San Giovanni, nella tavola d'una capella, una Nostra Donna, Santa Caterina e San Giuliano. E nella predella fece alcune figure piccole della vita di Santa Caterina e San Giuliano che ammazza il padre e la madre, e nel mezzo fece la Natività di Gesù Cristo con quella semplicità e vivezza che era sua propria nel lavorare. Nella chiesa del Carmine di Pisa, in una tavola che è dentro a una capella del tramezzo, è una Nostra Donna col Figliuolo, et a' piedi sono alcuni Angioletti che suonano, uno de' quali sonando un liuto, porge con attenzione l'orecchio all'armonia di quel suono. Mettono in mezzo la Nostra Donna, San Piero, San Giovanni Battista, San Giuliano e San Niccolò, figure tutte molto pronte e vivaci. Sotto, nella predella, sono di figure piccole storie della vita di que' Santi, e nel mezzo i tre Magi, che offeriscono a Cristo; et in questa parte sono alcuni cavalli ritratti dal vivo, tanto belli che non si può meglio desiderare; e gli uomini della corte di que' tre re sono vestiti di varii abiti, che si usavano in que' tempi. E sopra, per finimento di detta tavola, sono in più quadri molti Santi intorno a un Crucifisso. Credesi che la figura d'un Santo in abito di vescovo, che è in quella chiesa in fresco a lato alla porta che va nel convento, sia di mano di Masaccio, ma io tengo per fermo ch'ella sia di mano di fra Filippo, suo discepolo. Tornato da Pisa, lavorò in Fiorenza una tavola, dentrovi un maschio et una femmina ignudi, quanto il vivo; la quale si truova oggi in casa Palla Rucellai. Appresso, non sentendosi in Fiorenza a suo modo, e stimolato dalla affezione et amore dell'arte, deliberò per imparare e superar gli altri andarsene a Roma, e così fece. E quivi, acquistata fama grandissima, lavorò al cardinale di San Clemente nella chiesa di San Clemente una cappella, dove a fresco fece la Passione di Cristo co' ladroni in croce e le storie di Santa Caterina Martire. Fece ancora a tempera molte tavole, che ne' travagli di Roma si son tutte o perse o smarrite: una nella chiesa di Santa Maria Maggiore, in una capelletta vicina alla sagrestia, nella quale sono quattro Santi tanto ben condotti, che paiono di rilievo, e nel mezzo Santa Maria della Neve; et il ritratto di papa Martino di naturale, il quale con una zappa disegna i fondamenti di quella chiesa, et appresso a lui è Sigismondo Secondo imperatore. Considerando questa opera un giorno Michelagnolo et io, egli la lodò molto, e poi soggiunse coloro essere stati vivi ne' tempi di Masaccio; al quale mentre in Roma lavoravano le facciate della chiesa di Santo Ioanni per Papa Martino, Pisanello e Gentile da Fabriano, n'avevano allogato una parte; quando egli avuto nuove che Cosimo de' Medici, dal qual era molto aiutato e favorito, era stato richiamato dall'esilio, se ne tornò a Fiorenza. Dove gli fu allogato, essendo morto Masolino da Panicale, che l'aveva cominciata, la capella de' Brancacci nel Carmine, alla quale, prima che mettesse mano, fece come per saggio il San Paulo che è presso alle corde delle campane, per mostrare il miglioramento che egli aveva fatto nell'arte. E dimostrò veramente infinita bontà in questa pittura; conoscendosi nella testa di quel Santo, il quale è Bartolo di Angiolino Angiolini ritratto di naturale, una terribilità tanto grande, che e' pare che la sola parola manchi a questa figura. E chi non conobbe San Paulo, guardando questo, vedrà quel dabbene della civiltà romana, insieme con la invitta fortezza di quell'animo divinissimo tutto intento alle cure della fede. Mostrò ancora in questa pittura medesima l'intelligenza di scortare le vedute di sotto in su, che fu veramente maravigliosa, come apparisce ancor oggi ne' piedi stessi di detto Apostolo, per una difficultà facilitata in tutto da lui, rispetto a quella goffa maniera vecchia che faceva (come io dissi poco di sopra) tutte le figure in punta di piedi; la qual maniera durò fino a lui senza che altri la correggesse, et egli solo e prima di ogni altro la ridusse al buono del dì d'oggi.

Accadde mentre che e' lavorava in questa opera, che e' fu consagrata la detta chiesa del Carmine, e Masaccio in memoria di ciò, di verde dipinse, di chiaro e scuro, sopra la porta che va in convento, dentro nel chiostro, tutta la sagra come ella fu. E vi ritrasse infinito numero di cittadini in mantello et in cappuccio, che vanno dietro a la processione; fra i quali fece Filippo di Ser Brunellesco in zoccoli, Donatello, Masolino da Panicale, stato suo maestro, Antonio Brancacci, che gli fece far la cappella, Niccolò da Uzzano, Giovanni di Bicci de' Medici, Bartolomeo Valori, i quali sono anco, di mano del medesimo, in casa di Simon Corsi gentiluomo fiorentino. Ritrassevi similmente Lorenzo Ridolfi, che in que' tempi era ambasciadore per la Repubblica fiorentina a Vinezia. E non solo vi ritrasse i gentiluomini sopra detti di naturale, ma anco la porta del convento et il portinaio con le chiavi in mano. Questa opera veramente ha in sé molta perfezzione, avendo Masaccio saputo mettere tanto bene in sul piano di quella piazza a cinque e sei per fila, l'ordinanza di quelle genti che vanno diminuendo con proporzione e giudizio secondo la veduta dell'occhio, che è proprio una maraviglia; e massimamente che vi si conosce come se fussero vivi, la discrezione che egli ebbe in far quegl'uomini non tutti d'una misura, ma con una certa osservanza che distingue quelli che sono piccoli e grossi, dai grandi e sottili, e tutti posano i piedi in sur un piano, scortando in fila tanto bene, che non fanno altrimenti i naturali. Dopo questo, ritornato al lavoro della capella de' Brancacci, seguitando le storie di San Piero cominciate da Masolino, ne finì una parte, cioè l'i-storia della cattedra, il liberare gl'infermi, suscitare i morti et il sanare gli attratti con l'ombra nell'andare al tempio con San Giovanni. Ma tra l'altre notabilissima apparisce quella dove San Piero per pagare il tributo, cava per commissione di Cristo i danari del ventre del pesce; perché, oltra il vedersi quivi un Apostolo che è nell'ultimo, nel quale è il ritratto stesso di Masaccio fatto da lui medesimo a lo specchio, tanto bene ch'e' par vivo vivo, vi si conosce l'ardir di San Piero nella dimanda e la attenzione degl'Apostoli nelle varie attitudini intorno a Cristo, aspettando la resoluzione con gesti sì pronti che veramente appariscon vivi. Et il San Piero massimamente, il quale nell'affaticarsi a cavare i danari del ventre del pesce ha la testa focosa per lo stare chinato. E molto più quando e' paga il tributo, dove si vede l'affetto del contare e la sete di colui che riscuote, che si guarda i danari in mano con grandissimo piacere. Dipinsevi ancora la resurrezzione del figliuolo del re, fatta da San Piero e San Paulo, ancora che per la morte d'esso Masaccio restasse imperfetta l'opera, che fu poi finita da Filippino. Nell'istoria dove San Piero battezza, si stima grandemente un ignudo che triema tra gl'al-tri battezzati assiderando di freddo, condotto con bellissimo rilievo e dolce maniera, il quale dagli artefici e vecchi e moderni è stato sempre tenuto in riverenza et ammirazione, per il che da infiniti disegnatori e maestri continuamente fino al dì d'oggi è stata frequentata questa cappella. Nella quale sono ancora alcune teste vivissime e tanto belle che ben si può dire che nessuno maestro di quella età si accostasse tanto a' moderni quanto costui. Laonde le sue fatiche meritano infinitissime lodi; e massimamente per avere egli dato ordine nel suo magisterio alla bella maniera de' tempi nostri. E che questo sia il vero, tutti i più celebrati scultori e pittori che sono stati da lui in qua esercitandosi e studiando in questa cappella, sono divenuti eccellenti e chiari, cioè fra' Giovanni da Fiesole, fra' Filippo, Filippino che la finì, Alessio Baldovinetti, Andrea dal Castagno, Andrea del Verrocchio, Domenico del Grillandaio, Sandro di Botticello, Lionardo da Vinci, Pietro Perugino, fra' Bartolomeo di San Marco, Mariotto Albertinelli et il divinissimo Michelagnolo Buonarroti. Raffaello ancora da Urbino di quivi trasse il principio della bella maniera sua, il Granaccio, Lorenzo di Credi, Ridolfo del Grillandaio, Andrea del Sarto, il Rosso, il Francia Bigio, Baccio Bandinelli, Alonso Spagnuolo, Iacopo da Puntormo, Pierino del Vaga e Toto del Nunziata; et insomma tutti coloro che hanno cercato imparar quella arte, sono andati a imparar sempre a questa cappella, et apprendere i precetti e le regole del far bene da le figure di Masaccio. E se io non ho nominati molti forestieri e molti Fiorentini che sono iti a studiare a detta cappella, basti che dove corrono i capi dell'arte, quivi ancora concorrono le membra. Ma con tutto che le cose di Masaccio siano state sempre in cotanta riputazione, egli è nondimeno opinione, anzi pur credenza ferma di molti, che egli arebbe fatto ancora molto maggior frutto nell'arte, se la morte, che di 26 anni ce lo rapì, non ce lo avesse tolto così per tempo. Ma, o fusse l'invi-dia o fusse pure che le cose buone comunemente non durano molto, e' si morì nel bel del fiorire, et andossene sì di subito, che e' non mancò chi dubitasse in lui di veleno, assai più che d'altro accidente.

Dicesi che sentendo la morte sua, Filippo di Ser Brunellesco disse: “Noi abbiamo fatto in Masaccio una grandissima perdita”, e gli dolse infinitamente, essendosi affaticato gran pezzo in mostrargli molti termini di prospettiva e d'architet-tura. Fu sotterrato nella medesima chiesa del Carmine l'anno 1443. E se bene allora non gli fu posto sopra il sepolcro memoria alcuna, per essere stato poco stimato vivo, non gli è però mancato doppo la morte chi lo abbia onorato di questi epitaffi:

D'ANNIBAL CARO

Pinsi, e la mia pittura al ver fu pari; l'atteggiai, l'avvivai, le diedi il moto, le diedi affetto; insegni il Buonarroto a tutti gli altri, e da me solo impari.

DI FABIO SEGNI

Invida cur Lachesis primo sub flore iuventae pollice discindis stamina funereo? Hoc uno occiso innumeros occidis Apelles; picturae omnis obit, hoc obeunte, lepos. Hoc Sole extincto, extinguuntur sydera cuncta. Heu decus omne perit, hoc pereunte, simul.

VITA DI FILIPPO BRUNELLESCHI

SCULTORE ET ARCHITETTO

Molti sono creati dalla natura piccoli di persona e di fattezze, che hanno l'animo pieno di tanta grandezza et il cuore di sì smisurata terribilità, che se non cominciano cose difficili e quasi impossibili, e quelle non rendono finite con maraviglia di chi le vede, mai non dànno requie alla vita loro. E tante cose, quante l'occasione mette nelle mani di questi, per vili e basse che elle si siano, le fanno essi divenire in pregio et altezza. Laonde mai non si doverebbe torcere il muso, quando s'incontra in persone che in aspetto non hanno quella prima grazia o venustà, che dovrebbe dare la natura nel venire al mondo a chi opera in qualche virtù, perché non è dubbio che sotto le zolle della terra si ascondono le vene dell'oro. E molte volte nasce in questi che sono di sparutissime forme, tanta generosità d'animo e tanta sincerità di cuore che, sendo mescolata la nobiltà con esse, non può sperarsi da loro se non grandissime maraviglie; perciò che e' si sforzano di abbellire la bruttezza del corpo con la virtù dell'ingegno, come apertamente si vide in Filippo di Ser Brunellesco, sparuto de la persona non meno che Messer Forese da Rabatta e Giotto; ma di ingegno tanto elevato che ben si può dire che e' ci fu donato dal cielo per dar nuova forma alla architettura, già per centinaia d'anni smarrita; nella quale gl'uomini di quel tempo in mala parte molti tesori avevano spesi, facendo fabriche senza ordine, con mal modo, con tristo disegno, con stranissime invenzioni, con disgraziatissima grazia e con peggior ornamento. E volle il cielo, essendo stata la terra tanti anni senza uno animo egregio et uno spirito divino, che Filippo lasciassi al mondo di sé la maggiore, la più alta fabrica e la più bella di tutte l'altre fatte nel tempo de' moderni et ancora in quello degli antichi, mostrando che il valore negli artefici toscani, ancora che perduto fusse, non perciò era morto. Adornollo altresì di ottime virtù, fra le quali ebbe quella dell'amicizia, sì che non fu mai alcuno più benigno né più amorevole di lui. Nel giudicio era netto di passione; e dove e' vedeva il valore degli altrui meriti, deponeva l'util suo e l'interesso degli amici. Conobbe se stesso, et il grado della sua virtù comunicò a molti, et il prossimo nelle necessità sempre sovvenne; dichiarossi nimico capitale de' vizii et amatore di coloro che si essercitavono nelle virtù. Non spese mai il tempo invano, che o per sé o per l'o-pere d'altri, nelle altrui necessità non s'affaticasse e caminando gli amici visitasse e sempre sovvenisse.

Dicesi che in Fiorenza fu uno uomo di bonissima fama e di molti lodevoli costumi e fattivo nelle faccende sue, il cui nome era Ser Brunelesco di Lippo Lapi, il quale aveva auto l'avolo suo chiamato Cambio, che fu litterata persona, e il quale nacque di un fisico in que' tempi molto famoso, nominato Maestro Ventura Bacherini. Togliendo dunque Ser Brunelesco per donna una giovane costumatissima, della nobil famiglia degli Spini, per parte della dote ebbe in pagamento una casa, dove egli e i suoi figliuoli abitarono fin alla morte, la quale è posta dirimpetto a San Michele Berteldi, per fianco, in un biscanto passato la piazza degli Agli. Ora, mentre che egli si esercitava così e vivevasi lietamente, gli nacque l'anno 1377 un figliuolo al quale pose nome Filippo, per il padre suo già morto, della quale nascita fece quella allegrezza che maggior poteva. Laonde con ogni accuratezza gl'insegnò nella sua puerizia i primi principii delle lettere, nelle quali si mostrava tanto ingegnoso e di spirito elevato, che teneva spesso sospeso il cervello, quasi che in quelle non curasse venir molto perfetto. Anzi pareva che egli andasse col pensiero a cose di maggior utilità, per il che ser Brunelesco, che desiderava che egli facesse il mestier suo del notario o quel del tritavolo, ne prese dispiacere grandissimo. Pure, veggendolo continuamente esser dietro a cose ingegnose d'arte e di mano, gli fece imparare l'abbaco e scrivere; e dipoi lo pose all'arte dell'orefice, acciò imparasse a disegnare con uno amico suo. E fu questo con molta satisfazione di Filippo, il quale, cominciato a imparare e mettere in opera le cose di quella arte, non passò molti anni che egli legava le pietre fini meglio che artefice vecchio di quel mestiero. Esercitò il niello et il lavorare grosserie, come alcune figure d'argento che son dua mezzi profeti posti nella testa dell'altare di S. Iacopo di Pistoia tenute bellissime, fatte da lui al-l'Opera di quella città; et opere di bassi rilievi, dove mostrò intendersi tanto di quel mestiero, che era forza che 'l suo ingegno passasse i termini di quella arte. Laonde, avendo preso pratica con certe persone studiose, cominciò a entrar colla fantasia nelle cose de' tempi e de' moti, de' pesi e delle ruote, come si posson far girare e da che si muovono; e così lavorò di sua mano alcuni oriuoli bonissimi e bellissimi. Non contento a questo, nell'animo se li destò una voglia del-la scultura grandissima; e tutto venne poi che, essendo Donatello giovane tenuto valente in quella, et in espettazione grande, cominciò Filippo a praticare seco del continuo et insieme per le virtù l'un dell'altro si posono tanto amore, che l'uno non pareva che sapesse vivere senza l'altro. Laonde Filippo, che era capacissimo di più cose, dava opera a molte professioni, né molto si esercitò in quelle che egli fu tenuto fra le persone intendenti bonissimo architetto, come mostrò in molte cose che servirono per acconcimi di case; come al canto de' Ciai verso Mercato Vecchio, la casa di Apollonio Lapi suo parente che in quella (mentre egli la faceva murare) si adoprò grandamente. E il simile fece fuor di Fiorenza nella torre e nella casa della Petraia a Castello. Nel palazzo dove abitava la Signoria ordinò e spartì dove era l'ufizio delli ufiziali di monte, tutte quelle stanze e vi fece e porte e finestre, nella maniera cavata da lo antico, allora non usatasi molto per essere l'architettura rozzissima in Toscana.

Avendosi poi in Fiorenza a fare per i frati di S. Spirito una statua di S. Maria Madalena in penitenzia di legname di tiglio per portar in una cappella, Filippo, che aveva fatto molte cosette piccole di scoltura, desideroso mostrare che ancora nelle cose grandi era per riuscire, prese a far detta figura; la qual finita e messa in opera fu tenuta cosa molto bella; ma nell'incendio poi di quel tempio, l'anno 1471, abruciò insieme con molte altre cose notabili. Attese molto alla prospettiva, allora molto in male uso per molte falsità che vi si facevano; nella quale perse molto tempo, perfino che egli trovò da sé un modo che ella potesse venir giusta e perfetta, che fu il levarla con la pianta e proffilo e per via della intersegazione, cosa veramente ingegnosissima et utile all'arte del disegno. Di questa prese tanta vaghezza, che di sua mano ritrasse la piazza di S. Giovanni, con tutti quegli spartimenti della incrostatura murati di marmi neri e bianchi, che diminuivano con una grazia singulare, e similmente fece la casa della Misericordia, con le botteghe de' cialdonai e la volta de' Pecori e dall'altra banda la colonna di S. Zanobi. La qual opera essendoli lodata dalli artefici e da chi aveva giudizio in quell'arte, gli diede tanto animo che non sté molto che egli mise mano a una altra; e ritrasse il palazzo, la piazza e la loggia de' Signori, insieme col tetto de' Pisani e tutto quel che intorno si vede murato. Le quali opere furon cagione di destare l'animo agli altri artefici, che vi atteseno dipoi con grande studio. Egli particularmente la insegnò a Masaccio, pittore allor giovane, molto suo amico, il quale gli fece onore in quello che gli mostrò, come appare negli edifizii dell'opere sue; né restò ancora di mostrare a quelli che lavoravono le tarsie - che è un'arte di commettere legni di colori - e tanto gli stimolò, ch'e' fu cagione di buono uso e [di] molte cose utili che si fece di quel magisterio et allora e poi [di] molte cose eccellenti che hanno recato e fama et utile a Fiorenza per molti anni. Tornando poi da studio Mes-ser Paulo dal Pozzo Toscanelli et una sera trovandosi in uno orto a cena con certi suoi amici, invitò Filippo; il quale, uditolo ragionare de l'arti matematiche, prese tal familiarità con seco, che egli imparò la geometria da lui. E se bene Filippo non aveva lettere, gli rendeva sì ragione di tutte le cose, con il naturale della pratica e sperienza, che molte volte lo confondeva. E così seguitando, dava opera alle cose della Scrittura cristiana, non restando di intervenire alle dispute et alle prediche delle persone dotte, delle quali faceva tanto capitale per la mirabil memoria sua, che Messer Paulo predetto, celebrandolo usava dire che nel sentir arguir Filippo gli pareva un nuovo Santo Paulo. Diede ancora molta opera in questo tempo alle cose di Dante, le quali furon da lui bene intese circa i siti e le misure, e spesso, nelle comparazioni allegandolo, se ne serviva ne' suo' ragionamenti. Né mai col pensiero faceva altro che machinare et immaginarsi cose ingegnose e difficili. Né poté trovar mai ingegno che più lo satisfacesse, che Donato, con il quale domesticamente confabulando, pigliavano piacere l'uno dell'altro, e le difficultà del mestiero conferivano insieme. Ora, avendo Donato in que' giorni finito un Crucifisso di legno, il quale fu posto in S. Croce di Fiorenza sotto la storia del fanciullo che risuscitò S. Francesco dipinto da Taddeo Gaddi, volle Donato pigliarne parere con Filippo; ma se ne pentì perché Filippo gli rispose ch'egli aveva messo un contadino in croce, onde ne nacque il detto di: “Togli del legno, e fanne uno tu” come largamente si ragiona nella vita di Donato. Per il che Filippo, il quale, ancor che fusse provocato a ira, mai si adirava per cosa che li fusse detta, stette cheto molti mesi, tanto che condusse di legno un Crocifisso della medesima grandezza, di tal bontà e sì con arte, disegno e diligenza lavorato, che nel mandar Donato a casa inanzi a lui, quasi ad inganno (perché non sapeva che Filippo avesse fatto tale opera), un grembiule che egli aveva pieno di uova e di cose per desinar insieme, gli cascò mentre lo guardava uscito di sé per la maraviglia e per l'ingegnosa et artifiziosa maniera che aveva usato Filippo nelle gambe, nel torso e nelle braccia di detta figura, disposta et unita talmente insieme, che Donato, oltra il chiamarsi vinto, lo predicava per miracolo. La qual opera è oggi posta in Santa Maria Novella, fra la cappella degli Strozzi e de' Bardi da Vernia, lodata ancora dai moderni infinitamente. Laonde, vistosi la virtù di questi maestri veramente eccellenti, fu lor fatto allogazione dall'Arte de' Beccai e dall'Arte de' Linaiuoli, di due figure di marmo, da farsi nelle loro nicchie che sono intorno a Or San Michele, le quali Filippo lasciò fare a Donato da solo, avendo preso altre cure, e Donato le condusse a perfezzione. Dopo queste cose, l'anno 1401 fu deliberato, vedendo la scultura essere salita in tanta altezza, di rifare le due porte di bronzo del tempio e batistero di S. Giovanni: perché da la morte d'Andrea Pisano in poi, non avevono avuti maestri che l'avessino sapute condurre. Onde fatto intendere a quelli scultori che erano allora in Toscana l'animo loro, fu mandato per essi e dato loro provisione et un anno di tempo a fare una storia per ciascuno; fra i quali furono richiesti Filippo e Donato, di dovere ciascuno di essi da per sé fare una storia, a concorrenza di Lorenzo Ghiberti, Iacopo della Fonte, Simone da Colle, Francesco di Valdambrina e Niccolò d'Arezzo. Le quali storie finite l'anno medesimo e venute a mostra in paragone, furon tutte bellissime et intra sé differenti; chi era ben disegnata e mal lavorata, come quella di Donato, e chi aveva bonissimo disegno e lavorata diligentemente, ma non spartito bene la storia col diminuire le figure, come aveva fatto Iacopo della Quercia; e chi fatto invenzione povera e figure, nel modo che aveva la sua condotto Francesco di Valdambrina; e le peggio di tutte erano quelle di Niccolò d'Arezzo e di Simone da Colle, e la migliore quella di Lorenzo di Cione Ghiberti. La quale aveva in sé disegno, diligenza, invenzione, arte e le figure molto ben lavorate; né gli era però molto inferiore la storia di Filippo, nella quale aveva figurato un Abraam che sacrifica Isaac; et in quella un servo, che mentre aspetta Abraam, e che l'asino pasce, si cava una spina di un piede, che merita lode assai. Venute dunque le storie a mostra, non si satisfacendo Filippo e Donato se non di quella di Lorenzo, lo giudicarono più al proposito di quell'opera che non erano essi e gl'altri che avevano fatto le altre storie. E così a' Consoli con buone ragioni persuasero che a Lorenzo l'opera allogassero, mostrando che il publico et il privato ne sarebbe servito meglio; e fu veramente questo una bontà vera d'amici et una virtù senza invidia, et uno giudizio sano nel conoscere se stessi, onde più lode meritorono, che se l'opera avessino condotta a perfezzione: felici spiriti che mentre giovavano l'uno all'altro, godevano nel lodare le fatiche altrui; quanto infelici sono ora i nostri, che mentre ch'e' nuocono, non sfogati, crepano d'invidia nel mordere altrui. Fu da' Consoli pregato Filippo che dovesse fare l'opera insieme con Lorenzo, ma egli non volle, avendo animo di volere essere più tosto primo in una sola arte, che pari o secondo in quell'opera. Per il che la storia, che aveva lavorata di bronzo, donò a Cosimo de' Medici; la qual egli col tempo fece mettere in sagrestia vecchia di San Lorenzo, nel dossal dell'altare, e quivi si truova al presente, e quella di Donato fu messa nell'Arte del Cambio. Fatta l'allogazione a Lorenzo Ghiberti, furono insieme Filippo e Donato, e risolverono insieme partirsi di Fiorenza et a Roma star qualche anno, per attender Filippo all'architettura e Donato alla scultura. Il che fece Filippo, per voler esser superiore et a Lorenzo et a Donato, tanto quanto fanno l'architettura più necessaria al-l'utilità degl'uomini, che la scultura e la pittura. E venduto un poderetto che egli aveva a Settignano, di Fiorenza partiti, a Roma si condussero: nella quale, vedendo la grandezza degli edifizii e la perfezzione de' corpi de' tempii, stava astratto che pareva fuori di sé. E così dato ordine a misurare le cornici e levar le piante di quegli edifizii, egli e Donato continuamente seguitando, non perdonarono né a tempo né a spesa, Né lasciarono luogo che eglino et in Roma e fuori in campagna, non vedessino e non misurassino tutto quello che potevano avere che fusse buono. E perché era Filippo sciolto da le cure familiari, datosi in preda agli studii, non si curava di suo mangiare o dormire, solo l'intento suo era l'architettura, che già era spenta, dico gli ordini antichi buoni, e non la todesca e barbara, la quale molto si usava nel suo tempo. Et aveva in sé duoi concetti grandissimi: l'uno era il tornare a luce la buona architettura, credendo egli ritrovandola, non lasciare manco memoria di sé, che fatto si aveva Cimabue e Giotto; l'altro di trovar modo, se e' si potesse, a voltare la cupola di Santa Maria del Fiore di Fiorenza: le difficoltà della quale avevano fatto sì che, dopo la morte di Arnolfo Lapi, non ci era stato mai nessuno a cui fusse bastato l'animo, senza grandissima spesa d'armadure di legname, poterla volgere. Non conferì però mai questa sua invenzione a Donato, né ad anima viva; né restò che in Roma tutte le difficultà che sono nella Ritonda egli non considerasse, sì come si poteva voltare. Tutte le volte nell'antico aveva notato e disegnato, e sopra ciò del continuo studiava. E se per avventura eglino avessino trovato sotterrati pezzi di capitelli, colonne, cornici e basamenti di edifizii, eglino mettevano opere e gli facevano cavare, per toccare il fondo. Per il che si era sparsa una voce per Roma, quando eglino passavano per le strade, che andavano vestiti a caso, gli chiamavano quelli del tesoro, credendo i popoli ch'e' fussino persone che attendessino alla geomanzia per ritrovare tesori; e di ciò fu cagione l'avere eglino trovato un giorno una brocca antica di terra, piena di medaglie. Vennero manco a Filippo i denari, e si andava riparando con il legare gioie a orefici suoi amici che erano di prezzo; e così si rimase solo in Roma, perché Donato a Fiorenza se ne tornò, et egli con maggiore studio e fatica che prima, dietro alle rovine di quelle fabriche di continuo si esercitava. Né restò che non fusse disegnata da lui ogni sorte di fabbrica, tempii tondi e quadri, a otto facce, basiliche, aquidotti, bagni, archi, colisei, anfiteatri et ogni tempio di mattoni, da' quali cavò le cignature et incatenature, e così il girarli nelle volte; tolse tutte le collegazioni e di pietre e di impernature e di morse; et investigando a tutte le pietre grosse una buca nel mezzo per ciascuna in sotto squadra, trovò esser quel ferro, che è da noi chiamato la ulivella, con che si tira su le pietre; et egli lo rinovò e messelo in uso di poi. Fu adunque da lui messo da parte, ordine per ordine, dorico, ionico e corinzio: e fu tale questo studio, che rimase il suo ingegno capacissimo di potere veder nella immaginazione Roma come ella stava quando non era rovinata. Fece l'aria di quella città un poco di novità l'anno 1407 a Filippo; onde egli, consigliato da' suoi amici a mutar aria, se ne tornò a Fiorenza. Nella quale, per l'assenza sua, si era patito in molte muraglie, per le quali diede egli a la sua venuta molti disegni e molti consigli. Fu fatto il medesimo anno una ragunata d'architettori e d'ingegneri del paese, sopra il modo del voltar la cupola, dagli Operai di Santa Maria del Fiore e da' Consoli dell'Arte della Lana, intra' quali intervenne Filippo, e dette consiglio che era necessario cavare l'edi-fizio fuori del tetto e non fare secondo il disegno d'Arnolfo, ma fare un fregio di braccia XV d'altezza et in mezzo a ogni faccia fare un occhio grande, perché oltra che leverebbe il peso fuor delle spalle delle tribune, verrebbe la cupola a voltarsi più facilmente. E così se ne fece modelli e si messe in esecuzione.

Filippo, dopo alquanti mesi riavuto, essendo una mattina in su la piazza di S. Maria del Fiore con Donato et altri artefici, si ragionava delle antichità delle cose della scultura, e raccontando Donato che quando e' tornava da Roma aveva fatto la strada da Orvieto per veder quella facciata del Duomo di marmo, tanto celebrata, lavorata di mano di diversi maestri, tenuta cosa notabile in que' tempi; e che nel passar poi da Cortona entrò in Pieve, e vide un pilo antico bellissimo dove era una storia di marmo, cosa allora rara non essendosi disotterrata quella abbondanza che si è fatta ne' tempi nostri, e così seguendo Donato il modo che aveva usato quel maestro a condurre quell'opera, e la fine che vi era dentro, insieme con la perfezzione e bontà del magisterio, accese sì Filippo di una ardente volontà di vederlo, che così come egli era, in mantello, in cappuccio et in zoccoli, senza dir dove andasse, si partì da loro a piedi e si lasciò portare a Cortona dalla volontà et amore ch'e' portava all'arte. E veduto e piaciutogli il pilo, lo ritrasse con la penna in disegno; e con quello tornò a Fiorenza, senza che Donato o altra persona si accorgesse che fusse partito, pensando che e' dovesse disegnare o fantasticare qualcosa.

Così tornato in Fiorenza li mostrò il disegno del pilo, da lui con pazienza ritratto; per il che Donato si maravigliò assai, vedendo quanto amore Filippo portava all'arte. Stette poi molti mesi in Fiorenza, dove egli faceva segretamente modelli et ingegni, tutti per l'opera della cupola, stando tuttavia con gli artefici in su le baie; ché allora fece egli quella burla del Grasso e di Matteo, et andando bene spesso per suo diporto ad aiutare a Lorenzo Ghiberti a rinettar qualcosa in su le porte. Ma toccoli una mattina la fantasia, sentendo che si ragionava del far provisione di ingegneri che voltassino la cupola, si ritornò a Roma, pensando con più riputazione avere a esser ricerco di fuora che non arebbe fatto stando in Fiorenza. Laonde, trovandosi in Roma e venuto in considerazione l'opera e l'ingegno suo acutissimo, per aver mostro ne' ragionamenti suoi quella sicurtà e quello animo che non avevasi trovato negli altri maestri, i quali stavono smarriti insieme con i muratori, perdute le forze, e non pensando poter mai trovar modo da voltarla, né legni da fare una travata che fusse sì forte che regesse l'armadura et il peso di sì grande edifizio, deliberati vederne il fine, scrissono a Filippo a Roma, con pregarlo che venisse a Fiorenza. Et egli, che non aveva altra voglia, molto cortesemente tornò. E ragunatosi a sua venuta l'ufizio delli Operai di S. Maria del Fiore et i Consoli dell'Arte della Lana, dissono a Filippo tutte le difficultà, da la maggiore a la minore, che facevano i maestri, i quali erano in sua presenza nella udienza insieme con loro, per il che Filippo disse queste parole: “Signori Operai, e' non è dubbio che le cose grandi hanno sempre nel condursi difficultà, e se niuna n'ebbe mai, questa vostra l'ha maggiore che voi per avventura non avisate. Perciò che io non so che neanco gl'antichi voltassero mai una volta sì terribile come sarà questa, et io, che ho molte volte pensato all'arma-dure di dentro e di fuori, e come si sia, per potervi lavorare sicuramente, non mi sono mai saputo risolvere; mi sbigottisce non meno la larghezza, che l'altezza dell'edifizio; perciò che se ella si potesse girar tonda, si potrebbe tenere il modo che tennero i Romani nel voltare il Panteon di Roma, cioè la Ritonda, ma qui bisogna seguitare l'otto facce et entrare in catene et in morse di pietre, che sarà molto difficile. Ma ricordandomi che questo è tempio sacrato a Dio et alla Vergine, mi confido che, faccendosi in memoria sua, non mancherà di infondere il sapere dove non sia et agiugnere le forze e la sapienza e l'ingegno, a chi sarà autore di tal cosa. Ma che posso io in questo caso giovarvi, non essendo mia l'o-pera? Bene vi dico che se ella toccasse a me, risolutissimamente mi basterebbe l'animo di trovare il modo che ella si volterebbe, senza tante difficultà. Ma io non ci ho pensato su ancor niente, e volte che io vi dica il modo? Ma quando pure le Signorie Vostre delibereranno che ella si volti, sarete forzati non solo a fare esperimento di me che non penso bastare a consigliare sì gran cosa, ma a spendere et ordinare che fra uno anno di tempo, a un dì determinato, venghino in Fiorenza architettori, non solo toscani et italiani, ma todeschi e franzesi e d'ogni nazione, e proporre loro questo lavo-ro, acciò che disputato e risoluto fra tanti maestri, si cominci e si dia a colui che più dirittamente darà nel segno, o averà miglior modo e giudizio per fare tale opera. Né vi saperei dare io altro consiglio, né migliore ordine di questo”.

Piacque ai Consoli et agli Operai l'ordine et il consiglio di Filippo, ma arebbono voluto che in questo mentre egli avesse fatto un modello, e che ci avesse pensato su. Ma egli mostrava di non curarsene, anzi, preso licenzia da loro, disse esser sollecitato con lettere a tornare a Roma. Avvedutosi dunque i Consoli che i prieghi loro e degli Operai non era-no bastanti a fermarlo, lo feciono pregare da molti amici suoi, e non si piegando, una mattina che fu a dì 26 di maggio 1417, gli fecero gli Operai uno stanziamento di una mancia di danari, i quali si truovano a uscita a Filippo ne' libri del-l'Opera, e tutto era per agevolarlo. Ma egli, saldo nel suo proposito, partitosi pure di Fiorenza, se ne tornò a Roma, dove sopra tal lavoro di continuo studiò, ordinando e preparandosi per il fine di tale opera, pensando, come era certamente, che altro che egli non potesse condurre tale opera. Et il consiglio dato, del condurre nuovi architettori, non l'aveva Filippo messo inanzi per altro, se non perché eglino fussino testimoni del grandissimo ingegno suo; più che perché e' pensasse che eglino avessino ad aver ordine di voltar quella tribuna e di pigliare tal carico che era troppo difficile. E così si consumò molto tempo, inanzi che fussino venuti quegli architetti de' lor paesi, che eglino avevano di lontano fatti chiamare, con ordine dato a' mercanti fiorentini che dimoravano in Francia, nella Magna, in Inghilterra et in Ispagna; i quali avevano commissione di spendere ogni somma di danari, per mandare ed ottenere da que' principi, i più esperimentati e valenti ingegni che fussero in quelle regioni. Venuto l'anno 1420, furono finalmente ragunati in Fiorenza tutti questi maestri oltramontani, e così quelli della Toscana e tutti gli ingegnosi artefici di disegno fiorentini, e così Filippo tornò da Roma. Ragunaronsi dunque tutti nella Opera di Santa Maria del Fiore, presenti i Consoli e gli Operai, insieme con una scelta di cittadini i più ingegnosi, acciò che, udito sopra questo caso l'animo di ciascuno, si risolvesse il modo di voltare questa tribuna; chiamati dunque nella udienza, udirono a uno a uno l'animo di tutti, e l'ordine che ciascuno architetto sopra di ciò aveva pensato. E fu cosa bella il sentir le strane e diverse openioni in tale materia; perciò che chi diceva di far pilastri murati da 'l piano della terra, per volgervi su gli archi, e tenere le travate per reggere il peso; altri che egli era bene voltarla di spugne, acciò fusse più leggieri il peso: e molti si accordavano a fare un pilastro in mezzo, e condurla a padiglione, come quella di S. Giovanni di Fiorenza. E non mancò chi dicesse che sarebbe stato bene empierla di terra e mescolare quattrini fra essa, acciò che volta, dessino licenzia che chi voleva di quel terreno potessi andare per esso; e così in un subito il popolo lo portasse via senza spesa. Solo Filippo disse che si poteva voltarla senza tanti legni e senza pilastri o terra, con assai minore spesa di tanti archi e facilissimamente senza armadura.

Parve a' Consoli, che stavano ad aspettare quel bel modo, et agli Operai et a tutti que' cittadini, che Filippo avesse detto una cosa da sciocchi, e se ne feciono beffe ridendosi di lui; e si volsono, e li dissono ch'e' ragionasse d'altro che quello era un modo da pazzi, come era egli. Perché, parendo a Filippo di essere offeso, disse: “Signori, considerate che non è possibile volgerla in altra maniera che in questa; e ancora che voi vi ridiate di me, conoscerete (se non volete es-ser ostinati) non doversi né potersi far in altro modo. Et è necessario, volendola condurre nel modo ch'io ho pensato, che ella si giri col sesto di quarto acuto, e facciasi doppia, l'una volta di dentro e l'altra di fuori, in modo che fra l'una e l'altra si cammini. Et in su le cantonate degli angoli delle otto facce con le morse di pietra, s'incateni la fabbrica per la grossezza similmente, con catene di legnami di quercia si giri per le facce di quella. Et è necessario pensare a' lumi, alle scale et ai condotti, dove l'acque nel piovere possino uscire. E nessuno di voi ha pensato che bisogna avvertire che si possa fare i ponti di dentro per fare i musaici et una infinità di cose difficili, ma io, che la veggo volta, conosco che non ci è altro modo né altra via da potere volgerla che questa ch'io ragiono”. E riscaldato nel dire, quanto e' cercava facilita-re il concetto suo, acciò che eglino lo intendessino e credessino, tanto veniva proponendo più dubbii che gli faceva me-no credere e tenerlo una bestia et una cicala. Laonde, licenziatolo parecchie volte, et alla fine non volendo partire, fu portato di peso dai donzelli loro fuori dell'udienza, tenendolo del tutto pazzo. Il quale scorno fu cagione che Filippo ebbe a dire poi che non ardiva passare per luogo alcuno della città, temendo non fusse detto: “Vedi colà quel pazzo”. Restati i Consoli nell'udienza confusi, e dai modi de' primi maestri, difficili, e da l'ultimo di Filippo, a loro sciocco, paren-do loro come e' confondesse quell'opera con due cose: l'una era il farla doppia, che sarebbe stato pur grandissimo e sconcio peso; l'altra il farla senza armadura. Da l'altra parte Filippo, che tanti anni aveva speso nelli studii per avere questa opera, non sapeva che si fare e fu tentato partirsi di Fiorenza più volte. Pure volendo vincere gli bisognava armarsi di pazienza, avendo egli tanto di vedere, che conosceva i cervelli di quella città non stare molto fermi in un proposito. Averebbe potuto mostrare Filippo un modello piccolo che aveva fatto; ma non volle mostrarlo, avendo conosciuto la poca intelligenza de' Consoli, l'invidia degli artefici e la poca stabilità de' cittadini che favorivano chi l'uno e chi l'altro, secondo che più piaceva a ciascuno; et io non me ne maraviglio, facendo in quella città professione ognuno di sapere in questo quanto i maestri esercitati fanno, come che pochi siano quelli che veramente intendono: e ciò sia detto con pace di coloro che sanno. Quello, dunque, che Filippo non aveva potuto fare nel magistrato, cominciò a trattar in disparte, favellando or' a questo Consolo ora a quello Operaio, e similmente a molti cittadini, mostrando parte del suo disegno, gli ridusse che si deliberarono a fare allogazione di questa opera o a lui o a uno di que' forestieri. Per la qual cosa, inanimiti i Consoli e gli Operai e que' cittadini, si ragunarono tutti insieme, e gli architetti disputarono di questa materia; ma furon, con ragioni assai, tutti abbattuti e vinti da Filippo; dove si dice che nacque la disputa dell'uo-vo in questa forma: eglino arebbono voluto che Filippo avesse detto l'animo suo minutamente e mostro il suo modello, come avevano mostro essi il loro; il che non volle fare, ma propose questo a' maestri e forestieri e terrazzani, che chi fermasse in sur un marmo piano un uovo ritto, quello facesse la cupola, che quivi si vedrebbe l'ingegno loro. Tolto dunque un uovo, tutti qu' maestri si provarono per farlo star ritto, ma nessuno trovò il modo. Onde, essendo detto a Filippo ch'e' lo fermasse, egli con grazia lo prese e datoli un colpo del culo in sul piano del marmo, lo fece star ritto. Rumoreggiando gl'artefici che similmente arebbono saputo fare essi, rispose loro Filippo ridendo che gli arebbono ancora saputo voltare la cupola, vedendo il modello o il disegno. E così fu risoluto ch'egli avesse carico di condurre questa opera, e dettoli che ne informasse meglio i Consoli e gli Operai.

Andatosene dunque a casa, in sur un foglio scrisse l'animo suo più apertamente che poteva per darlo al magistrato in questa forma: “Considerato le difficultà di questa fabbrica, magnifici Signori Operai, trovo che non si può per nessun modo volgerla tonda perfetta, atteso che sarebbe tanto grande il piano di sopra, dove va la lanterna, che mettendovi peso rovinerebbe presto. Però mi pare che quegli architetti che non hanno l'occhio all'eternità della fabrica, non abbino amore alle memorie, né sappiano per quel che elle si fanno. E però mi risolvo girar di dentro questa volta a spicchi come stanno le facce e darle la misura et il sesto del quarto acuto: perciò che questo è un sesto che girato sempre pigne allo in su, e caricatolo con la lanterna, l'uno con l'altro la farà durabile. E vuole esser grossa, nella mossa da piè braccia tre e tre quarti, et andare piramidalmente strignendosi di fuora per fino dove ella si serra e dove ha a essere la lanterna. E la volta vuole essere congiunta alla grossezza di braccia uno et un quarto; poi farassi dal lato di fuora un'altra volta, che da piè sia grossa braccia due e mezzo, per conservare quella di dentro da l'acqua. La quale anco piramidalmente diminuisca a proporzione, in modo che si congiunga al principio della lanterna, come l'altra, tanto che sia in cima la sua grossezza duoi terzi. Sia per ogni angolo uno sprone, che saranno otto in tutto; et in ogni faccia due, cioè nel mezzo di quella, che vengono a essere sedici; e dalla parte di dentro e di fuori nel mezzo di detti angoli, in ciascheduna faccia, siano due sproni, ciascuno grosso da piè braccia quattro. E lunghe vadino insieme le dette due volte, piramidalmente murate, insino alla sommità dell'occhio chiuso dalla lanterna, per eguale proporzione. Facciansi poi ventiquattro sproni con le dette volte murati intorno, e sei archi di macigni forti e lunghi, bene sprangati di ferri, i quali sieno stagnati, e sopra detti macigni, catene di ferro, che cinghino la detta volta con loro sproni. Hassi a murare di sodo, senza vano, nel principio l'altezza di braccia cinque et un quarto, e di poi seguitar gli sproni, e si dividino le volte. Il primo e secondo cerchio da piè, sia rinforzato per tutto, con macigni lunghi per il traverso, sì che l'una volta e l'altra della cupola si posi in sui detti macigni. E nella altezza d'ogni braccia IX delle dette volte, siano volticciuole tra l'uno sprone e l'altro con catene di legno di quercia grosse, che leghino i detti sproni che reggono la volta di dentro: e siano coperte poi dette catene di quercia, con piastre di ferro per l'amor delle salite. Gli sproni murati tutti di macigni e di pietra forte, e similmente le facce della cupola tutte di pietra forte, legate con gli sproni fino all'altezza di braccia ventiquattro, e da indi in su si muri di mattoni, o vero di spugna, secondo che si delibererà per chi l'averà a fare, più leggieri che egli potrà. Facciasi di fuori un andito sopra gl'occhi, che sia di sotto ballatoio, con parapetti straforati d'altezza di braccia due, all'ave-nante di quelli delle tribunette di sotto; o veramente due anditi l'un sopra l'altro in sur una cornice bene ornata, e l'andito di sopra sia scoperto. L'acque della cupola terminino in su una ratta di marmo larga un terzo, e getti l'acqua dove di pietra forte sarà murato sotto la ratta; facciansi otto coste di marmo agli angoli nella superficie della cupola di fuori, grossi come si richiede et alti un braccio sopra la cupola, scorniciato a tetto, largo braccia due che vi sia del colmo e della gronda da ogni parte; muovansi piramidali dalla mossa loro, per infino alla fine. Murinsi le cupole nel modo di sopra, senza armadure, per fino a braccia trenta, e da indi in su in quel modo che sarà consigliato, per que' maestri che l'avera-no a murare; perché la pratica insegna quel che si ha a seguire”.

Finito che ebbe Filippo di scrivere quanto di sopra, andò la mattina al magistrato, e dato loro questo foglio, fu considerato da loro il tutto; et ancora che eglino non ne fussino capaci, vedendo la prontezza dell'animo di Filippo e che nessuno degli altri architetti non andava con miglior gambe, per mostrare egli una sicurtà manifesta nel suo dire col replicare sempre il medesimo in sì fatto modo, che pareva certamente che egli ne avessi volte dieci, tiratisi da parte i Consoli, consultorono di dargliene; ma che arebbono voluto vedere un poco di sperienza, come si poteva volger questa volta senza armadura, perché tutte l'altre cose approvavono. Al quale disiderio fu favorevole la fortuna, perché avendo già voluto Bartolomeo Barbadori far fare una cappella in S. Filicita e parlatone con Filippo, egli v'aveva messo mano e fatto voltar senza armadura quella capella ch'è nello entrare in chiesa a man ritta, dove è la pila dell'acqua santa, pur di sua mano; e similmente in que' dì ne fece voltare un'altra in S. Iacopo sopr'Arno per Stiatta Ridolfi, allato alla cappella dell'altar maggiore. Le quali furon cagione che gli fu dato più credito che alle parole. E così, assicurati i Consoli e gli Operai per lo scritto e per l'opera che avevano veduta, gli allogorono la cupola, facendolo capo maestro principale per partito di fave. Ma non gliene obligarono se non braccia dodici d'altezza, dicendoli che volevano vedere come riusciva l'opera; e che riuscendo come egli diceva loro, non mancherebbono fargli allogagione del resto. Parve cosa strana a Filippo il vedere tanta durezza e diffidenza ne' Consoli et Operai; e se non fusse stato che sapeva che egli era solo per condurla, non ci arebbe messo mano; pur, come disideroso di conseguire quella gloria, la prese e di condurla a fine perfettamente si obligò. Fu fatto copiare il suo foglio in su un libro dove il proveditore teneva i debitori et i creditori de' legnami e de' marmi, con l'obligo su detto; facendoli la provisione medesima per partito di quelle paghe che avevano fino allora date agli altri capi maestri. Saputasi la allogazione fatta a Filippo per gli artefici e per i cittadini, a chi pareva bene et a chi male, come sempre fu il parere del popolo e degli spensierati e degli invidiosi. Mentre che si faceva le provisioni per cominciare a murare, si destò su una setta fra artigiani e cittadini, e fatto testa a' Consoli et agl'Operai, dissono che si era corsa la cosa e che un lavoro simile a questo non doveva esser fatto per consiglio di un solo, e che se eglino fussin privi d'uomini eccellenti, come eglino ne avevono abbondanza, saria da perdonare loro; ma che non passava con onore della città, perché venendo qualche disgrazia, come nelle fabriche suole alcuna volta avvenire, potevano essere biasimati, come persone che troppo gran carico avessino dato a un solo, senza considerare il danno e la vergogna che al publico ne potrebbe risultare: e che però, per affrenare il furore di Filippo era bene aggiugnergli un compagno.

Era Lorenzo Ghiberti venuto in molto credito, per aver già fatto esperienza del suo ingegno nelle porte di Santo Giovanni, e che e' fusse amato da certi che molto potevano nel governo, si dimostrò assai chiaramente perché, nel vede-re tanto crescere la gloria di Filippo, sotto spezie di amore e di affezione verso quella fabbrica, operarono di maniera appresso de' Consoli e degli Operai che fu unito compagno di Filippo in questa opera. In quanta disperazione et amaritudine si trovassi Filippo, sentendo quel che avevano fatto gli Operai, si conosce da questo, che fu per fuggirsi da Fiorenza; e se non fussi stato Donato e Luca della Robbia che lo confortavano, era per uscire fuor di sé. Veramente empia e crudel rabbia è quella di coloro che, accecati dall'invidia, pongono a pericolo gli onori e le belle opere, per la gara del-la ambizione. Da loro certo non restò che Filippo non ispezzasse i modelli, abruciasse i disegni et in men di mezza ora precipitasse tutta quella fatica che aveva condotta in tanti anni. Gl'Operai, scusatisi prima con Filippo, lo confortarono a andare inanzi, che lo inventore et autore di tal fabrica era egli, e non altri; ma tuttavolta fecero a Lorenzo il medesimo salario che a Filippo. Fu seguitato l'opera con poca voglia di lui, conoscendo avere a durare le fatiche che ci faceva, e poi avere a dividere l'onore e la fama a mezzo con Lorenzo. Pure messosi in animo che troverrebbe modo che non durerebbe troppo in questa opera, andava seguitando insieme con Lorenzo nel medesimo modo che stava lo scritto dato agli operai. Destossi in questo mentre nello animo di Filippo un pensiero di volere fare un modello, che ancora non se ne era fatto nessuno; e così messo mano, lo fece lavorare a un Bartolomeo legnaiuolo, che stava dallo Studio. Et in quello, come il proprio, misurato appunto in quella grandezza, fece tutte le cose difficili, come scale alluminate e scure e tutte le sorti de' lumi, porte e catene e speroni; e vi fece un pezzo d'ordine del ballatoio. Il che avendo inteso, Lorenzo cercò di vederlo, ma perché Filippo gliene negò, venutone in collora, diede ordine di fare un modello egli ancora, accio che e' paresse che il salario che tirava non fusse vano e che ci fusse per qual cosa. De' quali modelli, quel di Filippo fu pagato lire cinquanta e soldi quindici; come si trova in uno stanziamento al libro di Migliore di Tommaso a dì tre d'ottobre nel 1419; et a uscita di Lorenzo Ghiberti lire trecento, per fatica e spesa fatta nel suo modello: causato ciò dalla amicizia e favore che egli aveva, più che da utilità o bisogno che ne avesse la fabbrica.

Durò questo tormento in su gli occhi di Filippo per fino al 1426, chiamando coloro Lorenzo parimente che Filippo, inventori; lo qual disturbo era tanto potente nello animo di Filippo, che egli viveva con grandissima passione. Fatto adunque varie e nuove immaginazioni, deliberò al tutto de levarselo da torno, conoscendo quanto e' valesse poco in quel-l'opera. Aveva Filippo fatto voltare già intorno la cupola fra l'una volta e l'altra dodici braccia e quivi avevano a mettersi su le catene di pietra e di legno: il che per essere cosa difficile, ne volle parlare con Lorenzo per tentare se egli avesse considerato questa difficultà. E trovollo tanto digiuno circa lo avere pensato a tal cosa, che e' rispose che la rimetteva in lui come inventore. Piacque a Filippo la risposta di Lorenzo, parendoli che questa fusse la via di farlo allontanare dal-l'opera e da scoprire che non era di quella intelligenza che lo tenevano gli amici suoi et il favore che lo aveva messo in quel luogo. Dopo, essendo già fermi tutti i muratori dell'opera, aspettavano di dovere cominciare sopra le dodici braccia e far le volte et incatenarle essendosi cominciato a stringere la cupola da sommo, per lo che fare erano forzati fare i ponti, acciò che i manovali e' muratori potessino lavorare senza pericolo, atteso che l'altezza era tale che solamente guardando allo ingiù faceva paura e sbigotimento a ogni sicuro animo. Stavasi dunque dai muratori e dagli altri maestri ad aspettare il modo della catena e de' ponti: né resolvendosi niente per Lorenzo né per Filippo, nacque una mormorazione fra i muratori e gli altri maestri, non vedendo sollecitare come prima; e perché essi, che povere persone erano, vivevano sopra le lor braccia, e dubitavano che né all'uno né all'altro bastasse l'animo di andare più su con quella opera, il meglio che sapevano e potevano, andavano trattenendosi per la fabrica, ristoppando e ripulendo tutto quel che era murato fino allora. Una mattina infra le altre, Filippo non capitò al lavoro, e fasciatosi il capo entrò nel letto, e continuamente gridando si fece scaldare taglieri e panni con una sollecitudine grande, fingendo avere mal di fianco. Inteso questo, i maestri che stavano aspettando l'ordine di quel che avevano a lavorare dimandarono Lorenzo quel che avevano a seguire: rispose che l'ordine era di Filippo e che bisognava aspettare lui. Fu chi gli disse: “Oh non sai tu l'animo suo?” “Sì”, disse Lorenzo “ma non farei niente senza esso.” E questo lo disse in escusazion sua, che non avendo visto il modello di Filippo e non gli avendo mai dimandato che ordine e' volesse tenere, per non parer ignorante, stava sopra di sé nel parlare di questa cosa e rispondeva tutte parole dubbie, massimamente sapendo essere in questa opera contra la voluntà di Filippo. Al quale durato già più di dua giorni il male, et andato a vederlo il proveditore dell'Opera et assai capomaestri muratori, di continuo li domandavano che dicesse quello che avevono a fare. Et egli: “Voi avete Lorenzo, faccia un poco egli”. Né altro si poteva cavare. Laonde, sentendosi questo, nacque parlamenti e giudizi di biasimo grandi sopra questa opera: chi diceva che Filippo si era messo nel letto per il dolore che non gli bastava l'animo di voltarla; e ch'e' si pentiva d'essere entrato in ballo. Et i suoi amici lo difendevano, dicendo esser, se pure era il dispiacere, la villania dell'avergli dato Lorenzo per compagno; ma che il suo era mal di fianco, causato dal molto faticarsi per l'o-pera.

Così dunque rumoreggiandosi, era fermo il lavoro, e quasi tutte le opere de' muratori e scarpellini si stavano; e mormorando contro a Lorenzo dicevano: “Basta ch'e' gli è buono a tirare il salario, ma a dare ordine ch'e' si lavori, no. O se Filippo non ci fusse, o se egli avessi mal lungo, come farebbe egli? Che colpa è la sua, se egli sta male?”. Gli Operai vistosi in vergogna per questa pratica, deliberorono d'andare a trovar Filippo; et arrivati, confortatolo prima del male, gli dicono in quanto disordine si trovava la fabbrica et in quanto travaglio gli avesse messo il mal suo. Per il che Filippo con parole appassionate, e dalla finzione del male, e dell'amore dell'opera: “O non ci è egli” disse, “Lorenzo? Che non fa egli? Io mi maraviglio pur di voi”. Allora gli risposono gli Operai: “E' non vuol far niente senza di te”. Rispose loro Filippo: “Lo farei ben io senza lui”. La qual risposta argutissima e doppia bastò loro; e partiti, conobbono che egli aveva male di voler far solo. Mandarono dunque amici suoi a cavarlo del letto, con intenzione di levar Lorenzo dell'o-pera; e così venuto Filippo in su la fabbrica, vedendo lo sforzo del favore in Lorenzo, e che egli arebbe il salario senza far fatica alcuna, pensò a un altro modo per scornarlo e per publicarlo interamente per poco intendente in quel mestiero; e fece questo ragionamento agli Operai, presente Lorenzo: “Signori Operai, il tempo che ci è prestato di vivere, se egli stesse a posta nostra come il poter morire, non è dubbio alcuno che molte cose che si cominciano, resterebbono finite, dove elleno rimangono imperfette; il mio accidente, del male che ho passato, poteva tormi la vita e fermare questa opera; però, acciò che se mai più io ammalassi o Lorenzo, che Dio ne lo guardi, possa l'uno o l'altro seguitare la sua parte, ho pensato che così come le Signorie Vostre ci hanno diviso il salario, ci dividino ancora l'opera, acciò che spronati dal mostrare ognuno quel che sa, possa sicuramente acquistar onore et utile appresso a questa republica. Sono adunque due cose le difficili, che al presente si hanno a mettere in opera: l'una è i ponti, perché i muratori possino murare, che hanno a servire dentro e di fuori della fabrica, dove è necessario tener su uomini, pietre e calcina, e che vi si possa tener su la burbera da tirar pesi, e simili altri strumenti; e l'altra è la catena, che si ha a mettere sopra le dodici braccia, che venga legando le otto facce della cupola et incatenando la fabrica, che tutto il peso che di sopra si pone, stringa e serri, di maniera che non sforzi o allarghi il peso, anzi egualmente tutto lo edifizio resti sopra di sé. Pigli Lorenzo, adunque, una di queste parte, quale egli più facilmente creda esequire, che io l'altra senza dificultà mi proverò di condurre, acciò non si perda più tempo”. Ciò udito fu forzato Lorenzo non ricusare per l'onore suo uno di questi lavori, et ancora che mal volentieri lo facesse, si risolvé a pigliar la catena, come cosa più facile, fidandosi ne' consigli de' muratori et in ricordarsi che nella volta di S. Giovanni di Fiorenza era una catena di pietra, dalla quale poteva trarre parte, se non tutto l'ordine. E così l'uno messo mano a' ponti, l'altro alla catena, l'uno e l'altro finì. Erano i ponti di Filippo fatti con tanto ingegno et industria, che fu tenuto veramente in questo il contrario di quello che per lo adietro molti si erano immaginati, perché così sicuramente vi lavoravano i maestri e tiravono pesi e vi stavano sicuri, come se nella piana terra fussino; e ne rimase i modelli di detti ponti nell'opera. Fece Lorenzo, in una dell'otto facce, la catena con grandissima difficultà; e finita fu dagli Operai fatta vedere a Filippo, il quale non disse loro niente, ma con certi amici suoi ne ragionò, dicendo che bisognava altra legatura che quella, e metterla per altro verso che non avevano fatto, e che al peso che vi andava sopra non era sufficiente, perché non stringeva tanto che fusse a bastanza, e che la provisione che si dava a Lorenzo era, insieme con la catena che egli aveva fatta murare, gittata via. Fu inteso l'umore di Filippo e li fu commesso che e' mostrassi come si arebbe a fare che tal catena adoperasse. Onde, avendo egli già fatto disegni e modelli, subito gli mostrò, e veduti dagli Operai e dagli altri maestri, fu conosciuto in che errore erano cascati per favorire Lorenzo; e volendo mortificare questo errore, e mostrare che conoscevano il buono, feciono Filippo governatore e capo a vita di tutta la fabbrica, e che non si facesse di cosa alcuna in quella opera se non il voler suo; e per mostrare di riconoscerlo li donorono cento fiorini, stanziati per i Consoli et Operai sotto dì 13 d'agosto 1423 per mano di Lorenzo Pauli notaio dell'O-pera, a uscita di Gherardo di Messer Filippo Corsini, e li feciono provisione per partito, di fiorini cento l'anno per sua provisione a vita. Così, dato ordine a far camminare la fabbrica, la seguitava con tanta obedienza e con tanta accuratezza, che non si sarebbe murata una pietra che non l'avesse voluta vedere. Dall'altra parte Lorenzo, trovandosi vinto e quasi svergognato, fu da' suoi amici favorito et aiutato talmente che tirò il salario, mostrando che non poteva essere casso, per infino a tre anni di poi. Faceva Filippo di continovo, per ogni minima cosa, disegni e modelli di castelli da murare, et edifizii da tirar pesi. Ma non per questo restavano alcune persone malotiche, amici di Lorenzo, di farlo disperare, con tutto il dì farli modelli contro, per concorrenza; intanto che ne fece uno maestro Antonio da Verzelli et altri maestri favoriti e messi inanzi ora da questo cittadino et ora da quell'altro, mostrando la volubilità loro, il poco sapere et il manco intendere, avendo in man le cose perfette e mettendo inanzi l'imperfette e disutili. Erano già le catene finite intorno intorno all'otto facce, et i muratori inanimiti lavoravano gagliardamente; ma sollecitati da Filippo più che 'l solito, per alcuni rabbuffi avuti nel murare, e per le cose che accadevano giornalmente, se lo erono recato a noia. Onde, mossi da questo e da invidia, si strinseno insieme i capi faccendo setta, e dissono che era faticoso lavoro e di pericolo, e che non volevon volgerla senza gran pagamento (ancora che più del solito loro fusse stato cresciuto) pensano per cotal via di vendicarsi con Filippo e fare a sé utile.

Dispiacque agli Operai questa cosa, et a Filippo similmente: e pensatovi su, prese partito un sabato sera di licenziarli tutti. Coloro, vistosi licenziare, e non sapendo che fine avesse ad avere questa cosa, stavano di mala voglia, quando il lunedì seguente, messe in opera Filippo dieci lombardi, e con lo star quivi presente, dicendo: “Fa qui così e fa qua”, gli istruì in un giorno tanto, che ci lavorarono molte settimane. Dall'altra parte i muratori, veggendosi licenziati e tolto il lavoro e fattoli quello scorno, non avendo lavori tanto utili quanto quello, messono mezzani a Filippo, che ritornarebbono volentieri, raccomandandosi quanto e' potevano. Così li tenne molti dì in su la corda del non gli voler pigliare, poi gli rimesse con minor salario, che eglino non avevono in prima; e così, dove pensarono avanzare, persono, e con il vendicarsi contro a Filippo, feciono danno e villania a se stessi.

Erano già fermi i romori e venuto tuttavia considerando, nel veder volger tanto agevolmente quella fabbrica, l'inge-gno di Filippo, e si teneva già, per quelli che non avevano passione, lui aver mostrato quell'animo che forse nessuno architetto antico o moderno nell'opere loro aveva mostro; e questo nacque perché egli cavò fuori il suo modello; nel quale furono vedute per ognuno le grandissime considerazioni che egli aveva imaginatosi, nelle scale, nei lumi dentro e fuori, che non si potesse percuotere nei bui per le paure e quanti diversi appoggiatoi di ferri, che per salire dove era la ertezza erano posti, con considerazione ordinati, oltra che egli aveva perfin pensato ai ferri, per fare i ponti di dentro, se mai si avesse a lavorarvi o musaico o pitture; e similmente per aver messo ne' luoghi men pericolosi le distinzioni degli smaltitoi dell'acque, dove elleno andavano coperte e dove scoperte, e, seguitando con ordine, buche e diversi apertoi, acciò che i venti si rompessino, et i vapori, insieme con i tremuoti, non potessino far nocumento, mostrò quanto lo studio nel suo stare a Roma tanti anni gli avesse giovato. Appresso, considerando quello che egli aveva fatto nelle augnature, incastrature e commettiture e legazioni di pietre, faceva tremare e temere a pensare che un solo ingegno fusse ca-pace di tanto, quanto era diventato quel di Filippo. Il quale di continovo crebbe talmente, che nessuna cosa fu, quantunque difficile et aspra, la quale egli non rendesse facile e piana; e lo mostrò nel tirare i pesi, per via di contrapesi e ruote che un sol bue tirava quanto arebbono appena tirato sei paia.

Era già cresciuta la fabbrica tanto alto, che era uno sconcio grandissimo, salito che uno vi era, inanzi si venisse in terra; e molto tempo perdevano i maestri nello andare a desinare e bere, e gran disagio per il caldo del giorno pativano. Fu adunque trovato da Filippo ordine che si aprissero osterie nella cupola con le cucine, e vi si vendesse il vino, e così nessuno si partiva del lavoro se non la sera. Il che fu a loro commodità, et all'opera utilità grandissima. Era sì cresciuto l'animo a Filippo, vedendo l'opera camminar forte, e riuscire con felicità, che di continuo si affaticava; et egli stesso andava alle fornaci dove si spianavano i mattoni, e voleva vedere la terra, et impastarla, e cotti che erano, gli voleva scerre di sua mano con somma diligenza. E nelle pietre a gli scarpellini guardava se vi era peli dentro, se eran dure, e dava loro i modelli delle ugnature e commettiture di legname e di cera, così fatti di rape; e similmente faceva de' ferramenti ai fabbri. E trovò il modo de' gangheri col capo e degli arpioni, e facilitò molto l'architettura, la quale certamente per lui si ridusse a quella perfezzione che forse ella non fu mai appresso i Toscani.

Era l'anno 1423 Firenze in quella felicità et allegrezza che poteva essere, quando Filippo fu tratto per il quartiere di San Giovanni, per maggio e giugno, de' Signori, essendo tratto per il quartiere di Santa Croce gonfaloniere di giustizia Lapo Niccolini. E se si truova registrato nel priorista Filippo di Ser Brunellesco Lippi, niuno se ne dee maravigliare, perché fu così chiamato da Lippo suo avolo, e non de' Lapi come si doveva, la qual cosa si vede nel detto priorista che fu usata in infiniti altri, come ben sa chi l'ha veduto o sa l'uso di que' tempi. Esercitò Filippo quell'uffizio e così altri magistrati ch'ebbe nella nostra città, ne' quali con un giudizio gravissimo sempre si governò. Restava a Filippo, veden-do già cominciare a chiudere le due volte verso l'occhio dove aveva a cominciare la lanterna (se bene egli aveva fatto a Roma et in Fiorenza più modelli di terra e di legno, dell'uno e dell'altro, che non s'erono veduti) a risolversi finalmente quale e' volesse mettere in opera. Per il che, deliberatosi a terminare il ballatoio, ne fece diversi disegni, che nell'opera rimasono dopo la morte sua; i quali dalla trascuratagine di que' ministri sono oggi smarriti. Et a' tempi nostri, perché si finisse, si fece un pezzo dell'una dell'otto facce: ma perché disuniva da quell'ordine, per consiglio di Michelagnolo Bonarroti, fu dismesso e non seguitato. Fece anco di sua mano Filippo un modello della lanterna, a otto facce, misurato alla proporzione della cupola, che nel vero, per invenzione e varietà et ornato, riuscì molto bello; vi fece la scala da salire alla palla, che era cosa divina, ma perché aveva turato Filippo, con un poco di legno commesso, di sotto dove s'en-tra, nessuno, se non egli, sapeva la salita. Et ancora che e' fusse lodato et avesse già abbattuto l'invidia e l'arroganza di molti, non poté però tenere, nella veduta di questo modello, che tutti i maestri che erano in Fiorenza non si mettessero a farne in diversi modi; e fino a una donna di casa Gaddi ardì concorrere in giudizio con quello che aveva fatto Filippo. Egli nientedimeno tuttavia si rideva della altrui prosunzione, e fugli detto da molti amici suoi che e' non dovesse mostrare il modello suo a nessuno artefice, acciò che eglino da quello non imparassero. Et esso rispondeva loro che non era se non un solo il vero modello, e gli altri erano vani. Alcuni altri maestri avevano nel loro modello posto delle parti di quel di Filippo, ai quali, nel vederlo, Filippo diceva: “Questo altro modello che costui farà, sarà il mio proprio”. Era da tutti infinitamente lodato, ma solo non ci vedendo la salita per ire alla palla, apponevano che fusse difettoso. Conclusero nondimeno gl'Operai di fargli allogazione di detta opera con patto però che mostrasse loro la salita; per il che Filippo, levato nel modello quel poco di legno che era da basso, mostrò in un pilastro la salita che al presente si vede in forma di una cerbotana vota; e da una banda un canale con staffe di bronzo, dove l'un piede e poi l'altro ponendo, s'a-scende in alto. E perché non ebbe tempo di vita, per la vecchiezza, di potere tal lanterna veder finita, lasciò per testamento che tal come stava il modello murata fusse, e come aveva posto in iscritto; altrimenti protestava che la fabbrica ruinerebbe essendo volta in quarto acuto, che aveva bisogno che il peso la caricasse, per farla più forte. Il quale edifizio non poté egli innanzi la morte sua vedere finito, ma sì bene tiratone su parecchie braccia. Fece bene lavorare e condurre quasi tutti i marmi che vi andavano, de' quali, nel vederli condotti, i popoli stupivano che fusse possibile che egli volesse che tanto peso andasse sopra quella volta. Et era opinione di molti ingegnosi che ella non fusse per reggere, e pareva loro una gran ventura che egli l'avesse condotta in sin quivi, e che egli era un tentare Dio a caricarla sì forte. Filippo sempre se ne rise, e preparate tutte le machine e tutti gli ordigni che avevano a servire a murarla, non perse mai tempo con la mente, di antivedere, preparare e provedere a tutte le minuterie, in fino che non si scantonassino i marmi lavorati nel tirarli su; tanto che e' si murarono tutti gli archi de' tabernacoli co' castelli di legname, e del resto, come si disse, v'e-rano scritture e modelli. La quale opera quanto sia bella, ella medesima ne fa fede, per essere d'altezza dal piano di terra a quello della lanterna, braccia 154, e tutto il tempio della lanterna braccia 36, la palla di rame braccia 4, la croce braccia otto, in tutto braccia 202. E si può dir certo che gli antichi non andorono mai tanto alto con le lor fabbriche, né si messono a un risico tanto grande che eglino volessino combattere col cielo; come par veramente che ella combatta: veggendosi ella estollere in tant'altezza, che i monti intorno a Fiorenza paiono simili a lei. E, nel vero, pare che il cielo ne abbia invidia, poi che di continuo le saette tutto il giorno la percuotono.

Fece Filippo, mentre che questa opera si lavorava, molte altre fabbriche le quali per ordine qui disotto narreremo.

Fece di sua mano il modello del capitolo in Santa Croce di Fiorenza, per la famiglia de' Pazzi, cosa varia e molto bella; e 'l modello della casa de' Busini per abitazione di due famiglie; e similmente il modello della casa e della loggia degli'Innocenti, la volta della quale senza armadura fu condotta: modo che ancora oggi si osserva per ognuno. Dicesi che Filippo fu condotto a Milano per fare al duca Filippo Maria il modello d'una fortezza, e che a Francesco della Luna, amicissimo suo, lasciò la cura di questa fabbrica degli Innocenti. Il quale Francesco fece il ricignimento d'uno architrave che corre a basso, di sopra, il quale secondo l'architettura è falso: onde tornato Filippo e sgridatolo, perché tal cosa avesse fatto, rispose averlo cavato dal tempio di San Giovanni che è antico. Disse Filippo: “Un error solo è in quello edifizio, e tu l'hai messo in opera”. Stette il modello di questo edifizio, di mano di Filippo, molti anni nell'Arte di Por Santa Maria, tenutone molto conto per un restante della fabbrica che si aveva a finire: oggi è smarritosi. Fece il modello della Badia de' canonici Regolari di Fiesole, a Cosimo de' Medici, la quale è molto ornata architettura, commoda et allegra et insomma veramente magnifica. La chiesa, le cui volte sono a botte, è sfogata, e la sagrestia ha i suoi commodi, sì come ha tutto il resto del monasterio. E quello che importa è da considerare che dovendo egli nella scesa di quel monte mettere quello edifizio in piano, si servì con molto giudizio del basso, facendovi cantine, lavatoi, forni, stalle, cucine, stanze per legne et altre tante commodità che non è possibile veder meglio; e così mise in piano la pianta dell'e-difizio. Onde potette a un pari fare poi le logge, il reffettorio, l'infermeria, il noviziato, il dormentorio, la libreria e l'al-tre stanze principali d'un monasterio. Il che tutto fece a sue spese il Magnifico Cosimo de' Medici, sì per la pietà che sempre in tutte le cose ebbe verso la religione cristiana, e sì per l'affezzione che portava a don Timoteo da Verona, eccellentissimo predicator di quell'ordine, la cui conversazione per meglio poter godere, fece anco molte stanze per sé proprio in quel monasterio, e vi abitava a suo commodo. Spese Cosimo in questo edifizio, come si vede in una inscrizzione, centomila scudi.

Disegnò similmente il modello della fortezza di Vico Pisano: et a Pisa disegnò la cittadella vecchia. E per lui fu fortificato il ponte a mare, et egli similmente diede il disegno alla cittadella nuova del chiudere il ponte con le due torri. Fece similmente il modello della fortezza del porto di Pesero. E ritornato a Milano, disegnò molte cose per il Duca e per il Duomo di detta città a' maestri di quello. Era in questo tempo principiata la chiesa di S. Lorenzo di Fiorenza per ordine de' popolani, i quali avevano il priore fatto capo maestro di quella fabbrica, persona che faceva professione d'in-tendersi e si andava dilettando dell'architettura per passatempo. E già avevano cominciata la fabbrica di pilastri di mattoni, quando Giovanni di Bicci de' Medici, il quale aveva promesso a' popolani et al priore di far fare a sue spese la sagrestia et una cappella, diede desinare una mattina a Filippo, e doppo molti ragionamenti, li dimandò del principio di S. Lorenzo e quel che gli pareva. Fu costretto Filippo da' prieghi di Giovanni a dire il parer suo; e per dirli il vero lo biasimò in molte cose, come ordinato da persona che aveva forse più lettere che sperienza di fabbriche di quella sorte. Laonde Giovanni dimandò a Filippo se si poteva far cosa migliore, e di più bellezza; a cui Filippo disse: “Senza dubbio, e mi maraviglio di voi, che essendo capo non diate bando a parecchi migliaia di scudi, e facciate un corpo di chiesa con le parti convenienti et al luogo et a tanti nobili sepoltuarii, che vedendovi cominciare, seguiteranno le lor cappelle, con tutto quel che potranno; e massimamente che altro ricordo di noi non resta, salvo le muraglie che rendono testimonio di chi n'è stato autore, centinaia e migliaia d'anni”. Inanimito Giovanni dalle parole di Filippo, deliberò fare la sagrestia e la cappella maggiore, insieme con tutto il corpo della chiesa, se bene non volsono concorrere altri che sette casati, appunto perché gli altri non avevano il modo. E furono questi: Rondinelli, Ginori, dalla Stufa, Neroni, Ciai, Marignolli, Martelli e Marco di Luca; e queste cappelle si avevono a fare nella croce. La sagrestia fu la prima cosa a tirarsi inanzi e la chiesa poi di mano in mano. E per la lunghezza della chiesa, si venne a concedere poi di mano in mano le altre cap-pelle a' cittadini pur popolani. Non fu finita di coprire la sagrestia, che Giovanni de' Medici passò a l'altra vita, e rimase Cosimo suo figliuolo. Il quale avendo maggior animo che il padre, dilettandosi delle memorie, fece seguitar questa la quale fu la prima cosa che egli facesse murare, e gli recò tanta delettazione, che egli, da quivi inanzi, sempre fino alla morte fece murare. Sollecitava Cosimo questa opera con più caldezza, e mentre si imbastiva una cosa, faceva finire l'al-tra. Et avendo preso per ispasso questa opera, ci stava quasi del continuo. E causò la sua sollecitudine, che Filippo fornì la sagrestia, e Donato fece gli stucchi, e così a quelle porticciuole l'ornamento di pietra e le porte di bronzo. E fece far la sepoltura di Giovanni suo padre, sotto una gran tavola di marmo retta da quattro balaustri in mezzo della sagrestia, dove si parano i preti: e per quelli di casa sua nel medesimo luogo fece separata la sepoltura delle femmine da quella de' maschi. Et in una delle due stanzette, che mettono in mezzo l'altare della detta sagrestia, fece in un canto un pozzo et il luogo per un lavamani. Et insomma in questa fabbrica si vede ogni cosa fatta con molto giudizio. Avevano Giovanni e quegli altri ordinato fare il coro nel mezzo, sotto la tribuna: Cosimo lo rimutò col voler di Filippo, che fece tanto maggiore la cappella grande, che prima era ordinata una nicchia più piccola, che e' vi si potette fare il coro come sta al presente; e finita, rimase a fare la tribuna del mezzo, et il resto della chiesa. La qual tribuna et il resto non si voltò se non doppo la morte di Filippo. Questa chiesa è di lunghezza braccia 144 e vi si veggono molti errori, ma fra gl'altri quello delle colonne messe nel piano, senza mettervi sotto un dado, che fusse tanto alto quanto era il piano delle base de' pilastri posati in su le scale; cosa, che al vedere il pilastro più corto che la colonna, fa parere zoppa tutta quell'opera. E di tutto furono cagione i consigli di chi rimase doppo lui, che avevono invidia al suo nome, e che in vita gli avevano fatto i modelli contro, de' quali nientedimeno erano stati, con sonetti fatti da Filippo, svergognati; e doppo la morte, con que-sto se ne vendicorono non solo in questa opera, ma in tutte quelle che rimasono da lavorarsi per loro. Lasciò il modello, e parte della calonaca de' preti di esso San Lorenzo finita, nella quale fece il chiostro lungo braccia 144.

Mentre che questa fabbrica si lavorava, Cosimo de' Medici voleva far fare il suo palazzo, e così ne disse l'animo suo a Filippo; che posto ogni altra cura da canto, gli fece un bellissimo e gran modello per detto palazzo, il quale situar voleva dirimpetto a S. Lorenzo su la piazza intorno intorno isolato. Dove l'artificio di Filippo s'era talmente operato, che, parendo a Cosimo troppo suntuosa e gran fabbrica, più per fuggire l'invidia che la spesa, lasciò di metterla in opera. E mentre che il modello lavorava, soleva dire Filippo che ringraziava la sorte di tale occasione, avendo a fare una casa, di che aveva avuto desiderio molti anni, et essersi abbattuto a uno che la voleva e poteva fare. Ma intendendo poi la resoluzione di Cosimo, che non voleva tal cosa mettere in opera, con isdegno in mille pezzi ruppe il disegno. Ma bene si pentì Cosimo di non avere seguito il disegno di Filippo, poi che egli ebbe fatto quell'altro; il qual Cosimo soleva dire che non aveva mai favellato ad uomo di maggior intelligenza et animo di Filippo.

Fece ancora il modello del bizzarrissimo tempio degl'Angeli per la nobile famiglia degli Scolari; il quale rimase imperfetto e nella maniera che oggi si vede, per avere i Fiorentini spesi i danari, che per ciò erano in sul Monte, in alcuni bisogni della città, o come alcuni dicono, nella guerra che già ebbero co' Lucchesi. Nel quale spesero ancora i danari che s